In risaia/XVI
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XVI.
Tutto novembre la Nanna passò le lunghe serate a filare sola in cucina al freddo, per non farsi vedere nella stalla. Ma col dicembre cominciò a nevicare, e venne un gelo terribile, e le sere erano tanto lunghe, che alla Maddalena non resse più il cuore di lasciar la figliola ad intirizzirsi a quel modo.
— È meglio che tu venga nella stalla, le disse, cosa vuoi fare? Una volta o l’altra bisognerà pure che tu ti faccia vedere.
E a dir vero la Nanna non spingeva la suscettività fin a non volersi mostrare a nessuno. A messa ci andava, ed anche nei campi la potevano veder tutti. Ma nella stalla c’era il caso che capitasse Gaudenzio, e l’idea di comparire così imbruttita dinanzi a lui, non la sapeva proprio mandar giù.
— A voi cosa importa ch’io vada nella stalla? rispose. Preferisco star qui.
— Ma qui si gela, disse la Maddalena, e noi non siamo in caso di accendere il fuoco.
— Ho forse domandato d’accendere il fuoco io? ribattè la Nanna con mala grazia.
— No, ma perchè vuoi intirizzirti qui sola, mentre là si sta in compagnia ed al caldo? E vedendo che l’altra teneva il broncio e non si moveva, la povera donna, nell’interesse della figliola, cercò altri argomenti per indurla a seguirla, senza badare se quegli argomenti non fossero tali da irritare maggiormente quel cuore esacerbato.
— Qui ti si irrigidiscono le dita, non puoi filare: e poi ci vuole una lucerna tutta la sera per te.
La Nanna saltò in piedi come una molla che scatta; buttò indietro la sedia con dispetto, ed avviandosi all’uscio gridò:
— Via, non abbiate paura, che il vostro lino ve lo filerò, e del vostro olio non ne brucierò più. E se mi burleranno nella stalla, non importa, non avrete speso nulla per mantenermi il lume.
La massaia alzò gli occhi al soffitto sospirando, e la seguì nella stalla senza rispondere. Ma la sera nella camera narrò quella scena al marito e disse:
— Le disgrazie o fanno santi, o rendono cattivi.
— La Nanna non l’hanno fatta santa, disse Martino il cui animo giusto era offeso da quell’ingiustizia della figliola verso la sua donna.
Del resto i timori della fanciulla erano esagerati. Quella stalla, dove si radunavano parecchie coppie di gente matura, ed una fanciulla brutta, non aveva attrattive per Gaudenzio, che quell’anno ci andò appena una volta. Ma in quella sola volta la Nanna trovò tanta amarezza, da avvelenare tutte le centoventi sere dei quattro mesi d’inverno.
Il carrettiere le disse coll’usata brutalità:
— Oh! Nanna! E l’argento?
La Nanna crollò le spalle e tirò via a filare.
— Se lo vorrete mettere per andare a marito, riprese Gaudenzio, bisognerà piantarvelo nella testa come i fusi della beata Panacea.
Oh Dio! Era come se quei fusi glieli avesse piantati nel cuore. Pensò le sue compagne giovani e felici, che andavano in giro col raggio d’argento sul capo, e ridevano coi giovinotti, e provò per loro un senso di rancore, come per altrettante nemiche personali.
D’allora il suo carattere s’inasprì sempre maggiormente. Parlava pochissimo, e le sue parole avevano spesso un fondo di malumore o d’acrimonia; se non altro, era aspro il piglio con cui le diceva. Evitava di trovarsi in compagnia; lavorava in silenzio e senza passione; però lavorava sempre. Questo era nella sua natura. Non andò più alla mondatura del riso, perchè quel lavoro nell’acqua le era stato troppo fatale, ed era superiore alle sue forze. Ma, fin dall’anno seguente, andò alla mietitura, e, con la triste esperienza acquistata, seppe regolarsi in modo da mantenersi relativamente sana. Del resto il ballo e le veglie sull’aia non la interessavano più. Dopo il lavoro mangiava, e poi si ritirava a riposarsi nel fienile prima che l’umidità della sera impregnasse l’aria dei suoi umori malsani.
Così passarono sette anni. I capelli della Nanna non ricrebbero mai. Il medico l’aveva detto e pur troppo era stato un buon profeta.
Di sposi non se ne presentarono punti. Anche questo, Martino l’aveva detto; e pur troppo anche lui era stato un buon profeta. E tutta l’antica bellezza della Nanna era svanita col raggio di bontà serena che l’aveva animata nella sua prima gioventù.
Qualche volta, ne’ suoi lunghi silenzi, quando tornava colla mente al passato, e ricordava quel suo unico amore, appena abbozzato, e non rivelato mai, e le oasi di felicità che le aveva fatto brillare al pensiero, il suo sguardo ridiveniva affettuoso, ed il suo sorriso riappariva dolce come una volta.
Poi pensava che tutte quelle gioie erano svanite per sempre; che omai la sua vita era tracciata, che tutti i giorni sarebbero uguali per lei; che non avrebbe amori, che non avrebbe sponsali, nè una casa sua, nè figlioli suoi. Ed un profondo dolore le stringeva il cuore mentre fissava quell’avvenire desolato, ed anche allora l’afflizione le irradiava il volto della sua mesta bellezza.
Ma ad un tratto vedeva passare una frotta di fanciulle che si voltavano indietro in istrada per lanciar motti sguaiati ai giovinotti che le seguivano; oppure qualcuno veniva a dirle:
— Sai che s’è fatta sposa la Peppinetta che curava le tue oche sett’anni fa? oppure:
— La figlia del cantoniere che ha sposato Antonio il tessitore, ha avuto un bimbo.
Allora l’invidia le rimordeva il cuore. Confrontava quelle esistenze tanto normali colla sua, quelle dolcezze colle sue privazioni, e diceva:
— Perchè?
Ed avrebbe dato dei pugni contro il cielo. Ed odiava tutti i felici per quella parte di bene che le pareva rapito a lei.