XIV. I banditi dell’Ugo

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XIII XV
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XIV

I banditi dell’Ugogo

Mentre il tedesco riposava, il Germania continuava la sua corsa attraverso l’Ugogo, il territorio abitato dai Ruga-Ruga.

Il paese era cambiato. Non più quelle grandi foreste che distinguono l’Usagara e che son così belle e così ricche di selvaggina.

Si vedevano invece pianure immense, coperte da un’erba dura e altissima e di già quasi disseccata, non avendo quel vasto territorio che pochissimi corsi d’acqua, i quali cessano durante la stagione calda.

Solamente di quando in quando si vedeva rizzarsi qualche gruppo di acacie o di palmizi semisecchi, con le foglie gialle e cadenti e qualche banano ancora verde e carico di frutta.

Nessun campo coltivato si scorgeva in alcuna direzione. Più volte degli intraprendenti Usagara avevano tentato di dissodare quel luogo; ma i Ruga-Ruga li avevano costretti a ritornarsene frettolosamente ai loro paesi.

Le tracce della guerra erano invece numerose.

In mezzo alle erbe si vedevano gruppi di capanne in gran parte arse, tettoie in rovina, recinti sfondati e molti scheletri di uomini e di animali.

— Brutto paese — disse Matteo all’arabo che gli stava vicino fumando la pipa. [p. 163 modifica]

— Un paese di selvaggi e di briganti — rispose El-Kabir. — Io lo conosco avendolo attraversato più volte durante la mia gioventù.

— È qui che regna il Niungu?

— Sì.

— Chi è questo personaggio? Ne ho udito parlare con terrore.

— È il Sultano dei Ruga-Ruga, un uomo ferocissimo che ha accumulato ricchezze immense e che divide con Nurambo l’impero di queste regioni.

— Ci guarderemo dal discendere in questi luoghi.

— E faremo anche bene ad innalzarci — disse in quel momento Heggia, che si era seduto presso di loro. — Non vedete padrone, che ci danno la caccia?

— Chi? — domandò vivamente El-Kabir.

— I Ruga-Ruga.

— Dove li vedi?

— Guardate dinanzi a noi, in mezzo a quelle piante in fiore. Vi è una banda di selvaggi imboscati.

L’arabo ed il greco, guardando nella direzione indicata, videro, a circa cinquecento metri, numerosi negri sdraiati in mezzo alle erbe.

Ve n’erano molti armati di archi ed alcuni di fucili.

— Ci aspettano — disse il greco.

— Ed il nostro treno volante scende — disse Heggia.

— Non abbiamo ancora della zavorra?

— No, padrone — rispose il negro. — I due ultimi sacchi li abbiamo gettati poco fa.

— Bisogna svegliare Ottone e gonfiare un po’ i palloni — disse il greco. — Non siamo che a cento metri dal suolo e le palle possono colpirci.

Ottone fu subito svegliato e avvertito del pericolo che correva il Germania.

— I Ruga-Ruga! — esclamò il tedesco, balzando in piedi. — La faccenda può diventare pericolosa.

«Bisogna riempire subito i palloni. [p. 164 modifica]

Aprì una cassa, levò una manica di gomma e l’adattò al margine inferiore di uno dei palloni centrali, quindi unì la parte opposta ad uno dei cilindri contenenti il gas compresso.

— Per ora ci accontenteremo di rinforzare tre o quattro palloni — disse. — Gli altri non possiamo riempirli che a terra e richiedono non poco tempo.

— Potremo innalzarci prima che giungano i negri? — disse Matteo.

— Lo spero — rispose Ottone.

Aprì le valvole e lasciò che il gas scorresse liberamente.

Intanto i Ruga-Ruga, vedendo avvicinarsi il pallone, s’erano slanciati fuori dalle erbe, correndo e saltando.

Urlavano a squarciagola, minacciavano con le armi e puntavano i fucili.

Il tedesco osservava attentamente il treno volante. Con sua grande meraviglia, il Germania, invece di salire, tendeva sempre ad abbassarsi.

— Come va questa faccenda? — si domandò, mentre una vaga inquietudine lo assaliva. — È strano: non vedo la manica gonfiarsi!

— Ottone — gridò il greco, — affrettati! I Ruga-Ruga ci corrono incontro ed il vento è così debole che potranno tenerci dietro.

— Gli è che...

— Che cosa?

— Il cilindro non ha un litro d’idrogeno! — esclamò il tedesco, con voce strozzata.

— È impossibile! — gridò Matteo, diventando pallido.

— Ti dico che questo cilindro è stato vuotato.

— Da chi? — domandò l’arabo.

— Da chi? Non può averlo vuotato che Sokol — rispose Ottone.

— E quando? — chiese Matteo.

— Di notte, approfittando del nostro sonno. [p. F12 modifica]... il buon negro era precipitato dalla scala...
(Cap. XIII).
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— Heggia, lo hai veduto a muovere i cilindri? — chiese l’arabo al negro.

— Sì, padrone, un giorno l’ho veduto mentre cercava di far agire la valvola.

— Ah, miserabile Sokol! — esclamò l’arabo furibondo.

— Se anche gli altri cilindri sono vuoti, noi siamo perduti — disse Matteo.

— Lo verificheremo più tardi — rispose Ottone. — Il tempo ci manca ora. I Ruga-Ruga ci sono addosso.

— Come sfuggiremo al loro attacco?

Urla feroci soffocarono la risposta del tedesco. I negri non erano che a duecento passi dal Germania il quale era allora a soli cinquanta metri dal suolo.

Due o tre colpi di fucile rimbombarono in mezzo alle erbe e alcune palle fischiarono sopra la piattaforma troncando una corda metallica.

— Amici — gridò il tedesco, — rispondete al fuoco!

L’arabo e Matteo avevano già impugnate le armi. Con due fucilate gettarono a terra due guerrieri, i più vicini.

I Ruga-Ruga, vedendo cadere i loro compagni, invece di fuggire balzarono innanzi, urlando come bestie feroci.

Ottone, aiutato da Heggia, prese il cilindro di acciaio che pesava non meno di quaranta chilogrammi e lo gettò nel vuoto, poi fece precipitare una cassa contenente delle bottiglie in gran parte vuote e tutta la provvista d’acqua.

Il Germania, scaricato di circa novanta chilogrammi, fece un balzo in aria, salendo a quattrocentocinquanta metri, altezza sufficiente per metterlo fuori di portata dai vecchi fucili dei banditi. I Ruga-Ruga, vedendosi sfuggire la preda mentre credevano ormai di averla quasi in mano, proruppero in urla terribili e scaricarono le loro armi facendo solamente un baccano assordante.

— Sgolatevi, canaglie — disse Matteo. — Le vostre palle non giungono a noi e tanto meno le vostre frecce.

— Ricadremo presto — disse Ottone. — I nostri palloni [p. 166 modifica]centrali sono quasi vuoti ed il vento è così debole da non impedire a quei selvaggi di seguirci.

— Prova un altro cilindro — disse il greco.

— È quello che sto facendo.

Senza più preoccuparsi delle urla dei banditi e delle continue fucilate, il tedesco prese un secondo cilindro e vi adattò la manica di gomma.

— Un altro che è vuoto! — esclamò con voce alterata.

— Anche questo? — chiesero Matteo ed El-Kabir con angoscia.

— E forse non sarà l’ultimo. Il Germania ricomincia a discendere.

— Continuate il fuoco voi.

— Quanti cilindri abbiamo ancora? — chiese Matteo.

— Sei.

— E se fossero tutti vuoti?

— Sarebbe finita per noi.

Gettò il cilindro vuoto, innalzando il Germania di cento metri e ne prese un terzo, poi un quarto.

L’idrogeno mancava in tutti.

— Non ne abbiamo che due ancora — disse, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte.

Fortunatamente il settimo non era stato toccato dal traditore. Aperta la valvola, la canna si era subito gonfiata, mentre si espandeva per l’aria un acuto odore di gas.

— Siamo salvi! — esclamò.

Mentre il greco e l’arabo sparavano qualche colpo di fucile contro i Ruga-Ruga, i quali continuavano a seguire il Germania di corsa, Ottone, aiutato dal negro, riempì i quattro palloni del centro. Gli altri erano troppo lontani dalla piattaforma per poterli rinforzare. Tale operazione non si poteva fare che a terra.

— Per ora possiamo accontentarci — disse Ottone, lieto di quel successo.

Il Germania si era innalzato di altri cinquecento metri rag[p. 167 modifica]giungendo così i novecento; però a quell’altezza aveva trovato una calma quasi completa. Era molto se riusciva a percorrere sei chilometri all’ora, celerità infima che permetteva ai Ruga-Ruga, rapidissimi corridori, di seguirlo senza alcuna fatica.

— Ottone — disse Matteo, — i banditi non ci lasciano.

— Lasciali correre — rispose il tedesco. — Ormai il Germania non scenderà più.

— È pieno anche l’ultimo cilindro?

— Sì — rispose il tedesco. — Il traditore non ha avuto il tempo di vuotarlo.

— Basterà l’idrogeno a rinvigorire tutti i palloni?

— Sì, Matteo, però dovremo economizzare il nostro gas. È vero che abbiamo qui tanti oggetti inutili che possono alleggerire considerevolmente il nostro treno.

— Potremo portare il tesoro? — chiese l’arabo.

— Lo spero.

Il Germania si avanzava sempre lentamente sopra quelle vastissime pianure erbose. I Ruga-Ruga lo seguivano correndo, saltando, sparando di quando in quando dei colpi di fucile inoffensivi, non potendo le loro palle giungere a quell’altezza straordinaria pei loro catenacci arrugginiti.

In lontananza si vedevano apparire alcuni gruppi di capanne in parte bruciate e anche un fiume, che doveva essere il Makasumb affluente del Ruaha, gran corso d’acqua questo il quale va a scaricarsi, dopo un corso lunghissimo, di fronte all’isola di Malfia.

— Quando saremo a quel fiume i Ruga-Ruga ci lasceranno — disse l’arabo. — È il confine del loro Stato.

— E dopo quel fiume cosa troveremo? — chiese Matteo.

— Entreremo nell’Ukonongo, possedimento del sultano Karema.

— Un altro barbaro?

— No, anzi si dice che protegga le carovane e che veda di buon occhio gli uomini bianchi nei suoi Stati.

— È lontano il lago Tanganika? [p. 168 modifica]

— Non molto. Se il vento ricomincerà a soffiare, fra un paio di giorni vi saremo.

— Si dice che quei negri lacuali siano cattivi.

— Sono quasi tutti pirati, e faremo bene a guardarci da loro.

— Credi che Altarik abbia già attraversato il lago?

— Se non lo ha attraversato non sarà lontano — rispose l’arabo. — Come sai, è partito un buon mese prima di noi con molti cavalli e asini per avanzare velocemente.

— Non giungerà prima di noi — disse Ottone. — Se il vento ci è favorevole fra sei giorni noi saremo nel Kassongo.

Alle cinque del pomeriggio il Germania giungeva sulle rive del Makasamb.

Era un bel corso d’acqua largo circa mezzo chilometro, con parecchie isole coperte da una vegetazione lussureggiante, e molti banchi di sabbia.

Numerosi ippopotami si scaldavano al sole e giocavano in acqua sollevando, coi loro corpacci, degli spruzzi altissimi.

I Ruga-Ruga giunti sulla riva si erano arrestati. Salutarono il pallone con una scarica generale delle loro armi, poi tornarono fra le pianure erbose, minacciando un’ultima volta gli arditi aeronauti.

— Eccoci sbarazzati da quei noiosi — disse Matteo. — Cominciavano ad inquietarmi.

— Avanti nell’Ukonongo — disse Ottone allegramente. — Faremo una magnifica traversata.

— Prenderemo terra per rinvigorire gli altri palloni?

— È inutile per ora — rispose il tedesco. — Il nostro Germania non ne ha bisogno, pel momento. Conserveremo il nostro cilindro per quando imbarcheremo l’inglese ed il suo tesoro.

— Rimarremo in aria questa notte?

— Giacchè siamo molto alti, restiamo. Per questa sera ci accontenteremo delle nostre conserve. Domani, verso l’alba, quando il nostro idrogeno avrà raggiunto la massima condensazione, vedremo di scendere e di fare qualche fucilata contro la selvaggina. [p. 169 modifica]

— Un buon pezzo d’arrosto lo mangerei volentieri anch’io.

— Heggia, prepara la cena.

Mentre sedevano attorno alla cassa che serviva di tavola, il sole tramontava e la luna sorgeva rossa rossa.

Col cadere dell’astro era sorta una fresca brezza, la quale aumentava rapidamente.

Il Germania aveva raddoppiato la corsa, regolata dal timone e dalle due eliche che erano state messe in funzione.

Di là dal fiume non vi erano più le pianure erbose dell’Ugogo.

Si vedevano ora grandi foreste formate da alberi di fichi, da sicomori e da baobab immensi, interrotte di quando in quando da ampi stagni e da fiumicelli, veri luoghi di caccia.

Gli aeronauti, persuasi di passare una notte tranquilla, terminata la cena, si sdraiarono sui loro materassi, affidandosi alla guardia del negro, a cui spettava il primo quarto.

Dormivano da qualche ora, sognando di trovarsi già nel Kassongo a caricare l’oro del prigioniero, quando furono improvvisamente svegliati da Heggia.

— Padrone — disse all’arabo, che si era alzato pel primo, — vedo un fuoco immenso ardere dinanzi a noi.

— Bruciano le foreste? — chiese Ottone, balzando in piedi.

— Io non lo so, signore — rispose il negro.

I tre aeronauti si spinsero verso la punta estrema della piattaforma.

Verso l’ovest, ossia nella direzione tenuta dal treno aereo, si vedeva il cielo rosseggiare, mentre a terra, dietro alle foreste, nuvoloni di fumo, attraversati da immense lingue di fuoco, s’alzavano turbinando.

— È un grande incendio — disse El-Kabir.

— Che bruci qualche foresta o qualche villaggio? — chiese Matteo.

— Io credo che sia una città — rispose l’arabo. — In quella direzione deve trovarsi Mongo.

— Cos’è questo Mongo?

— Una grossa borgata abitata da arabi cacciatori di schiavi [p. 170 modifica]e di elefanti, una delle più popolose e delle più ricche dell’Ukonongo.

— Che sia stata invece assalita? — chiese Ottone.

— Non mi sorprenderebbe — rispose El-Kabir.

«Mi avevano detto che Nurambo si era messo in marcia contro i possedimenti di Karema.

— Sì — disse Heggia. — Laggiù si combatte; ho udito delle scariche.

— Allora assisteremo al combattimento — disse Matteo. — Il vento ci spinge in quella direzione e passeremo sopra l’incendio.

— Non vi sarà pericolo pel nostro treno aereo? — chiese l’arabo. — Il calore potrebbe far scoppiare i nostri palloni.

— Se sarà necessario ci innalzeremo — rispose Ottone. — E poi con le nostre eliche possiamo deviare a nostro piacimento.

Di chilometro in chilometro che il Germania s’avanzava, l’incendio diventava più visibile. Immense lingue di fuoco si alzavano, sormontate da una cupola di fumo nerissimo e da miriadi di faville.

Da quella bolgia infernale uscivano grida umane e scariche di moschetteria.

— Si combatte — disse l’arabo. — Sono certo che i guerrieri di Nurambo hanno assalito gli arabi di Mongo per saccheggiare le loro case.

— Vedo anche i negri di Nurambo — disse Ottone che aveva puntato un cannocchiale. — Tutta la pianura è piena di punti neri.

— Riusciranno nella loro impresa? — chiese Matteo all’arabo.

— È probabile — rispose questi. — I negri di Nurambo sono bene organizzati e non difettano d’armi da fuoco, e poi sono numerosi come cavallette. I miei connazionali avranno la peggio.

— Li compiangi?

— Un po’ sì — rispose El-Kabir.

— Volete che tentiamo qualche cosa per loro? — chiese Ottone.

— Ve ne sarei riconoscente. [p. 171 modifica]

— Lasciate fare a me.

Aprì una cassetta cerchiata di ferro, e levò una sfera del peso di quattro chilogrammi.

— Una bomba? — chiese Matteo.

— Piena di cotone fulminante — rispose il tedesco. — Farà strage fra i negri di Nurambo, e ne ho altre cinque.

— E le lancerai?...

— In mezzo ai selvaggi di quel monarca sanguinario. Aspettiamo di essere giunti sopra di loro e vedrai l’effetto.

Il Germania non era che a mezzo miglio dalla città araba.

El-Kabir non si era ingannato. Mongo era stata assalita da legioni di negri ed in parte già incendiata.

I guerrieri di Nurambo, non ostante il fuoco incessante degli arabi, avevano inondata la città e stavano abbattendo le palizzate e bruciando le zeribe che si trovavano intorno.

Lo spettacolo era terribile. In mezzo al fumo e alle fiamme si vedevano fuggire disperatamente immense mandre di buoi resi furiosi e si vedevano gli arabi difendersi con tenacia, contrastando il terreno, palmo a palmo, agli asseditori.

Fra i sibili delle fiamme, i crepitìi del legname ed il cupo diroccare delle palizzate, si udivano urla feroci seguite da scariche di moschetteria.

I guerrieri di Nurambo si erano già resi padroni della parte orientale della città ed avevano cominciato il combattimento nelle vie, tutto incendiando sul loro passaggio. Un nauseante odore di carne abbruciata si alzava nell’aria.

— Che spettacolo spaventevole! — esclamò Matteo.

— E che calore emana da quella fornace! — aggiunse l’arabo guardando Ottone. — Non corrono pericolo i nostri palloni?

— Le scintille non giungono fino a noi — rispose il tedesco.

Erano allora giunti sopra la città e precisamente verso la parte occupata dai guerrieri di Nurambo. Nè questi, nè gli arabi si erano accorti della presenza del treno aereo.

— Voialtri scaricate le vostre armi per richiamare su di noi l’attenzione dei combattenti — disse Ottone. [p. 172 modifica]

Mentre i suoi compagni obbedivano prese la bomba e la lasciò cadere in mezzo alle turbe selvagge. Il micidiale proiettile andò a scoppiare fra le prime orde di guerrieri, proprio dinanzi alla palizzate, facendo strage. E subito dopo cadde una seconda bomba, lanciando in aria parecchi negri.

Uno stupore immenso si manifestò tosto fra le bande dei predoni, stupore che si convertì in un terrore inesprimibile quando, alla luce dell’incendio, videro librarsi il treno volante.

Un urlo di spavento echeggiò fra le genti di Nurambo. Quel mostruoso uccello che si librava sopra le loro teste e che vomitava quei tremendi ordigni di distruzione, era più che sufficiente per atterrire quei negri superstiziosi.

In un baleno, una confusione indescrivibile si manifestò fra le orde. Tutti quei negri si rovesciavano gli uni addosso agli altri, fuggendo disperatamente e urlando.

Si calpestavano, si urtavano, gettavano le armi e si coprivano gli occhi con le mani.

Gli arabi avevano pure veduto il treno aereo e non avevano provato meno terrore. Fuggivano anche loro da tutte le parti, rifugiandosi nelle capanne rimaste illese dalle fiamme, quantunque avessero ben veduto che le bombe erano scoppiate fra le file dei loro nemici.

Ottone, facendo funzionare le eliche contro vento, aveva mantenuto il Germania sopra la città, spingendolo verso la parte meridionale, per sottrarla all’intenso calore che saliva dai quartieri incendiati.

— Sono fuggiti tutti! — esclamò Matteo.

— Gli arabi ricompariranno — disse El-Kabir. — È impossibile che fra di loro non vi sia qualcuno che conosca i palloni. Vanno di frequente a Zanzibar e devono averne veduto qualcuno.

— Il nostro treno aereo ha però una forma molto diversa dagli altri — disse Ottone. — L’avranno scambiato per qualche mostro.

— Scendereste volentieri? — chiese El-Kabir. [p. 175 modifica]

— Sì — rispose Ottone. — Per aver notizie di Altarik. Che siano suoi amici questi?

— Tutt’altro, essendo Altarik un loro concorrente nel commercio dell’avorio.

In quel momento si videro comparire alcuni arabi. Stavano seminascosti sulle porte delle capanne, spiando il treno volante, il quale continuava a volteggiare sopra la vasta piazza del mercato.

— Amici! Amici! — gridò El-Kabir in arabo. — La salute sia con voi e che Maometto vi protegga! Noi siamo i vostri salvatori.

Uno sceicco, riconoscibile per il turbante verde che gli copriva il capo e pel suo ampio mantello bianco rigato in rosso, si fece innanzi, inoltrandosi sulla piazza del mercato.

S’inginocchiò toccando la polvere con la fronte, poi alzando le braccia verso gli aeronauti, gridò:

— Chiunque voi siate, figli del sole o della luna, gli arabi di Mongo vi salutano e vi ringraziano di averli liberati dalle orde di Nurambo. Degnatevi scendere e noi vi mostreremo la nostra riconoscenza.

— Aspettateci — rispose El-Kabir.

Mentre Ottone sacrificava un po’ di gas, quantunque molto a malincuore, altri arabi, incoraggiati dall’esempio dello sceicco, erano usciti sulla piazza.

Molti invece, accortisi della scomparsa dei guerrieri di Nurambo, ormai lontanissimi, erano accorsi verso il nord della città, per spegnere l’incendio, il quale minacciava di distruggere tutti i quartieri.

Il Germania, forzato anche dalle eliche, si abbassava lentamente. Giunto a cinquanta metri dalla piazza, Matteo gettò l’àncora, quindi la scala.

Gli arabi subito s’impadronirono dell’una e dell’altra, avendo già compreso a cosa dovevano servire quelle funi.

El-Kabir, Matteo ed il tedesco, armatisi di fucili e di [p. 176 modifica]rivoltelle, raccomandarono al negro di far buona guardia e scesero la scala.

Appena giunti a terra, lo sceicco andò loro incontro e mentre la popolazione, formata per la maggior parte di negri e di mulatti, si gettava in ginocchio, tese le mani verso gli aeronauti, dicendo con molta nobiltà:

— Vi dobbiamo la vita e la nostra città.

— Abbiamo fatto il nostro dovere — disse Matteo in lingua araba.

— Ed io ho voluto far aiutare, da questi generosi europei, i miei connazionali — disse El-Kabir.

— Tu sei un arabo! — esclamò lo sceicco.

— E forse mi conosci.

— Il tuo nome?

— El-Kabir.

— Il trafficante di Zanzibar?

— Sì.

— Molti anni or sono tu devi essere stato qui.

— È vero — rispose l’arabo. — Sono passato di qui parecchie volte con carovane di schiavi.

— Insieme con l’arabo Altarik?

— Sì, insieme con lui.

— E chi sono gli uomini che ti accompagnano? Figli della luna o del sole?

— Sono degli europei — rispose l’arabo.

— E la bestia che montate?

— Non è una bestia, è una macchina che vola come gli uccelli.

— Ah, questi europei! — esclamò lo sceicco, guardando con ammirazione Matteo e Ottone ed inchinandosi dinanzi a loro.

— Signori — disse poscia, — gli abitanti di Mongo sono fieri di accordare ospitalità ai loro salvatori.

Con un gesto fece allontanare gli abitanti che si stringevano addosso agli europei, guardandoli curiosamente, e li condusse in [p. 177 modifica] una spaziosa capanna a doppio tetto, che sorgeva di fronte alla sua dimora, dicendo:

— I nostri salvatori potranno rimanere fra noi fino a quando piacerà loro e non mancheranno di nulla.

Poi si ritirò facendo segno alla popolazione di lasciare gli ospiti in piena libertà.

Una scorta composta di dieci negri armati di fucili e di lance si era collocata intorno alla capanna per tenere lontano i curiosi.