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zione e la sua pietà. Ritornò allora a Napoli per istabilirvisi e noi ve lo ritroviamo sagrestano nella chiesa di San Matteo.

Il curato gli aveva ceduto, al settimo piano, due bugigattoli che davano in un vicolo sudicio e stretto; gli regalava di tanto in tanto una vecchia sottana e gli pagava trenta carlini al mese. Il curato si mostrava generoso, perchè alla sua volta don Noè eseguiva le piccole commissioni di Sua Reverenza.

I due buchi abitati dal sagrestano erano poverissimi di mobili e molto ricchi di lampade, di imagini di santi, di madonne e d’insetti. I muri, impiastrati d’una tinta gialla, sostenevano un soffitto coperto di una carta dell’istesso colore a fiorellini turchini, vecchia di cinquant’anni e che cadeva a pezzi. L’aria che si respirava lì dentro moveva nausea.

Vi si sentiva il tanfo di rinchiuso, l’umidità, il grasso condensato delle costolette arrostite sul carbone, ogni sorta di puzza cumulata agli odori della cucina che si faceva in un angolo sur un piccolo seggio. Una delle stanzucce, tramezzate da una impalcatura a cui si arrampicava per una scala mobile, serviva di camera da letto alla vecchia serva di don Noè.

Il sagrestano era piccolo, ma lautamente provvisto di due gobbe. Aveva la testa affondata nel collo, il collo nel torace, il torace nell’addome, il tronco cascante sulle cosce, le cosce confuse colle gambe, le gambe sprofondate in due enormi stivaloni alla scudiera, regalatigli da un abate, che nell’inverno vestiva da secolare.