In Valmalenco/Capitolo II
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Fra Primolo ed il Lanterna.
II.
Sopra un poggio verde, screziato dalle zone gialle della segale matura, si adagia mollemente il villaggio di Primolo, che per la sua posizione domina tutta la Valmalenco; in fondo ad essa, rotto da macigni, corre irruente e candido il Mallero col suo affluente Lanterna.
Perchè il paese sia stato chiamato Primolo e la correntía, sulle cui rive mi trovo, Lanterna, non si sa; ricercando un perchè logico ci interniamo in una infinità d’ipotesi e ci perdiamo in un mare di tradizioni.
C’è chi assicura che Primolo deve il suo nome simpatico al fatto d’essere il primo paese veduto da chi entra nella valle; qualcuno m’accerta che fu chiamato così, perchè costrutto prima d’ogni altro; uno studioso e forse un po’ fantastico abitatore di qui mi narrò invece che, in un inverno rigidissimo, perduto nella caligine del passato, in mezzo alla neve ed ai ghiacci che ricoprivano il poggio, era fiorita per improvviso incanto primaverile, una pianticella di primule, intorno alla quale, per altro miracolo inesplicabile, s’erano sciolti i ghiacci ed erano apparsi, fra zolla e zolla, i primi fili di un’erba tenera e chiara.
Accorsero allora i conterranei, si benedisse il poggio, si costrusse la chiesa, e, mano mano, intorno ad essa sorsero le cascine, le baite, le casupole, ed ora Primolo biancheggia sopra lo sfondo della montagna, da cui si stacca la propaggine che lo regge, come se fosse fatto di neve.
Dal suo greppo sembra sporgersi a guardar giù nella valle i due fiumi, specialmente il Lanterna, che, bianco, forse più del villaggio, croscia gonfio nei margini e porta con la sua acqua una frescura delicata e si nasconde spesso frammezzo al fogliame dei boschi e, talvolta, schiaffeggia le pile di un etico ponte.
Sull’origine del nome Lanterna, dato ad un torrente, ho chiesto senza nulla sapere; si sbizzarrisca pure il lettore o la gentile lettrice, nelle più cervellotiche ricerche, poichè, a proposito di questo corso d’acqua, le tradizioni mancano e tutti siamo liberi della nostra fantasia: tant’è il Lanterna si trova così lontano da casa nostra e corre così incassato fra le rive, che non potrà mai vendicarsi a suo modo, di un nostro pensiero che gli sembri troppo offensivo.
Credo però che una ragione estetica del nome sia dovuta alla bianchezza della sua spuma, che, battuta verso mezzogiorno dal sole, dà uno scintillamento originalissimo, diventa luminosa così da non poterla troppo a lungo fissare. Forse gli abitanti della valle trovarono necessario affermare l’esistenza di questa luce, e, perchè non ci fossero degli scettici, anzi per mostrarla loro, quando fosse necessaria, la rinchiusero nella....lanterna.
Io sono proprio venuto a finire fra Primolo ed il Lanterna: precisamente a Lanzada, paese lanciato, come dice il nome, nell’ultima parte della Valmalenco e, dalla terrazza della mia camera, abbraccio, al di là del torrente, tutta una ripida salita sulla quale si arrampicano, si aggrovigliano, qualche volta investiti dal vento, mareggiano i frassini, i pini, i noccioli, le betulle e gli onizzi.
Più su, dove la Gembrana, chiamata così da gembro (pino), fa morbida l’erta in una curva erbosa, appare, con la tinta rossastra che lo caratterizza, con i tetti d’ardesia neri forse per il fumo, Caspoggio: e, dietro tutta la Gembrana, più alta e scoscesa sta la Cavaia, che ci nasconde la cima Painale e il Pizzo Scalino, lanciato snello e diritto nel cielo con la sua punta nevosa.
S’io discendo invece sulla strada, volgendo le spalle al lucente andare dell’acqua, l’occhio mio batte contro la Cima Sassa, così chiamata per le sue roccie di calce; al di là, non visibile però da Lanzada, c’è un bel lago alpino, il Palù, circondato da un vero giardino inglese tutto a boschetti di mirtilli e di conifere; alla mia destra s’allarga il bacino del Mallero, che si ripiega girando, i corni di Primolo e par chiuso in fondo dal Pizzo della Disgrazia.
Questa, a grandi e vaghe linee, la limitazione della valle che mi ospita e dalla quale ricevo un’infinità di sensazioni nuove; sono sperduto nel verde, godo d’arrampicarmi sui picchi come un camoscio, non mi sazio di ammirare le bellezze che mi si svelano dinnanzi, siano esse orride od incantevoli, ed ora mi fermo davanti un macigno, precipitato giù dalla montagna, che, mosso da una forza iniziale formidabile, saltò il Lanterna in tutta la sua larghezza e venne a sprofondar fra le zolle; un’altra volta osservo col binoccolo una baita lontana, pensando alla vita del pastori, lassù, frammezzo a ghiacci e pericoli, oppure m’interesso delle cave d’ardesia o d’amianto, dove lavorano affaccendati minatori gagliardi; o, per ultimo, come stamane, mi faccio narrare le peripezie di due pittori, miei carissimi amici, trovati proprio in Valmalenco a rendere sulle tele le superbe maestà di queste vette e l’oscura nebulosa profondità degli anfratti.
Così godo la vita!
Cantano un inno maraviglioso ad essa il largo stormeggiare dei boschi, il rotto irrompere del Lanterna, il cinguettio col volo delle rondini nell’azzurro, il rincorrersi quasi dei tocchi maestosi o tinnuli delle campane, il rombar delle mine ripercosso dalle montagne; qua poi circondano la vita di una poesia ideale il profumo dei larici e dei pini, l’odore acuto dei papaveri e le rose in fiore e il verde con tutte le sue gradazioni.
E in queste regioni e con queste bellezze che l’uomo, anche il più indifferente, scopre in se stesso un palpito e lo studia e lo analizza, maravigliandosi della sua genesi e terminando col classificarsi troppo tenero o troppo impressionabile. Invece non è tenerezza o impressionabilità; è il fascino della vallata, che ha ridestato o fatto nascere in lui qualche cosa di assopito o di nuovo, che gli ha fatto capire d’avere un’anima, che gli ha dato una visione novella di bellezza, con apprezzamenti e pensieri e dolcezze nuove. Non parliamo poi del poeta e del pittore; essi trovano qua, reale, un sogno tante volte perseguito e si lusingano di informarlo, forse forse di miniarlo o cesellarlo, in un distico o sopra una tela, così maraviglioso come è loro comparso.
Ma, il più delle volte, riescono a sciupar la natura.
Non importa: qualche cosa di queste bellezze naturali è rimasta nella loro anima e l’ha inalzata, l’ha profumata, l’ha resa certamente migliore: perché la semplicità e la bontà della madre terra entrano, per vie segrete, in noi, quando ci soffermiamo a lungo nella contemplazione delle sue grazie diverse.
Ammiriamo dunque!
Ma la visione così non è che superficiale, incompleta: io voglio internarmi nella valle, visitarla nelle sue particolarità più salienti e descriverla.
Forse non dirò nulla di nuovo e non riuscirò nell’intento; però mi sembrerà d’aver già ottenuto abbastanza se alcuno, leggendo queste impressioni soggettive, si sentirà attratto a visitare il paese che abbozzo e comprenderà che anche in Italia abbiamo maraviglie naturali che non si devono trascurare, e che, prima di visitare i decantati fascini stranieri, è dovere di italiano conoscere i propri.
Ho fatto mio un concetto dello Stoppani e mi auguro ch’esso debba ispirare agli altri, come ha ispirato a me, vero amore al bel paese che ci ha data la vita.