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il treno volante 169


— Un buon pezzo d’arrosto lo mangerei volentieri anch’io.

— Heggia, prepara la cena.

Mentre sedevano attorno alla cassa che serviva di tavola, il sole tramontava e la luna sorgeva rossa rossa.

Col cadere dell’astro era sorta una fresca brezza, la quale aumentava rapidamente.

Il Germania aveva raddoppiato la corsa, regolata dal timone e dalle due eliche che erano state messe in funzione.

Di là dal fiume non vi erano più le pianure erbose dell’Ugogo.

Si vedevano ora grandi foreste formate da alberi di fichi, da sicomori e da baobab immensi, interrotte di quando in quando da ampi stagni e da fiumicelli, veri luoghi di caccia.

Gli aeronauti, persuasi di passare una notte tranquilla, terminata la cena, si sdraiarono sui loro materassi, affidandosi alla guardia del negro, a cui spettava il primo quarto.

Dormivano da qualche ora, sognando di trovarsi già nel Kassongo a caricare l’oro del prigioniero, quando furono improvvisamente svegliati da Heggia.

— Padrone — disse all’arabo, che si era alzato pel primo, — vedo un fuoco immenso ardere dinanzi a noi.

— Bruciano le foreste? — chiese Ottone, balzando in piedi.

— Io non lo so, signore — rispose il negro.

I tre aeronauti si spinsero verso la punta estrema della piattaforma.

Verso l’ovest, ossia nella direzione tenuta dal treno aereo, si vedeva il cielo rosseggiare, mentre a terra, dietro alle foreste, nuvoloni di fumo, attraversati da immense lingue di fuoco, s’alzavano turbinando.

— È un grande incendio — disse El-Kabir.

— Che bruci qualche foresta o qualche villaggio? — chiese Matteo.

— Io credo che sia una città — rispose l’arabo. — In quella direzione deve trovarsi Mongo.

— Cos’è questo Mongo?

— Una grossa borgata abitata da arabi cacciatori di schiavi