Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XII
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XII.
I Persiani rinchiusi nel forte anzi muoionvi consunti dalle fiamme che trattare di arrendimento col nemico. Liberalità di Cosroe nel fornire di vittuaglia Petra. — Sua accortezza nella costruzione d’un acquidotto. Bessa manda i prigionieri a Bizanzio: sfascia di muro la vinta città; lodato dall’imperatore, ed assai più dall’universale.
I. I Romani col vegnente giorno mandarono offerendo ai barbari nell’occupata rocca la salvezza della persona e la promessa d’un salvocondotto, nella più grande speranza che accoglierebbero la generosa proposta. Ma queglino ad ogni esortazione sordi non miravano che a resistere, e sebbene conoscessero la insuperabile impresa del lungamente durare a tanta fatica, pure voleansi rendere illustri con gloriosa morte. Bessa non di meno fermo nell’animo di ridestare in essi l’amore della vita, commette ad altro de’ suoi, ammaestratolo da prima nella parte che sostener dovea, di procedere alle mura per sovvenirgli di migliori consigli; ed il messo venutovi proferì le seguenti parole: «Da quale gravissima sciagura sorpresi, o valenti Persiani, vi abbandonate di questo modo all’ultimo dei mali, incontrandolo con sì periglioso ardimento e manifesto disprezzo della virtù guerresca? No, per vita mia, non opera da prode chi si getta pertinacemente a disperati risichi, nè da prudente chi rifiuta sommettersi ai vincitori. Non è turpe cosa nelle umane vicende il piegare ai destini della giornata, la necessità meritamente disdegnando vituperevoli titoli quando sia di speranze priva, o ridotta a penosissime condizioni; e tanto più ancora nella certezza che inevitabili mali hanno le più volte a compagno il perdono: guardatevi adunque dall’insistere animosi nel vostro evidente pericolo e dall’anteporre un vano orgoglio alla propria salvezza; pensate invece ne’ soli morti non darsi risorgimento, ma poter voi col vivere tornare al possesso della perduta libertà, se di tanto siete vaghi. Deliberate in fine coll’animo solo intento al vostro bene, sapientissimi estimando que’ consigli che possiamo tuttavia, sopraggiuntone il pentimento, correggere. Noi, come portano le dottrine dei Romani seguaci di Cristo, vi abbiamo per iscusati nella vostra bramosia di morte, ed avvegnachè vi rimiriamo così non curanti la vita e dispreggiatori della luce, pure con benignità somma vi trattiamo. E di vero che mai chiediamo da voi per accordarvi salvezza, del passare all’infuori ad un miglior reggimento, e dell’avere a monarca anzi Giustiniano che Cosroe? Nè indugerete un istante ad ottenere la più solenne confermagione dell’udita proposta. Il perchè fatti arbitri pienamente d’una miglior sorte non vogliate essere voi medesimi gli artefici de’ vostri mali, nè ascrivere ad eroico valore il condurre baldamente intra le angustie la vita, quando al tutto manchi ogni speme di lor alleviamento; costanza a miglior ragione da appellarsi fanatismo di morte, che non illustre impresa. È prode al contrario colui che soffre e dura pazientemente le avversità donde ha fiducia uscirne con qualche futuro vantaggio; nè un volontario passar di questa vita riscuote gli umani applausi, quando il motivo che lo determina mal regge al confronto della speranza d’una sorte migliore, essendo mai sempre la violenta, disutile e precipitata distruzione di noi stessi giudicata follia, e a diritto lo sconsigliato ardimento d’incontrarla con ispontanea deliberazione si dichiara dal savio non più che turpe larva di fortezza. Ricordivi alla per fine che peccate coll’operar vostro in ingratitudine verso il Nume, il quale volendo perdervi non avrebbe certamente, a parer mio, permesso che cadeste nelle mani d’un vincitore tutto propenso a salvarvi. Tale in verità è l’animo de’ Romani per voi: consigliatevi dunque a vicenda, e risolvete se vi torni meglio di venire a più miti consigli.»
II. Si tacque il messo, e la guernigione disdegnando al tutto udirne ed assordita dalla caparbietà sua finse di nulla intendere. I Romani allora comandati dal maestro de’ militi appiccarono fuoco alla rocca siccome l’unico spediente a conquistarla. Elevatesi di molto le fiamme i barbari s’aveano davanti agli occhi la morte, persuasissimi di tramutarsi ben presto in cenere, nè più confortavali speranza comunque rendutosi vano ogni spediente di campare la vita. Ricusarono impertanto di sommettersi ai Romani, ed alla costoro presenza in un atomo tutti insiememente furono colla rocca arsi dal fuoco. Apparve allora quanto al re stesse a cuore la Lazica, fidata egli avendo la salvezza di Petra a’ suoi migliori guerrieri, ed in essa deposte armi in tanta copia, che addivenute bottino de’ vincitori ogni soldato n’ebbe per cinque volte il suo guernimento, sebbene pur molte ne fossero dall’incendio consunte. Vi si rinvenne parimente grande ricolta di grani, di carni salate e di altra vittuaglia, capace di supplire per un lustro i bisogni dell’intero presidio; mancava unicamente il vino, essendosi dai Persiani fatta provvigione di solo aceto e di sufficiente quantità di civaie per formarvi la bevanda loro. I Romani poi al vedere nella città l’acqua sgorgante da canale artefatto quasi di sè per maraviglia uscirono, e solo riebbersi quando la scaltra costruzione degli occulti acquidotti fu loro manifesta: ora passo a dirne.
III. Cosroe quando guernì Petra espugnata dalle sue armi, fermissimamente persuaso che i Romani procurerebbero del meglio loro di tornarne al possesso, e darebbonsi di lancio a tagliare l’acquidotto, rivolse tutti i suoi pensieri ad allontanarne le gravissime conseguenze. Tripartita per tanto l’acqua ivi raccolta, e molto profondato il suolo vi costruì tre canali; uno vo’ dire nella più ima parte, e ricopertolo di terra e pietre in sino alla metà dello scavamento, altro gliene soprappose. Empiuta in fine per intiero la fossa ne aggiunse un terzo a tutti palese; di modo che il canale senza darne il minore sospetto procedeva in tre ordini diviso. I Romani affatto ignari di tale artifizio, al cominciar dell’assedio rottane la visibile parte non cercarono di vie più penetrare abbasso, ed abbandonata immaturamente l’impresa viveansi falsamente certi, gabbati dall’infingardaggine loro, che i rinchiusi patissero già diffalta d’acqua. Col proseguire poi dell’assedio vengono a sapere da alcuni prigionieri nemici che l’acquidotto suppliva tuttavia i bisogni di là entro. Spinto allora innanzi lo scavamento rinvengovi l’altro sottoposto canale, e messolo in pezzi credonsi apportare l’ultimo crollo ai nemici, dal passato non ritraendo profittevoli conseguenze nel caso loro. Espugnata col tratto successivo la città, mirandola provveduta d’acqua, siccome diceva, ne maravigliarono grandemente non potendone argomentare la derivazione. Se non che avutane pur ora dagli stessi prigionieri notizia conobbero ad opera finita la persiana diligenza nelle costruzioni, e la trascurataggine propria nell’eseguito lavoro. Bessa tosto spedi l’intero novero de’ mancipj a Bizanzio e sfasciò delle mura Petra, onde in processo di tempo non ne avessero nuove molestie i Romani. Giustiniano approvato il tutto altamente lodò il coraggio e la prudenza del duce nell’avere occupato e diroccato dalle fondamenta quelle mura. Di tal guisa Bessa condotta a buon termine e con grande valentia l’impresa ridonò al suo nome il perduto splendore. Egli per verità eletto a comandare in Roma il presidio destato avea negli animi di quelle genti, viva essendo per anche la memoria del suo antico valore, bellissime speranze, ma diportatosi male nella guerra cooperò alla caduta del forte in potere dei Gotti, come scrivea negli antecedenti libri, colla perdita della massima parte dei cittadini; restituitosi non di meno presso l’imperatore n’ebbe l’incarico di combattere i Persiani. Laonde riusciva presso che di generale biasimo la sovrana scelta, e tutti si facevan beffe di lui che destinava a sì gravi faccende un duce lasciatosi turpemente vincere dai Gotti, e prossimo alla tomba in causa degli anni. Così appalesavasi la pubblica opinione, allorchè addivenuto maestro de’ militi racquistò la fama di prode e fortunato capitano. Egli è fuor di dubbio che le cose de’ mortali non dipendono dall’umano senno, ma dal volere e dalla provvidenza del Nume, aventi da noi il nome di Fortuna, perchè ignoriamo le cause da cui ripetere il fine delle nostre azioni, dicendosi fortuito dal volgo quanto sembragli accadere contra il proprio intendimento; ma sia lecito ad ognuno il giudicarne della guisa che da lui ritiensi migliore.