Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XI

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CAPO XI.

Fine della tregua. Scambievoli ambascerie. Fasto del reale ambasciadore Isdiguna. Il turcimanno Braducione morto da Cosroe. — Il muro di Petra, cinta d’assedio, minato indarno dagli imperiali. — Dei Sabiri chi favoreggiatore di Giustiniano, chi de’ Persiani. Leggierissima ariete, di nuova invenzione. Le truppe reali tentano d’incendiare colla nafta, detta altrimenti olio di Medea, le macchine approssimate alla città. Mirabile forza del vecchio Bessa maestro de’ militi. Persiani consunti dalle fiamme in una torre di legno. — La città apre le porte agli assediatori.

I. A tale scoglio ruppero la contraria fortuna ed il mal talento di Anatozado, e qui terminò l’anno quinto della tregua. Giustiniano Augusto allora spedì ambasciadore a Cosroe Pietro patrizio e maestro degli ufficii per dare pace a tutto l’Oriente; cui il re accommiatò colla promessa che seguirebbelo tosto alcuno de’ suoi a fine di conciliare le controversie in modo reciprocamente vantaggioso. Di fatti non guari tempo dopo tornò a mandare Isdiguna, uomo ampollosissimo, [p. 470 modifica]arrogante e più d’ogni dire superbo, il cui fasto ed orgoglio erano già incomportabili a tutti li Romani. Menava egli seco la consorte, la prole, il fratello, ed uno strabocchevole codazzo di servidorame, appresentando quell’immenso corteo l’imagine di ordinato esercito in cammino per venire alle prese col nemico. Gli vedevi a’ fianchi due ottimati delle cospicue famiglie persiane, ed aventi entrambi cinto il capo di aureo diadema. I Bizantini di malissimo animo tolleravano che Giustiniano Augusto trattasselo con vie maggior cortesia e grandezza di quanto comportavane il grado. Non tornò con esso in Bizanzio Braducione ucciso, come vuol la fama, da Cosroe pel solo delitto di essersi assiso alla mensa del romano imperatore. «Giammai, diceva il re, sarebbesi riputato degno di cotanta onoranza un turcimanno, s’egli tradito non avesse le nostre facende.» Altri pretendono cbe da Isdiguna venisse accusato di un clandestino abboccamento co’ Romani. Questo ambasciatore nella sua prima comparsa all’imperiale cospetto nè molto, nè poco ragionò di pace, querelandosi unicamente che dalle genti di lui si fosse violata la tregua, avendo Areta ed i Saraceni confederati dell’imperio, non ancora spirato il termine, pigliato a molestare Alamandaro; aggiunse inoltre cose di più lieve momento ed immeritevoli a mio credere di venir qui riprodotte.

II. Nel mezzo di tali faccende Bessa con tutte le romane truppe assedia Petra, ed imprende a minarne il muro laddove anni prima Dagisteo, in forza di scavamento, avealo atterrato, e qui esporrò perchè si desse [p. 471 modifica]mai sempre la preferenza a questa parte in sì ardua impresa. I primi edificatori della città posero quasi tutte le fondamenta delle mura sopra una rupe valendosi a sostenerle, per breve intervallo, d’un terrapieno, ed appunto laddove la città volge all’Occaso aveavi siffatto muro non molto largo, ed afforzato nei fianchi da scoglio ben resistente al ferro. Ivi adunque tanto Dagisteo in prima quanto Bessa da poi diedero mano al lavoro, compassata innanzi tutto e stabilita entro idonei termini la estensione dello scavamento, vietando la natura del luogo di sopravanzare i fissati limiti. Sciolto l’assedio i Persiani a fine di ripararne le rovine sostituirono al primo tenore di fabbricazione il seguente. Riempiuto di ghiaia il vuoto fatto dai nemici aveanvi soprapposte grosse travi piallate colla maggior diligenza e commesse insieme per modo che le superficie loro formassero larghissimo piano; su questa base quindi, ritenuta validissima, innalzaronvi forte muro, ed i Romani per nulla sapevoli dell’operato estimavano scavarne le fondamenta. Coll’essersi poi sottratta grande copia di terra messa a sostegno delle travi da me testè rammentate n’ebbe danno il soprastante lavoro, e caddene parte, ma nel cader suo non alterò l’ordine delle pietre, discendendo tutto intiero perpendicolarmente, come se a bello studio con idonei artifizj fossevi calato, e vi si arrestò ritto in piedi con solo discapito della pristina sua elevazione; è uopo dire pertanto che il legname non più sorretto dalla ghiaia sprofondasse con tutta la sostenuta mole, senza fornire al nemico più agevole messo di penetrare là entro. Imperciocchè [p. 472 modifica]i Persiani accorsivi di subito in grandissimo numero tornarono ad accrescere ben bene la parte in difetto. Gl’imperiali fuori di sè mirando la triste fine delle loro fatiche più non sapevano che si fare, impediti dal riempimento di proseguire la fossa, e di valersi dell’ariete, per la inclinazione del terreno su cui ergevasi lo scavato muro, non consentendo queste macchine d’essere trasportate che in luoghi piani, o di assai lieve pendio.

III. Volle non di meno il fato che pochi barbari Sabiri fossero capitati nel romano campo, ed attendine il motivo. Costoro, unnica genie divisa in molti regolari principati, abitano presso del Caucaso, e molti de’ capi stretto avevano antichi legami di amicizia coll’imperatore, altri col re persiano, il perchè ambo i monarchi sogliono largire, non tutti gli anni ma negli urgenti casi quantità d’oro a cosiffatti sozj. Giustiniano Augusto adunque invitando gli amici Sabiri ad aiutarlo nella cominciata guerra mandovvi tale de’ suoi coll’incarico di splendidamente presentarli. Se non che estimando mal sicuro il procedere col ricco dono al Caucaso, nemiche schiere occupando la interposta regione, arrivato agli steccati di Bessa e delle romane truppe assediatrici di Petra spedì ai Sabiri dicendo che genti paesane venissero di subito a lui per ricevere l’imperiale offerta. I barbari all’annunzio inviano tre ottimati con qualche scorta nella Lazica; questi pervenutivi e mescolatisi co’ Romani vollero aver parte alla espugnazione delle mura indottivi dall’abbattimento degli assediatori; laonde mirandoli nella massima titubanza ed incapaci di consiglio nelle [p. 473 modifica]presenti loro traversie, costruirono eglino stessi tale macchina, quale non venne mai in pensiero a Medo o Romano, sebbene fossevi ognora nei regni loro ed abbiavi numero immenso di artefici, ed agli uni ed agli altri occorresse di continuo valersene per gli assalimenti di fortificazioni erette in luoghi elevati e di malagevole accesso. Non fuvvi tuttavia mente capace d’immaginare l’artifizio usato allora da que’ barbari; è uopo così dire che il procedere del tempo arricchisca l’uomo di nuovi trovati. I Sabiri adunque fannosi di netto a comporre un’ariete ben differente dalle comuni, imperciocchè lunge dal formarla con travi poste perpendicolarmente e di traverso, fasci di grosse verghe supplivanne i lati, e quindi impenetrabili cuoj tutto all’intorno coprivanla, tale che non perdute le sembianze dell’ariete racchiudeva una sola trave nel mezzo sospesa, com’è l’usanza, da lunghe catene, ed avente la testa foggiata a mo’ di spada e tutta ferrea, simile alla punta d’una freccia, destinata con percuotimenti continui ad abbattere le mura. Fu poi di tanta leggierezza che non era uopo nel suo interno di braccia per trascinarla; ma gli stessi quaranta individui prescelti a spignere la trave contro al muro a tutto bell’agio portavanla sugli omeri loro, riparati mercè delle pelli da offesa comunque. I barbari adunque compierono tre di questi artifizj valendosi delle travi ferrate pendenti nelle arieti di antico stile e di malagevolissimo traslocamento a motivo del peso. Terminatone il lavoro quaranta romani militi nerboruti e prodi li condussero alle mura, procedendovi dai fianchi guerrieri armati [p. 474 modifica]ottimamente di lorica, elmo ed aste guernite in punta di ferrei uncini, coll’intendimetito di usarne per gittare a terra le smosse pietre ed allontanarle quando la testa dell’ariete spinta contro il riparo avessene sconciata la costruzione. Dagli assediatori postasi mano all’opera, il muro di già sotto i frequenti colpi iva crollando, e dalle due bande i militi svellevano colle picche il disunito materiale; nè più troveasi dubbio intorno alla pronta espugnazione della città. Se non che in questa ne’ Persiani destossi il pensiero di trasportare ai merli una torre di legno da lungo tempo ammannita, e di mandarvi in cima bellicosissimi guerrieri loricati ai petti, ed aventi in testa e nelle altre parti della persona terribili coprimenti guerniti dei ferrei chiodi. E’ lanciavano sulle romane arieti piccoli vasi pieni di solfo, bitume e veleno (detto nafta dai Medi, olio di Medea dai Greci) tutti in fiamme, di maniera che per poco non le incenerarono completamente. All’inopinato caso que’ dai lati, come ho detto, colle uncinate picche, delle quali ho pur fatto menzione, afferrando i funesti recipienti calavanli dalle macchine sul terreno; ma vedevansi tuttavia nella impossibilità di lungamente durare in sì penoso lavoro consumando il fuoco al primo toccamento, ove con prontezza somma non si rimovesse, ogni cosa. Di questo modo erano qui le faccende.

IV. Bessa vestito anch’egli il corsaletto e fatte impugnare le armi alle truppe ordinò che si appoggiassero le scale alla diroccata parte del muro, ed avendole per poco esortate a non perdere la opportunità di fare, [p. 475 modifica]compiè operando il resto dell’aringa. Egli avea oltrepassato gli anni settanta, e quantunque già logoro di forze fu il primo a salire. In allora e Medi e Romani pigliarono a combattere per modo valorosamente che d’altrettale esempio, a mio avviso, manca l’età nostra. Due mila e trecento erano i barbari, ed i Romani sei mila, e pressochè tutti o vi giuntarono la vita, o riportaronne ferite, ben pochi rimanendo entro la città illesi della persona. Imperterriti gli imperiali cimentavansi alla salita, ed i Persiani con grave travaglio ributtavanli giuso. Dopo gravissima perdita da ambe le parti avea il presidio per poco superato il pericolo, nè agli assalitori giovava lo spignersi animosamente su di lunghissime scale ed il combattere ad una col nemico dai merli, poichè in gran numero stramazzavano spenti. Lo stesso Bessa non fu esente dal venir precipitato abbasso; al quale sinistro elevatesi da tutti fortissime grida, i barbari aocchiatolo prosteso in terra lo fecero bersaglio de’ colpi loro; ma pronte le sue lance, armate di lorica e cimiero, attorniatolo riparavanne le membra cogli scudi, e ristrettesi insieme a’ suoi fianchi, e formatavi sopra un testuggine adoperavano possentemente a guarentirlo dalle offese; veniva intanto gran fracasso dai dardi senza posa diretti a quella volta, e su per gli scudi e le altre armature spezzantisi. Ognuno faceva scempio di sè colle grida, coll’incessante anelito e colla fatica: di più tutto intento l’esercito alla conservazione del proprio duce infrenava i barbari avventando frecce a nembo lor contro. Bessa in questa sentendosi aggravato dal [p. 476 modifica]corsaletto, e per sè stesso poco snello a cagione della soverchia grassezza e dell’avanzatissima età sua, come ho narrato, non potea levarsi in piedi; fu tuttavia in sì grave periglio d’inalterata mente, e subito escogitò il mezzo di provvedere a sè stesso ed alle romane cose. Volle dunque essere tosto condotto lunge di là, e guardie piene di zelo ne fecero il comando chi sostenendolo, e chi dai lati coprendolo cogli scudi, e conformando lor passi a quelli de’ portatori onde allontanarne le nemiche offese. Quindi superato il pericolo surge, e confortati gli animi de’ presenti fa ritorno alle mura, ove messo il piede su d’una scala prende ancora col massimo coraggio a tentare la salita: l’esercito spettatore di sì raro esempio muove anch’egli ad espugnarle con portentose azioni. Il presidio sopraffatto dal timore chiede breve tregua per affardellare e, consegnata la città, partirsene; Bessa paventando maliziosa la proposta, e solo tendente a riparare i guasti nell’addimandata tregua, rispose di non poter interrompere l’assalto; che se bramasse il Medo ragionar seco di accordi, avrebbene tutto l’agio, anche nel fervor della battaglia, portandosi laddove sarebbegli per lui indicato; non accoltasi dal nemico la offerta con vie più accanimento e con iscambievole sorte prosegue la pugna. Mentre poi aggiravasi ancora incerta la vittoria d’improvviso cadde il muro per l’addietro scavato nelle fondamenta dai Romani: vi si accorre da ambe le parti, ma gli assediatori, sebbene divisi in due corpi, assai più forti di numero, vie maggiormente cogli archi e col sospignersi innanzi addivenivan [p. 477 modifica]terribili agli avversarj, i quali pigliati di mezzo non potevan opporre, come da prima, valida resistenza, ed avvolti in doppia mischia appalesavano la radezza dello schieramento loro. Di tal modo procedeva la contesa, non riuscendo agli uni allontanare il nemico sì dappresso, nè agli altri di aprirsi un varco per entrare nella città, quando l’armeno Giovanni di Tomaso, cognominato Guzes, partesi dai compagni col piccolo drappello di Armeni da lui comandati per inerpicare su d’un precipizio da nessuno estimato soggetto ad assalimenti; giuntovi ed uccisene le guardie ascende ai merli, e pur quivi morta una delle scolte, coraggiosissimo Persiano, rende agevole a suoi l’entrata in Petra.

V. In questo mezzo gli offensori dalla torre di legno appiccarono fuoco a moltissimi vasi di materie combustibili coll’intendimento che in maggior copia lanciati arderebbero colle imperiali macchine la man d’opera in esse, ben conoscendo vano ogni sforzo per liberarsi da tante molestie co’ soli dardi. Se non che surto di repente con romor sommo contrario e gagliardissimo Austro incendiò in un baleno il legname della torre, nè il presidio fu pronto ad accorgersi del nuovo sconcio, tutto del suo lavoro occupato, e distratto dal tumulto, dalla paura, da eccessivo conturbamento e privo quasi de’ sensi, colpa gli urgenti bisogni. Crescendo a mano a mano la fiamma alimentata dall’oglio da Medea nomato e da altre infiammabili materie pervenne da ultimo a ridurre per intiero in cenere la torre ed i racchiusivi difensori. Questi ardenti [p. 478 modifica]caddero chi entro, chi fuor delle mura, dove pugnavano le arieti co’ militi postivi dai lati. Gli imperiali in fine veduto il presidio nella massima costernazione, messo in non cale ogni ostacolo occuparono armata mano la città, passando i Persiani con precipitosa fuga, ed in numero non più di cinquecento, a guernire la rocca. I nostri fecero prigionieri gli altri tutti, non meno forse che settecento trenta, ed intra essi ne rinvennero soli diciotto sani della persona, vo’ dire liberi da ferite. I vincitori anch’eglino soggiacquero a grave perdita di valorosissimi personaggi, ed in ispecie ricordiamo Giovanni di Tomaso, il quale dopo illustri pruove di valore ne’ combattimenti spirò colpito da un sasso scagliatogli nel mettere il piede nella città.