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il cavallo selvaggio diventi un caballo rodomon, ossia domato.

Ramon e suo fratello si avvicinarono al più robusto dei due animali, gli legarono le gambe anteriori con una manca, che è una larga fascia di cuoio, poi sedutisi sul di lui collo, lo costrinsero ad aprire la bocca, cacciandogli dentro a forza un pezzo di cuoio, — primo morso, — legato a solide briglie. Ciò fatto, lo liberarono dai lacci.

Il cavallo, sentendosi un po’ libero, balzò agilmente in piedi gettando un sonoro nitrito, e cercò di slanciarsi attraverso la prateria, ma il gaucho Pedro, afferratolo per le nari, lo costrinse a frenarsi.

— Affrettati, fratello, — disse. — Questo cavallo ha il fuoco nelle vene.

Ramon in pochi istanti levò la sella al proprio cavallo e si accinse a bardare il mustano selvaggio. Dapprima gli gettò sul dorso due grosse gergas, specie di coperte di lana, piegate in quattro, poi un largo pezzo di cuoio ricamato e battuto a martello, detto corona de vaca, indi la recado, sella di grandi dimensioni pesante circa venticinque chilogrammi, coperta di pelle e adorna di chiodi d’argento, che si assicura al ventre del cavallo con una larga fascia di cuoio, chiamata cincha. Vi sovrappose quindi una pelle di pecora dipinta a vivi colori, poi il sobre puesto, che è un largo pezzo di pelle conciata e frastagliata, e finalmente la sobre cincha, che lega completamente la sella.

Ciò fatto, Ramon si levò gli stivali, tenendo però i grandi sproni, gettò il cappello stringendosi il capo con un fazzoletto variopinto, si sbarazzò del poncho e balzò in sella senza toccare le staffe.

— Lascia andare, — gridò, raccogliendo le briglie.

Pedro con un sol colpo liberò il cavallo dalla manca che gl’imprigionava le gambe posteriori, e lo lasciò andare.

Il destriero parve dapprima sorpreso di sentirsi libero e di aver sul dorso quel peso, che non aveva mai provato; poi si slanciò innanzi cogli occhi iniettati di sangue, il capo basso, spruzzando a destra e a sinistra le erbe di schiuma.