Il tesoro del presidente del Paraguay/13. Gli scorpioni velenosi delle pampas

13. Gli scorpioni velenosi delle pampas

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12. I cavalli selvaggi 14. I patagoni alla caccia del pallone


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XIII.

Gli scorpioni velenosi delle «Pampas».


I
gauchos non si erano ingannati nella scelta. I due prigionieri erano magnifici corridori, alti di statura, di mantello baio, come lo hanno generalmente i cavalli delle pampas, dai garretti solidi, la testa leggera, il petto assai sviluppato e il ventre stretto assai che dinotava una sobrietà a tutta prova.

Parevano avviliti di sentirsi, essi che da quando erano nati scorrazzavano liberamente per le immense praterie, stretti da quei lacci e gettavano sugli uomini che li circondavano cupi sguardi. Un tremito generale agitava le loro membra e dalla bocca scendeva abbondante la schiuma, che di quando in quando si tingeva di rosso, come se fosse mescolata a sangue.

— Sono stupendi, — disse Cardozo, che li esaminava con viva attenzione. — Devono filare come il vento.

— Sfidano qualunque cavallo, — disse Ramon, che si era seduto a fianco dei prigionieri, tenendo in mano i lazos. — Possono percorrere trenta leghe al giorno senza affaticarsi.

— Sono di razza spagnola?

— Andalusa pura, che in queste immense praterie si è assai migliorata.

— E ve ne sono molti in questa regione?

— A migliaia, e continuano a crescere malgrado l’enorme [p. 109 modifica]consumo che ne fanno le tribù indiane e specialmente i Tehulls, o Patagoni, se così meglio volete chiamarli.

— Ma come li consumano?

— Mangiandoli.

— Ah! I ghiottoni!

— Se i cavalli non abbondassero, la razza indiana a quest’ora si sarebbe spenta, poichè la selvaggina non sarebbe stata sufficiente a nutrirli tutti.

— Ma pure non sono molti secoli che gli spagnoli hanno introdotto i cavalli. Cosa mangiavano adunque prima?

— Si dice che mangiassero degli altri cavalli di una razza differente. Infatti si sono trovate moltissime ossa somiglianti a quelle dei nostri.

— E come si chiamavano quegli animali?

— Gli scienziati hanno dato il nome di equus cervideus.

— E sono scomparsi ora?

— Pare di sì, poichè non se ne sono più trovati di vivi, e si dice che siano scomparsi subito dopo la venuta dei cavalli spagnoli.

— Ecco una cosa che nessuno mai è riuscito a spiegare. Forse le due razze non andavano troppo d’accordo, e la più debole è stata distrutta dalla più forte, — disse Diego.

— Nella vostra provincia si allevano i cavalli? — chiese Cardozo.

— In grandissima quantità, e si uccidono per ricavarne le pelli ed il grasso, cose che in commercio hanno un notevole valore.

— Ditemi, señor Ramon: sono difficili a domarsi i cavalli selvaggi?

— Bisogna essere gauchos per riuscire, — disse Ramon. — Nessun altro sarebbe capace di farlo. Volete provarvi?

— Rinuncio volentieri.

— Allora a noi due, Pedro: daremo la prima lezione a questi selvaggi.

— Basterà una? — chiese Cardozo.

— Occorrono quattro e talvolta cinque prove prima che [p. 110 modifica]il cavallo selvaggio diventi un caballo rodomon, ossia domato.

Ramon e suo fratello si avvicinarono al più robusto dei due animali, gli legarono le gambe anteriori con una manca, che è una larga fascia di cuoio, poi sedutisi sul di lui collo, lo costrinsero ad aprire la bocca, cacciandogli dentro a forza un pezzo di cuoio, — primo morso, — legato a solide briglie. Ciò fatto, lo liberarono dai lacci.

Il cavallo, sentendosi un po’ libero, balzò agilmente in piedi gettando un sonoro nitrito, e cercò di slanciarsi attraverso la prateria, ma il gaucho Pedro, afferratolo per le nari, lo costrinse a frenarsi.

— Affrettati, fratello, — disse. — Questo cavallo ha il fuoco nelle vene.

Ramon in pochi istanti levò la sella al proprio cavallo e si accinse a bardare il mustano selvaggio. Dapprima gli gettò sul dorso due grosse gergas, specie di coperte di lana, piegate in quattro, poi un largo pezzo di cuoio ricamato e battuto a martello, detto corona de vaca, indi la recado, sella di grandi dimensioni pesante circa venticinque chilogrammi, coperta di pelle e adorna di chiodi d’argento, che si assicura al ventre del cavallo con una larga fascia di cuoio, chiamata cincha. Vi sovrappose quindi una pelle di pecora dipinta a vivi colori, poi il sobre puesto, che è un largo pezzo di pelle conciata e frastagliata, e finalmente la sobre cincha, che lega completamente la sella.

Ciò fatto, Ramon si levò gli stivali, tenendo però i grandi sproni, gettò il cappello stringendosi il capo con un fazzoletto variopinto, si sbarazzò del poncho e balzò in sella senza toccare le staffe.

— Lascia andare, — gridò, raccogliendo le briglie.

Pedro con un sol colpo liberò il cavallo dalla manca che gl’imprigionava le gambe posteriori, e lo lasciò andare.

Il destriero parve dapprima sorpreso di sentirsi libero e di aver sul dorso quel peso, che non aveva mai provato; poi si slanciò innanzi cogli occhi iniettati di sangue, il capo basso, spruzzando a destra e a sinistra le erbe di schiuma. [p. 111 modifica]

Percorse cinquecento metri in linea retta colla velocità di una freccia, poi fece un brusco voltafaccia e si precipitò in mezzo ad una piantagione di cardi che percorse in tutti i versi, distruggendola quasi completamente. Uscito di là e sentendosi ancora il cavaliere indosso, sembrò che tutto d’un tratto impazzisse.

Si precipitava innanzi come se non vedesse più nulla, poi s’inalberava rizzandosi quanto era lungo sulle zampe posteriori, sferrava calci per ogni dove, girava su se stesso come se fosse colto da un capogiro, scartava a destra e a sinistra, ripartiva come un uragano falciando le erbe coi solidi zoccoli, poi tornava a inalberarsi tentando colla testa di urtare e di mordere il cavaliere, riprendeva la disordinata corsa gettando nitriti soffocati, abbassandosi or dinanzi e or di dietro, inarcando bruscamente la potente groppa per sbalzare il domatore, poi si gettava per terra e si rialzava, e tornava a rotolarsi fra le erbe.

Ma l’uomo teneva duro. Colle ginocchia nervosamente strette ai fianchi del selvaggio destriero, le briglie raccolte, gli occhi in fiamme, pronto a lasciare le staffe per non farsi schiacciare o stritolare le cosce, non lo abbandonava. Pareva che fosse inchiodato alla sella; più ancora: pareva che formasse un corpo solo col cavallo.

Non vi era nulla che potesse toglierlo di là; nè i bruschi salti, nè le scosse più violente, nè le cadute, nè i cosidetti salti di montone, ai quali ben pochi cavalieri possono resistere. E stringeva sempre più i fianchi dell’animale togliendogli il respiro, e agli scarti rispondeva con strappate che scuotevano i denti, e ai balzi con furiose speronate che facevano scaturire rivoletti di sangue.

Cardozo e il mastro contemplavano con viva ammirazione quella lotta fra l’essere selvaggio dotato di una forza brutale e l’essere incivilito e applaudivano entusiasticamente il valente cavaliere. Perfino il silenzioso Pedro, quantunque lui stesso abilissimo cavaliere, che aveva domato chi sa quante centinaia di cavalli, era trasfigurato e seguiva con sguardi ardenti quella strana lotta. [p. 112 modifica]

L’uomo doveva finalmente vincere. Il cavallo, sfinito, lordo di sangue e di schiuma sanguigna, dopo aver tentato tutti i mezzi per liberarsi dal cavaliere che gl’imponeva a colpi di sperone la propria supremazia, dopo aver percorso come un pazzo il campo di cactus coprendosi di ferite, di essersi gettato a terra una dozzina di volte, di aver tentato di spezzare le briglie con furiosi colpi di testa, cominciò ad ubbidire, mettendosi a galoppare meno disordinatamente, piegando ora a destra, ora a sinistra, secondo lo desiderava il gaucho. Dopo una mezz’ora trottava come un cavallo perfettamente domato e ubbidiva quasi a perfezione. Ramon, soddisfatto, lo spinse verso i compagni e, balzato agilmente a terra, lo fece cadere, legandogli le gambe colla manca.

— Bravo! — esclamò il mastro, stringendogli energicamente la destra. — Siete, e ve lo dice un uomo che ha percorso il mondo in lungo e in largo, il più ardito e valente cavaliere che io abbia veduto fino ad oggi.

— Tutti i gauchos sono come me, — rispose Ramon. — Ora a te, Pedro.

Il taciturno gaucho liberò il secondo cavallo, lo sellò, poi balzò in arcione. La lotta non fu meno ostinata dell’altra, ma anche questa volta l’uomo trionfò completamente e ricondusse il selvaggio figlio del deserto quasi ammaestrato all’accampamento.

— Per domani tutti e due saranno pronti a marciare, — disse Ramon. — Un’altra prova, e poi basta.

— La farete subito? — chiese Cardozo.

— Prima di sera. Intanto voi dovreste battere i dintorni onde cercare il pranzo.

— Infatti mi scordavo che la nostra dispensa è perfettamente sprovveduta e che gli albergatori si tengono lontani da questi luoghi. Ehi! Marinaio, prendi il fucile e facciamo una passeggiata.

— Ben volentieri, figliuol mio. Sento qui dentro qualche cosa che mi tenaglia lo stomaco. Deve essere fame bella e buona.

— Andiamo dunque a cercare una dozzina di costolette.

— O almeno un buon arrosto d’uccelli. [p. 113 modifica]

Mentre i gauchos, stanchi della lotta sostenuta contro i due cavalli selvaggi, si sdraiavano sui loro ponchos, i due marinai si gettarono in ispalla i fucili e si allontanarono verso il sud, dove si vedevano dei fitti cespugli.

Disgraziatamente pareva che quella porzione di pampa non fosse frequentata dagli animali, poichè, per quanto girassero gli occhi, i due marinai non scorgevano nè guanachi, nè struzzi, nè coguari, nè giaguari, e pochissimi uccelli, i quali per di più non meritavano un colpo di fucile, essendo quasi tutti mangiatori di carogne.

Frugando però in mezzo ai cespugli, Cardozo riuscì finalmente a scoprire un nido di struzzi, fornito di ben sessanta uova, grosse tre volte di più di quelle dei tacchini, disposte con un certo ordine e coperte di fili d’erba.

— La frittata è assicurata, — esclamò egli, balzando in mezzo al cespuglio.

— E che frittata! — esclamò il mastro, che se ne intendeva. — Purchè le uova non contengano già i piccini.

— Sarà più appetitosa, Diego. Carrai! Saresti uno schizzinoso?

— Io?... Mi vedrai quando porremo la frittata al fuoco. Ma ora che ci penso, se questo è il nido, possiamo trovare anche i proprietari. Per Bacco! Se potessimo regalarci un bell’arrosto di nandù?

— Cosa sarebbe questo nandù?

— Gli struzzi si chiamano con questo nome, anzi gli indiani li chiamano nandù guazu, il che vuol dire grosso ragno.

— Forse che somigliano ai ragni?

— Quando camminano fanno un certo movimento colle loro monche ali, che ricorda curiosamente i movimenti oscillanti dei ragni, quando percorrono le loro tele aeree.

— La carne...

— È delicatissima, figliuol mio.

— Allora ci sdraieremo qui e attenderemo.

— Sì, ma prima confortiamoci lo stomaco, — disse il mastro, levando un uovo e guardandolo attraverso un raggio di sole. — Devono essere stati covati da pochi giorni. [p. 114 modifica]

— E i nostri bravi gauchos?

— Bah! Sono uomini abituati a lunghi digiuni. Del resto prenderanno la rivincita sulla frittata.

Il ghiottone ruppe delicatamente l’uovo e lo vuotò.

— Eccellente, ragazzo mio, — disse. — Sa un po’ di selvatico; ma noi siamo gente che non bada a simili inezie.

Stavano per romperne un altro, quando sopra il suo capo passò una numerosissima banda di uccelli dalle gambe lunghe.

— Ah! I batitu!1 — esclamò.

— Cosa sono? — chiese Cardozo.

— Come vedi, sono uccelli.

— Eccellenti?

— Non dico di no. Se ci fossero qui gli argentini, si divertirebbero.

— E perchè mai?

— Vanno pazzi per cacciare i batitu.

— Forse perchè sono difficili a uccidersi?

— Tutt’altro, ma perchè si cacciano in carrozza.

— Oh! Questa è curiosa!

— È come te la dico. Quando nella pampa argentina i batitu calano, i gran signori argentini salgono in carrozza ben armati e si slanciano attraverso la prateria, facendo fuoco sugli uccelli, i quali non si dànno la briga di fuggir lontano. Ho assistito più volte a simili cacce. Che corse indiavolate, ragazzo mio! I cavalli frustati a sangue vanno come il vento, la carrozza trabalza orribilmente, gli spari si succedono agli spari, e gli uccelli cadono a centinaia. Se poi...

— Pst!

— Cosa vedi?

— I tussak si muovono.

Diego si alzò con precauzione e guardò verso le piante graminacee accennate.

Cardozo non si era ingannato. I tussak si aprivano lentamente come per dar posto ad un essere vivente, la cui direzione pareva fosse appunto quella del nido. [p. 115 modifica]

— Indiano, o animale? — chiese Cardozo, armando la carabina.

— È un nandù, la femmina forse, — rispose il mastro. — Tira giusto non appena sei sicuro del colpo.

— Aspetta che si mostri e vedrai.

— Forse abbiamo dinanzi parecchie femmine, Cardozo, poichè so che covano le uova in parecchie.

— Prepara anche il tuo fucile e...

S’interruppe bruscamente, rovesciandosi su di un fianco e lasciandosi sfuggire la carabina: il suo volto si coprì subito di un pallore cadaverico.

— Diego! — esclamò.

— Che hai, ragazzo mio? — chiese il mastro stupefatto.

— Qui... alla gamba... mi si morde...

Il mastro si precipitò sopra di lui senza più curarsi degli struzzi e mandò un grido di disperazione.

Un grosso scorpione, che pareva un granchio di mare, era attaccato solidamente alla gamba destra del ragazzo, nelle cui carni aveva cacciato le robuste tenaglie.

— Gran Dio!... — esclamò il mastro, schiacciando con furore il piccolo mostro.

— Diego!... la vista mi si intorbidisce...

— Coraggio, ragazzo!...

— Sento un brivido... che mi sale al cuore... Cosa mi è successo?... Diego!... Ho paura... qualche serpente mi ha punto.

No, non era un serpente; ma quel morso era forse più terribile ancora, e il mastro non lo ignorava. Gli scorpioni dell’America del Sud sono velenosissimi, più degli stessi serpenti a sonagli, assimilandosi il loro virus al sangue umano in un modo quasi istantaneo.

Fortunatamente il mastro non aveva perduto la testa. Cercando di non mostrarsi atterrito per non scoraggiare il povero ragazzo, operò prontamente nella speranza di poterlo salvare.

Con un colpo di coltello gli aprì il pantalone e mise a nudo la gamba, che era già intorpidita, gonfia, e che diven[p. 116 modifica]tava rapidamente azzurra. Senza badare al grande pericolo a cui si esponeva, applicò le labbra alla piaga e succhiò vigorosamente, sputando il sangue che assorbiva.

Cardozo, che era caduto senza forze, parve sollevato da quella cavata di sangue e si rialzò balbettando:

— Grazie... Diego...: mi sembra di stare un po’ meglio...

— È nulla, ragazzo, — rispose il mastro, tergendosi il sudor freddo che irrigavagli la fronte. — È stata una puntura dolorosa, ma niente di più.

— Guarirò?

— Sì, presto... sta certo, Cardozo; ma bisogna che ti porti subito al campo.

— Perchè?

— Perchè i gauchos possono farti guarire più presto.

— Ma chi mi ha morso?

— Bah! Un serpentello, — disse il mastro. — Vieni!

Afferrò il povero ragazzo, se lo strinse al petto e si slanciò a tutta corsa attraverso la pampa, gridando:

— Ramon! Pedro! Accorrete!...

  1. Archtiturus Batramius.