Il vicario di Wakefield/Capitolo decimo
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CAPITOLO DECIMO.
Allora incominciai ad accorgermi che non si badava per nulla a tutte le mie lunghe e laboriose lezioni sulla temperanza, la semplicità e la pace dell’anima: e le cortesie ricevute di fresco da gente a noi superiore risvegliarono quell’orgoglio ch’io aveva sopito, non spento. Si tornò di bel nuovo a colmar le finestre d’alberelli da olio e lisciamenti per le guance e pel petto: nell’uscire si temeva il sole come nimico alla pelle, e in casa il fuoco si guardava di mal occhio quasi guastasse le carni. Osservò mia moglie che il troppo levarsi di buon mattino danneggiava le pupille delle zitelle, che lavorando dopo il pranzo gliene venivano rossi i nasi; e tentò di convincermi che mai non erano sì bianche le loro mani come allora che se le tenevano a cintola: quindi, anzi che terminare le camicie di Giorgio, d’altro non si curavano che di dar nuove forme a vecchie cuffie e ricamare veli.
Le fanciulle Flamboroughs, che prima erano le loro compagne di trastullo, furono ripudiate come troppo abbiette persone; nè si cinguettò più se non di maniere cavalleresche, di pitture, di gusto, di Shakespear, e di vetri armonici.
Ma tutto era un nonnulla se non capitava una zingana, di quelle che danno la buona ventura, a finire di farle uscire de’ gangheri; e appena comparve quella bruna sibilla, accorsero elle a chiedermi un fiorino d’argento da porle in mano. Per dire la verità, io era stanco della mia continua saviezza, e non potei lasciare di soddisfarle, amando di vederle, come che fossero, contente; imperò diedi il fiorino a ciascheduna. Vuolsi per l’onore della famiglia nondimanco qui narrare come non fosse penuria mai di quattrini anche nelle tasche di loro, essendo inviolabile decreto della generosa mia moglie ch’elleno vi avessero sempre una ghinea, con espresso comando però di conservarla intera senza mai farla barattare. Lunga pezza stettero chiuse in una camera colla strolaga; e finalmente all’uscirne m’avvidi dai loro sguardi che le erano state fatte di grandi promesse, e rivoltomi ad Olivia le domandai s’ella era riuscita a bene, e se la maga le aveva valutato a dovere il fiorino. “Padre mio,” rispose la fanciulla in sul serio, “e’ mi pare ch’ella s’inganni, perchè affermò positivamente che in men d’un anno io sarò moglie ad uno scudiero d’alto affare.” — “E che marito avrai tu, mia Sofia?” — Ed ella: “subito dopo che la sorella avrà sposato lo scudiero, io avrommi una Eccellenza.” — “E per due fiorini,” esclamai, “appena queste bazzecole? Solamente una Eccellenza ed uno scudiero per due fiorini! O scioccherelle! per mezza quella moneta io vi avrei promesso un principe ed un nababo.” Questa loro curiosità tuttavolta trasse seco di gravi effetti; e credendosi tutta la famiglia destinata dalle stelle a qualche cosa di grande, si levava in boria ogni giorno.
Fu già notato da mille, ma e’ mi fa d’uopo ripeterlo, che le ore le quali si passano nella aspettativa d’un lieto avvenire, sono più amene di quelle in cui si gode della ottenuta fortuna: nel primo caso cuciniamo noi la vivanda a misura del nostro appetito; ma nel secondo, natura la cucina a suo talento. Non è possibile dire quanti castellucci noi facevamo su pe’ nugoli, e come ci pareva veder fiorire di nuovo la nostra casa. Era voce per tutta la parrocchia che lo scudiero fosse innamorato della mia figliuola; e con questa canzone i terrazzani gonfiavan tanto gli orecchi alla meschina, che la si innamorò finalmente davvero. In questo piacevole intervallo di tempo mia moglie faceva i più bei sogni del mondo, ed ogni mattina ce li raccontava con grande solennità divisandone esattamente ogni minuzia: ora ella sognava un cataletto e un par d’ossa in croce, indizio di nozze vicine; ora che le saccocce delle fanciulle riboccavano di quattrini, segno certissimo che le sarebbero presto ricolme d’oro.
Le figliuole avevano anch’esse i loro pronostici; sentendosi spesso appiccar baciozzi inusitati sulle labbra e vedendo tal dì de’ ricci alla candela, tal altro scoppiettare il fuoco e foggiar borsellini, e in fondo d’ogni tazza da tè mille urie d’amore. Verso la fine della settimana ricevemmo un viglietto dalle gentildonne, ove dopo molti saluti manifestavano la loro speranza di vedere la domenica vicina tutta la nostra famiglia alla chiesa. Quindi per tutta la mattina del sabato io vidi la mia moglie e le fanciulle strette in colloquio, bisbigliar tra di loro pian piano, e gittarmi delle occhiate da traverso che davano segno d’alcuna trama segreta. A dir vero, io sospettava forte non si andasse per loro fantasticando qualche goffo pensiero, e ’l come dovessero governarsi onde il giorno appresso comparire in grande sfarzo. Alla sera, in fatti, elleno mandarono ad esecuzione la concertata impresa con molta maestria; e mia moglie valorosamente innanzi a tutte guidava l’assedio. Sembrando io di buon umore dopo aver bevuto il tè, ella così incominciò: — “Carlo mio, io credo che domattina vi avrà buona compagnia in chiesa.”
“Può essere; ma non te ne dar pena. Venga o no questa gente, la predica si farà ad ogni modo.”
“Oh! ciò assai m’importa. Ma e’ mi pare, marito mio, che noi dovremmo far di tutto per apparirvi decentemente; perchè chi sa mai cosa sia per accadere?”
“Davvero che le tue precauzioni sono commendevoli. Mi piace molto in chiesa un contegno decente. Fa d’uopo starvi con umiltà e divozione, e con volto sereno e gioviale.”
“Sì sì; ma io vorrei dire che vi si vorrebbe andare colla dovuta convenevolezza, non come la plebaglia.”
“Tu hai ragione, moglie cara; e te lo voleva suggerire io stesso. La maniera più conveniente è di andarvi più per tempo che si può, onde aver campo di fare meditazione prima dello incominciare degli uffici divini.”
“Capperi! Gli è verissimo; ma tu non pigli bene. Dico e’ sarebbe uopo andarvi con decoro. Quivi a due miglia è la chiesa, tu il sai pure; e io ti giuro che a me spiace vedere le mie figliuole trottare al loro inginocchiatoio coi visi tutti gonfi e infocati per la lunga via, e segnate a dito da tutti come se avessero vinto il palio. Guarda, marito mio, a quel ch’io ho immaginato. Vi sono i due nostri cavalli da aratro, il puledro che abbiamo già da nove anni, e ’l suo compagno il morellotto il quale da un mese non ha mai posto piede nei campi; entrambi impigriscono nella grascia. E perchè non hanno a fare ancor essi qualche cosa? Lasciamelo dire, marito mio: se Mosè li mette un tantino in concio, non faranno poi la trista figura.”
A questa proposizione io obbiettai, che sarebbe stato venti volte più decoroso l’andarne a piedi che con una vettura sì sguaiata, perchè il morellotto era losco e puledro non avea coda; che non erano mai state poste loro le redini; che que’ rozzoni eran pieni di vizi; e che in casa non avevamo che un sol basto ed una sella da donna: ma tutto fu in vano, e mi trovai costretto a dir di sì. La mattina seguente vedendo che elle si davano gran briga per ragunare gli attrezzi necessari alla spedizione, e parendomi che la cosa andasse alla lunga, mi avviai innanzi verso la chiesa, promessomi prima per gli altri tutti di seguirmi subito subito.
Per quasi un’ora stetti al leggio aspettando che giungessero; ma non vedendo comparire persona, dovetti incominciare e proseguire l’ufficiatura non senza rincrescimento della loro assenza, il quale fu doppio quando, finite tutte le ceremonie, non era apparsa ancora faccia della famiglia. Però m’incamminai inverso casa lungo la strada maestra, quantunque di tre miglia più tarda che la viottola; e giunto a mezzo, mi accorsi della processione che si avanzava lenta lenta verso la chiesa. Il mio figliuolo, mia moglie e i due piccini pompeggiavano sovra l’uno, e le due fanciulle sovra l’altro cavallo. Domandai qual fosse la cagione del ritardo, e dai loro sguardi compresi a dirittura che avevano incontrate di mille sventure nel cammino. Da prima i cavalli non volevano uscire dalla porta, e fu d’uopo che quel buon uomo di Burchell gli spingesse innanzi per trecento passi, menando a diritto e a traverso il suo bordone. Poi le corregge della sella di mia moglie s’erano schiantate, e si dovette far alto per ricucirle; dopo di che saltò il ghiribizzo ad uno de’ cavalli di voler mettere il restío, e non valeva frustarlo nè fargli carezze per indurlo a muover piede. Appunto da questo imbroglio s’era la famiglia appena liberata quand’io l’incontrai. Ma poichè non si aveva sofferto danno alcuno, io confesso che quella loro mortificazione mi andò alquanto a genio, perchè se ne potevano da me trarre occasioni di futuri trionfi, e si sarebbe per quella abbassata alcun poco la burbanza delle mie figliuole.