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pareti, incontrano le forme più strane, fanno cadere un preistorico lumicino ad olio, oppure un cencio più colorato dell’iride, od anche una pipa o un gomitolo di filo.

L’aria poi è impregnata dagli odori più opposti; sembra d’essere in una posteria, dove si sposano il cacio e le salsiccie, spandendo intorno un che di rancido e di sgradevole.

Però sopra questo odore, e più sensibile di esso, un altro vi solletica la mucosa interna del naso, costringendovi a starnutire; è l’odor di fumo, che fa coi primi un’amalgama, la cui risultanza credo non abbia nella lingua italiana e nelle straniere una parola che la renda e che la scolpisca.

Ma non si può rimaner troppo li dentro!

Bisogna uscire all’aria libera, respirare a pieni polmoni, liberarsi dal principio di affumicazione che vi fa lagrimare gli occhi: allora vi volgete per infilare la porta, ma date del piede in una padella fessa o in una ciotola da latte, oppure battete la testa contro la trave superiore dell’uscio.

Una volta fuori poi, sparsi fra i sassi, dinnanzi la baita, vedete la legna che si essica all’aria, i pantaloni e le camicie che asciugano, le tavolozze sporche ancora di mille colori, gli avanzi dell’ultima polenta che s’accartoccia sotto il raggio del sole.

Tutto questo disordine non è certo artistico, ma bisogna perdonarlo ai due giovani pittori, uno dei quali in ispecie, abituato signorilmente