In Valmalenco/Capitolo V
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Bohême sui monti.
V.
La baita, onorata dalla mia e dalla presenza dei giovani pittori, non ha sei metri quadrati d’area: è costruita di sassi sovrapposti, e, fra commessura e commessura, serve da cemento lo sterco delle greggi; è scavata nel pendio della montagna, così che solo la facciata ed il tetto liscio, con un poco di pareti laterali, sono visibili a chi guarda; si entra per un piccolo vano, dinnanzi al quale è appostato una specie di uscio girante su un grosso palo, aguzzo alla base, che fa l’ufficio di cardine. Internamente, quando l’occhio si sia avvezzato a scrutare nella semioscurità, si intravede un tronco, che, Ercole nuovo, deve sostenere il cielo affumicato della catapecchia.
Unici mobili una panca di legno, sucida, untuosa e una specie di larga mangiatoia che serve da letto: in un angolo quattro pietre, un po’ di cenere e della legna carbonizzata indicano il posto dove s’accende per solito il fuoco; a destra dei semplicissimi alari, sopra alcuni sassi, accomodati a sedile, s’apre un armadietto a muro, ed al suo fianco, quasi per logico compenso, sporge una mensola massiccia.
Il tetto, che ha la sua massima altezza nel centro della baita, è spiovente ai due lati come quello di una soffitta: su tutto il fumo, che non avendo altra uscita che la porta e gli interstizi fra pietra e pietra, ha deposto una patina oleosa e nerastra.
Però la panca di legno, il sedile di pietra, il vano nel muro, il medesimo pavimento s’indovinano più che non si vedano; perchè sopra di essi, e, dove è possibile sotto, sono disseminati gli oggetti i più diversi in un disordine incredibile. Fanno capolino dovunque boccette, scatole di sardine, scarpe di panno alla montanara, coperte da letto, pane di segale e burro spalmato di polvere, inchiostro, pennelli, tele incominciate o greggie, paiolo ripieno d’acqua perchè rammollisca la crosta della polenta, abiti e cappelli nei quali si nascondono le posate e le matite; sacchi e sacchetti di tutte le dimensioni con le bocche aperte o strettamente serrate; legna verde e secca; salami che sgusciano da miseri pezzi di carta; bastoni ferrati... e, nei due angoli non occupati dal letto-mangiatoia o dal focolare, ecco mostrarsi un mucchio alto di cose, che sfuggono ad una descrizione minuziosa e che si abbracciano, che si confondono, forse per raccontarsi le peripezie della loro vita avventurosa e bislacca...
Entrando non sapete dove mettere i piedi, e, anche le mani, allungate per appoggiarsi alle pareti, incontrano le forme più strane, fanno cadere un preistorico lumicino ad olio, oppure un cencio più colorato dell’iride, od anche una pipa o un gomitolo di filo.
L’aria poi è impregnata dagli odori più opposti; sembra d’essere in una posteria, dove si sposano il cacio e le salsiccie, spandendo intorno un che di rancido e di sgradevole.
Però sopra questo odore, e più sensibile di esso, un altro vi solletica la mucosa interna del naso, costringendovi a starnutire; è l’odor di fumo, che fa coi primi un’amalgama, la cui risultanza credo non abbia nella lingua italiana e nelle straniere una parola che la renda e che la scolpisca.
Ma non si può rimaner troppo li dentro!
Bisogna uscire all’aria libera, respirare a pieni polmoni, liberarsi dal principio di affumicazione che vi fa lagrimare gli occhi: allora vi volgete per infilare la porta, ma date del piede in una padella fessa o in una ciotola da latte, oppure battete la testa contro la trave superiore dell’uscio.
Una volta fuori poi, sparsi fra i sassi, dinnanzi la baita, vedete la legna che si essica all’aria, i pantaloni e le camicie che asciugano, le tavolozze sporche ancora di mille colori, gli avanzi dell’ultima polenta che s’accartoccia sotto il raggio del sole.
Tutto questo disordine non è certo artistico, ma bisogna perdonarlo ai due giovani pittori, uno dei quali in ispecie, abituato signorilmente a Milano, ha fatto sacrificio di tutti i suoi comodi, ha incontrato opposizioni e disagi, pur di seguire quell’arte nobilissima che, prima e sola, gli aveva dato fiamme nel cuore.
Bisogna perdonare, anzi bisogna render loro giustizia.
Lontani sei e forse più ore di cammino da Tornadri, costretti a provvedersi di legna, ad accendere il fuoco (e non è poca difficoltà e perdita di tempo), a cucinarsi in qualche modo le vivande, a lavarsi e rattopparsi i vestiti, a portar erba per il letto, a riattare la baita che spesso si sganghera sotto l’urto di una bufera; e, più che tutto, costretti a sacrificare le ore migliori della giornata allo studio degli effetti luminosi e dei quadri incominciati, non possono certo perdersi a trovare od a fissare un posto per ogni cosa, come farebbe la miglior massaia del mondo.
Non c’è quindi da maravigliarsi se... nello studio artistico dei miei giovani amici regna il guazzabuglio descritto: qualche cosa di simile ho visto in parecchi studii, a Milano, dove speravo proprio di trovare ordine e misura: su questo anzi ho fatto una strana osservazione. Ho notato come tutto il miscuglio eterogeneo d’oggetti, che circonda quasi sempre un artista, sia lo specchio dei pensieri, dei desideri, degli affetti, delle visioni che si accapigliano nella sua testa, che fremono e si sviluppano e si sciolgono nella sua anima, intenta sempre a cogliere quel che c’è di pittorico nelle cose.
Perciò, credo di non essere lontano dalla verità, affermando che, in generale, l’uomo si crea e si modifica d’intorno l’ambiente, secondo le proprie intime convinzioni, e, specialmente, secondo lo stato dei suoi pensieri, dei suoi desideri, dei suoi affetti, delle sue visioni, come diceva più su, nel caso particolare dei miei due giovani amici.
La vita ch’essi hanno vissuto a Felleria è una vera bohème; io che la conosco in tutte le sue minuzie, che l’ho provata, semplicemente per capriccio, e che ho riso tanto volentieri studiandola, non posso far a meno, nel ricordarla ora, di ripensare a tutte le fatiche ch’essi hanno sopportato, correndo magari su giù per le montagne con un carico di legna sulle spalle, trasportando i telai, le casse dei colori, le coperte, pur di risparmiare qualche soldo; e tutto per una finalità grande, disinteressata; poichè il loro scopo è sempre stato quello di far l’arte per l’arte, togliendosi dal manierismo volgare, per riprodurre, il più possibilmente vera, la natura nella sua selvaggia orridezza.
Molti altri pittori, mi vorrà osservare qualcuno, hanno studiato la montagna così davvicino e così profondamente, e non è il caso di portare in palma di mano questi, che non hanno fatto che battere una via già da altri segnata. Ma gli altri, anzi siamo più precisi, la maggior parte degli altri, godevano, relativamente, sull’alpe le comodità della vita; incominciavano a farsi portare, in pezzi numerizzati, pagando lautamente il trasporlo, la propria casetta di legno, e, una volta ch’essa era costrutta, vi si insediavano diventando i veri, assoluti padroni della montagna e della valle per un buon tratto all’intorno.
Tutte le mattine, incaricati speciali, in seguito alle ordinazioni ricevute, portavano latte, uova, carne; cucinavano, rimettevano ordine nel minuscolo appartamento, mentre il fortunato pittore spiava e studiava sul vero gli effetti, i colori, le forme; e, con meccanica più o meno felice, li riproduceva nei quadri. Questo per la verità.
Ma se i due giovani, dei quali ho abbastanza a lungo parlato, non si faranno strada attraverso l’aurea mediocrità, se, stanchi di privazioni e di lotte, butteranno alle ortiche pennelli e colori, rientrando nella vita pratica, che ha tanto limitati confini e povertà di ideali e di luci; io pure riguardandoli come caduti, non potrò a meno di circondarli di grande rispetto, d’essere commosso dinnanzi la loro disgrazia come ci si commove dinanzi ad un naufrago, che ha rotto l’onda disperatamente, senza riuscire a toccare la riva.
Ma qui non si tratta di caduti o di naufraghi, si tratta di giovani pieni di vitalità e d’energia, esuberanti di robustezza e fidenti nel proprio avvenire. La prova della loro volontà e della loro vocazione è il ritiro e il lavoro che si sono imposti da mesi; i loro quadri, se avranno un valore relativo per l’arte, ne acquisteranno uno immenso per la vita; poichè il lavoro ha sempre nobilitato l’uomo e lo ha sempre spinto al bene, al bello, alla perfettibilità.