XXXIII. L'ultimo capitolo potrebbe essere il primo

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XXXIII. L'ultimo capitolo potrebbe essere il primo
XXXII

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XXXIII.


L’ULTIMO CAPITOLO POTREBBE ESSERE IL PRIMO.


Ho fatto ritorno il giorno seguente a Milano in modo definitivo.

Ho riposato nel mio letto, cosa che non mi succedeva da molto tempo. Dolce, caro, soffice lettuccio mio. Così elegante!

Dopo tante emozioni e disinganni, temevo di soffrire di insonnia. Invece ho dormito abbastanza bene: la quale cosa è prova che i nervi sono sani e non mi ammalerò mai di neurastenia, perchè la storia registra casi gravi di follia e di suicidio per sventure come le mie.

Però la tranquillità del mio sonno è stata turbata, nel bel mezzo della notte, da una visione di sogno molto brutta.

La mia camera è stata invasa da soldati tedeschi, con l’elmetto a chiodo in testa, e gli scarponi ferrati sul mio tappeto: “Già i tedeschi a Milano?„

Dicevano: “Herr Ginetto Sconer, kommen Sie mit uns!

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“Perchè devo venire con voi?„

“Per la fucilazione.„

“Che diamine! Credo bene che loro abbiano intenzione di scherzare„.

“Noi mai scherzare.„

Ho avuto per la prima volta paura. Io che sono stato diverse volte in Germania, io che ho avuto sempre ottimi rapporti coi tedeschi, non li riconoscevo più. Stavano tutti fermi nella mia stanza, ma tutti aprivano la bocca con quelle loro mandibole, che parevano il delinquente congenito del dottor Pertusius.

“Scusate, perchè fucilare? Forse perchè non mi servo più della Casa X*** di Lipsia?„

Nein! Non era per ragioni commerciali, era perchè io avevo detto che bisognava spaccare la testa ad Attila. “Etzel spaccare la testa a voi!„

“Lo credo bene. E pensare che prima che voi metteste su quella brutta faccia, eravamo tanto amici, che si può dire eravate voi i padroni di Milano. Del resto, non sono stato io, è stata la contessina, anzi è stato Cioccolani a dire che bisogna spaccare la testa ad Attila.„

“Allora fucilare anche contessina, anche Cioccolani.„

“Ma se quelli son vostri amici! E poi l’han detto in poesia. Si dicono tante cose in Italia, [p. 252 modifica]in poesia. Credano, signori, con questo sistema delle fucilazioni, loro concluderanno pessimi affari.„

Macchè! Tiran giù le coperte del letto.

Ho fatto un atto energico. Ho girato la chiavetta, e quelle brutte imagini sono state cancellate dalla luce elettrica.

*

Mi sono riaddormentato; ma al mattino — come un lampo — mi è sembrato di vedere la contessina Ghiselda. Essa si rifletteva su la specchiera che è di fronte al mio letto. Le chiome le servivano da accappatoio, ma per vestito aveva soltanto la sua bellezza. Essa era dolce e liquefacente come un fondant.

Ahimè, non era Ghiselda! Era Desdemona che apriva le finestre, e un raggio del sole di Milano ferì la specchiera. Un brivido mi percorse il cuore. “Ah, signora — esclamai, — come Ginetto Sconer la avrebbe resa felice!„.

*

Guardo il mio letto, e penso che dovrò disdire al mobiliere la ordinazione del suo fratello gemello. Guardo il mio salone, e penso che io non ci collocherò Oretta, non ci collocherò Ghiselda.

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Povere mie belle poltrone deserte, miei bei tappeti! Povero Ginetto Sconer, che rimarrà solo, solo, solo!

Mi è venuta allora una certa commozione che è arrivata quasi sino agli occhi.

Ma non pensiamoci più.

Mi consolerò scrivendo le mie memorie. Ciò sarà utile anche nella eventualità che il Fisco voglia mettere una tassa sui celibi come si dice: io potrò allora dimostrare che a me non mancava la buona volontà.

Anzi le detterò.

*

Così avendo deliberato, mi recavo in un ufficio di copisteria ad ordinare una dattilografa, quando in via Dante un signore si ferma e mi guarda. Anch’io allora mi fermo e lo guardo. Ma lui prosegue, e anch’io proseguo. Ma dopo un po’ si volta e mi guarda.

Evidentemente mi ero voltato anch’io, altrimenti non mi sarei accorto che lui si era voltato.

Allora siamo tornati indietro tutti e due, e ci siamo trovati a faccia a faccia.

— Scusi lei chi è? — domando io.

— È appunto quello che io mi domandavo — risponde lui — : lei chi è?

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Finalmente ci siamo riconosciuti. Era il pasticciere di P***.

— E lei — disse — è quel signore....

— ....che ha fatto tante spese nel suo negozio. Ahimè, sì; sono io.

— Che tempi, signore, che tempi — esclamò lui. — Proibita la fabbricazione dei dolci. Ah, non lo sa? La nostra industria è la sola sacrificata. Quelle belle torte, quei bei fondants, quelle sfogliate che erano la nostra gloria! Quei marrons glacés, si ricorda?

— Ah, i marrons glacés!

— Che cosa metteremo più nelle nostre vetrine? Fichi secchi, castagne secche, qualche dattero. Ero venuto a Milano per una partita di caramelle di Torino....

Questo richiamo del passato mi esasperò.

— Ah, le famigerate caramelle! Buon giorno.

E piantai quel signore sul marciapiede, perchè era stato lui a darmi referenze sbagliate sul bottoncin di rosa. Una referenza sbagliata, tanto in commercio quanto in diplomazia, può avere conseguenze incalcolabili. Del resto non creiamoci più illusioni: le rose, oggi, nascono aperte.

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*

Il giorno seguente la mia governante Desdemona mi avverte che c’è una signorina che chiede di me.

— Fate entrare nel salotto.

Entro anch’io. Ma dove è? Ah, eccola là.

Era la dattilografa.

Stava in posa, con una manina guantata sopra il mio pianoforte Bechstein. Una penna del suo cappellino andava in giù, l’altra in su come l’elica di un aeroplano. Del volto si vedeva soltanto un naso a falce, e un occhio solo, perchè l’altro era nascosto dal cappello. Ma quell’occhio era più grande del vero. Senza il faro di quell’occhio non la avrei distinta, perchè il mio salotto è grande e lei era piccola. La sua magrezza era così impressionante che quasi riusciva seducente.

Mi accosto: essa mandava un profumo violento, ma dozzinale. Sorrido, perchè certo costei ignora di trovarsi di fronte al gerente della ditta X*** e compagni.

Dice il suo nome. Essa, collocandola in serie, sarebbe la signorina Zeta.

Ma io la chiamerò la signorina Ossobuco.

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Combiniamo per il giorno seguente, ed io stabilisco un compenso adeguato per le sue prestazioni.

— Ma è agile lei? — domando.

Si spoglia in un momento le braccia dei lunghi guanti e mi agita in faccia le mani con grazia e rapidità.

Le braccia sono due stecchi, ma le mani sono carine.

Ma rimane lì in piedi; cioè la signorina non se ne va.

— Scusi — domando — ha qualche cosa da comunicare?

Fa capire di sì; ha qualche cosa da comunicare.

— Prego, s’accomodi.

Si accomoda su l’angolo di una poltrona.

È esitante. Desidera sapere se io sono coniugato o se sono un signore solo.

Stupisco di questa domanda indiscreta.

— Perchè mi dispiace — dice — ; ma io sono una signorina che ha il suo onore.

— Questo non mi riguarda — rispondo dignitosamente. — Lei ha degli scrupoli?...

Ma non mi risponde.

Sta lì, mi guarda, sorride.

— Prego, prego — aggiungo in fretta e concludo: — Se ha degli scrupoli, lei può andare.

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Non se ne va, e mi dice che no, non ha degli scrupoli. Ma ha voluto preavvisarmi perchè....

— Perchè lei è una signorina che ha il suo onore: me lo ha già detto.

Rimane un po’ interdetta; si alza, e mi guarda con occhio lontano come fanno i conigli.

Dice: — E poi si vede che lei è cavaliere.

— Purtroppo.

È una iettatura: io non mi imbatto che in signorine vestali.

*

Domenica è stata la prima seduta. Nel mio salotto Louis Kenz: le finestre sono aperte sul giardino; e io sono seduto — in pijama di seta candida — dentro la mia poltrona inglese, quando la signorina è entrata.

Avevo fatto portare dallo stabilimento una macchina da scrivere con il nastro nuovo.

La prego di mettersi in libertà.

Gli occhi di lei, dilatati dall’ammirazione, guardano il giardino. Ora si vedono tutti e due gli occhi, in quanto si è levata il cappello. È una testolina piena di piccoli ricci, ma graziosi.

— Ah, signore — esclama — pare qui di essere in campagna.

Così è a Milano. Appena vedono un po’ di verde, dicono di essere in campagna. Ah, la [p. 258 modifica]campagna? Lei crede ancora alla virtù della campagna! Ma è un’illusione.

Veramente non è per questo: è perchè lei è anemica, e avrebbe bisogno della campagna. — Ma come si fa? — mi domanda. La signorina è lavoratrice, e deve vivere del proprio onesto lavoro.

— Ah, non è facile per una signorina vivere del proprio onesto lavoro!

Non rispondo a queste interrogazioni ed esclamazioni. Indico il tavolino dove ho fatto disporre la macchina, e comincio a dettare: Cav, scriva pure per intero, cavalier Ginetto Sconer.

Scrive; ma ecco la signorina si interrompe e dice: — Mi favorisca uno sgabello perchè volo sui piedi.

Guardo, e infatti non toccava terra.

Suono, e compare Desdemona.

— Desdemona, vi prego, portate uno sgabello per le estremità della signorina.

(Mi pare che Desdemona non obbedisca con quella premura che costituisce una sua prerogativa).

Dunque continuiamo:

Cavalier Ginetto Sconer, fisonomia rosea, da cui spira intelligenza e coraggio; capigliatura solida, denti solidi, tutto solido.

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Qui la signorina si interrompe: osa guardarmi con quel naso impertinente, e poi si mette a ridere. Mi pare un po’ audace.

Che cosa c’è da ridere? — Proseguiamo, signorina: Questo sono io!

Altro scoppio di risa, e poi la domanda: — Lei?

— Sì, io. Perchè? Non le sembra l’originale conforme al ritratto? Ma proseguiamo.

Riprende il tic tac della macchina, ma dopo un po’ domanda:

— Signore, per favore: ho caldo. Non avrebbe un bicchier d’acqua?

Suono. Prego di portare un bicchier d’acqua. Desdemona ricompare con un bicchier d’acqua e con una faccia, questa volta, anche più impressionante.

Ciò mi preoccupa: ma la signorina, affatto. Prende il bicchiere dal vassoio di Desdemona, e beve. Beve con grazia e dice anche lei: — Delizioso!

Questa parola mi perturba. Ah, dolce malinconia! quel giorno, presso il pozzo: delizioso tutto, l’acqua, lo champagne, la morte: tutto, fuorchè Ginetto Sconer.

— Proseguiamo, signorina.

Ma dopo un po’ interrompe ancora e dice con stupore: — Ma questo è un romanzo!

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— Ma le pare? Sono le mie memorie.

— Ma no, è un romanzo. Io me ne intendo di letteratura.

— Anche lei si intende di letteratura?

— Certo, ho fatto le tecniche. Oh, ma delizioso, delizioso, delizioso....

— Che cosa?

— Il romanzo.

E dà in uno scoppio di nuove risa, che mi ricordano gli squilli della contessina Ghiselda.

Ma nel ridere, lo sgabello le sfugge, perde l’equilibrio, e mi cade fra le braccia.

— Oh, pardon, pardon, signore.

Io la prendo e la rimetto in equilibrio, ma in questa operazione dovetti constatare che sotto la vestina esistevano due quote gemine di una consistenza che non si sarebbe sospettato; perchè realmente questi fiorellini rachitici, cresciuti sull’asfalto di Milano, sono più tenaci che non si creda a prima vista.

Io non saprei ben ridire come sia avvenuto: io era partito dettando le mie memorie, e mi sono trovato la signorina fra le braccia.

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*

Abbiamo sospeso la dettatura. Del resto è cosa nota anche nei ministeri che la dattilografia complica piuttosto le pratiche, invece di semplificarle.

Quando lei ha saputo che io ero gerente della società X*** e compagni, fu compresa da molta ammirazione.

Ciò mi compensò degli oltraggi subiti da quella stupida Oretta.

Io le raccontai le mie sventure ed ella ne ebbe pietà: — Oh, povero signore! Ma quelle signorine — diceva — non hanno avuto buon senso.

È sempre quello che è parso anche a me, ma non osavo dirlo.

Io stupisco: ho consumato tanto tempo per cercare chi mi dica: “Io ti voglio tanto bene„; e la signorina Zeta mi ripete spesso: “Quanto sei simpatico, Ginetto!„

Certo la signorina Zeta è un surrogato; ma noi viviamo nell’età dei surrogati: non è indicata per l’erede; ma è tanto tempo che si sente ripetere che gli eredi devono essere aboliti. In questo caso pensiamo soltanto alla nostra felicità personale.

Si trascorre qualche ora piacevole con la signorina Zeta: parla con garbo, non si stupisce [p. 262 modifica]di certe sciocchezze, conosce i nomi delle films del cinematografo, delle attrici, se ne intende di mode, di vetrine, è entusiasta della produzione della mia ditta. Tratta l’amore come un fatto di ordinaria amministrazione. Ha un suo decoro, non manca di rispettabilità. La posso benissimo condurre in qualche gita con me. In fondo essa è rappresentativa di una classe che si va sempre più affermando: il proletariato; un proletariato senza calli, direi intellettuale, ma riconosciuto. Potrà occupare un buon posto nel mio stabilimento.

*

Ma io mi sono sempre dimenticato: bisogna che mandi venti lire al dottor Pertusius per le sue prestazioni.


fine