Il sorbetto della regina/Parte prima/I
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CAPITOLO PRIMO.
Una buona idea.
Mastro Zungo, che si era coricato alle sei della sera, si risvegliò alle due del mattino.
Mastro Zungo si stropicciò gli occhi, sbadigliò due volte con orribile strepito, balbettò un Pater noster che non era nè italiano, nè latino; s’acconciò sul capo un berretto a spicchi, che imprigionava le nere ciocche dei suoi capelli ribelli, ascoltò brontolando il fragoroso russare della sua compagna e attese gli scocchi dell’orologio della chiesa. Alcuni minuti dopo, infatti, batterono due tocchi.
— Due ore! esclamò mastro Zungo. Sono dunque eterne queste notti! e sbadigliò di nuovo con non minor strepito di prima.
Mastro Zungo era nato coll’istinto della chirurgia. Le cattive condizioni di fortuna ne avevano fatto un semplice barbiere.
La sua intelligenza era organizzata per esser chiara ed acuta; la mancanza di coltura ne aveva fatto uno scopeto, in cui nessuna punta di aratro aveva mai aperto un solco.
Ad ogni modo, mastro Zungo si poteva considerare come un buon diavolo, quantunque egli credesse che l’intelligenza sia un tristo dono del Creatore ed il verme roditore di questo secolo che esamina tutto, dalle encicliche del papa all’elasticità del piede della pulce.
Egli, per esempio, odiava i letterati, i giornali, il carbonarismo (a quell’epoca i democratici si chiamavano carbonari), i Francesi, l’eleganza, la bellezza, i fiori, la primavera, tutto quello che sa di aurora e di armonia. Amava, all’incontro, il cattivo tempo, i gendarmi, i doganieri, la bruttezza, la messa cantata, i cappuccini, la tragedia, la quaresima e la faccia tonda e rubiconda dell’arciprete, ch’egli sbarbava ad occhi chiusi. Aveva sopratutto una specie di frenesia pei sette sacramenti. Ora, siccome il sacramento del matrimonio ha qualche cosa di più sostanziale che quello dell’estrema unzione, aveva finito col maritarsi.
Zia Egidia era predestinata ab-eterno a compiere la sua felicità e cuocere i suoi legumi.
Egidia era la figlia del beccaio del luogo.... Essa sola pregava Iddio, in un giorno, più che tutti gli Americani insieme in un anno. Il nome di Dio le girava sempre in bocca, confuso con qualche truciolo di tabacco da masticare.
Era tozza, grassa, con un adorabile guaime di barba, un naso più lungo di quello di san Carlo Borromeo, gli occhi piccoli, sonnolenti, cisposi, la pelle color d’un vaso etrusco e qua e là butterata dal vaiuolo.
Mastro Zungo non fece caso di tutto ciò: vanitas vanitatum! Egli la sposò, e si misero a lavorare insieme la vigna del Signore.
Dio benedisse questi lavoratori; e nove mesi dopo raccolsero un bel scimmiotto di bimbo. Ma essi si fermarono alla prima posta; poichè da allora Dio li punì con una delle più brutte piaghe d’Egitto: la sterilità — con grande stupore dell’arciprete. Di maniera che messer Bruto, loro figlio, aveva giusto diciott’anni quando principia questa storia.
Mastro Zungo, risvegliato di così buon’ora, nè potendo raccattar il sonno, incominciò a pensare... diciamo pensare!... ma il degno barbiere aveva l’abitudine di parlar da solo, come gli uomini che hanno una coscienza tranquilla.
— Ebbene, mastro Zungo, amico mio, brontolava il barbiere, fa un po’ i conti, e metti in ordine la tua giornata. Oggi è martedì. È, dunque, il giorno di barba del notaio, della moglie del sindaco e di quel dannato Sacco-e-Fuoco. Se la signora Psiche — che Dio la confonda! con quei mustacchi prendersi un nome che non sta nel calendario — se la signora Psiche non ha l’emicrania, se ha battuto i suoi sette piccini, e accarezzato i suoi sette gatti, in mezz’ora l’avrai spicciata: poi andrai a salassare il bove del Filazolo, che farebbe meglio a salassarselo da sè, quell’ubbriacone! Poi andrai ad applicare il vescicante alla mula di Galeotto. E, poichè sei lì, brigante, alla porta della chiesa, ci entrerai e servirai la messa di don Domenico, che la dice per solito quando gli altri vanno a pranzo. Eh! monsignore dovrebbe pensarci! A quell’ora in chiesa non ci sono che i sorci, che ne fanno di belle fin sotto l’abito di san Francesco, e due o tre mendicanti, che contano i tozzi di pane accattati. Poi, poi... vediamo! non c’è altro, mi pare. Don Martino è andato a Napoli per un’operazione....
Mastro Zungo s’interruppe, poi riprese:
— Finiscila dunque, badessa del diavolo, con codesto tuo russare! e così dicendo dava un punzone a sua moglie! finiscila dunque! Tu disturbi la mia meditazione, e le mie elucubrazioni, direbbe quel mustacchietto di don Timotino. Ah! questi piccoli scellerati di carbonari non si limitano più a non farsi la barba, parlano anche un linguaggio massonico. Che Dio li scortichi, poichè non si lasciano servire da me! Dunque è andato a Napoli e vedrà quell’avaro di mio fratello don Noè, che là giù suona campane e campanelli.
Qui il soliloquio del barbiere fu interrotto da un rumore che s’udì nella stanzuccia vicina. Era Bruto che, sognando di giuocare a saltacavallo, rotolava giù dal letto.
— Ah! esclamò mastro Zungo, che caro bricconaccio è quel mio bambinone. Ha dello spirito anche quando dorme, salta dal letto come un turacciolo di una fiaschetta di birra. Chi direbbe mai che la grossa balena, che grugna vicino a me, ha collaborato meco alla composizione di questo gioiello, che scintilla come ferro in una fucina?
Qui mastro Zungo tacque; poichè una frotta d’idee vaghe, svelte, confuse, multicolori, si sparpagliarono nel suo spirito come uno stormo d’uccelli.
Bruto, lo dico qui per incidente, era un bel ragazzo: rosso come una pesca, alto, agile, svelto, che sotto l’aspetto dell’impassibilità britannica e talvolta di una squisita balordaggine, aveva uno spirito svegliato, una prontezza di maniere e certe eteroclite fantasie. Era un biricchino nella pelle di un John Bull. Sembrava un fiammingo fatto tutto d’un pezzo, ma, girata la chiave, ne zampillava un fanciullo viziato, astuto, ostinato, con degli inattesi lampi di spirito.
Il barbiere, borbonico, l’aveva chiamato Bruto in odio a Murat. La madre, quantunque devota al punto di far venire una vocazione, non aveva potuto persuaderlo a prendere non dico altro che i quattro ordini. Bruto voleva cignere la sciabola e farsi gendarme.
Mastro Zungo ruminava, dunque, quale carriera farebbe intraprendere a suo figlio; perocchè quella delle armi a lui pure pareva troppo rischiosa.
E continuò il suo monologo:
— Egidia non arriverà mai a fare di Bruto un sotto-diacono. Quando io salasso, egli si accoccola sopra una sedia e ha l’aria di saperne più di me; mi sconcerta con quel suo sguardo serio ed intrepido. Ha scritto un sonetto sul brachiere dell’arciprete, un altro sulla gamba che il suo maestro ha obliato non so dove, andando dietro a quel giacobino di Bonaparte. Stuzzica tutte le ragazze del paese. Bestemmia come un granatiere; rompe i vetri alle finestre di tutte le sgualdrine del villaggio. Ha dato due temperinate al prefetto della scuola. Poi scaglia sassi come un angelo, conosce il suo latino come un benedettino, fuma come un vecchio piloto, ammacca ogni tanto le teste dei suoi condiscepoli, riceve regolarmente le spalmate due volte al giorno, sagra in francese come un turco... e tutti questi — che Dio ne faccia un milord — non mi sembrano sintomi di sottodiaconato. Ne farei un procuratore? Ma il disgraziato ha troppe fantasie. Un farmacista? ma sa leggere e capisce il latino. Per esser cappuccino ha troppe tendenze al peccato. Avvocato, darebbe piuttosto il suo, che prendersi quello d’altrui. Si potrebbe forse tirar su un architetto di quel diavolaccio: ha la mania di demolire e ha bucata tutta la casa; ma Sacco-e-Fuoco dice che non sa le matematiche. Potrei sbozzarne fuori un cantante, poichè ha la voce più stonata del mondo; ma quel mestiere lì non mi piace con un pubblico che fischia quando deve applaudire ed applaude quando dovrebbe fischiare, senza contare i giornalisti. Preferirei quasi che facesse il commediante perchè, quando ripete le sue lezioni, canta e grida come un’anima del purgatorio; ma quella carriera conduce quasi sempre alla miseria. In quanto al mio mestiere, l’è sporco, e Bruto, piuttosto che toccare una goccia d’acqua ed un pezzo di sapone, si tiene una bella macchia d’inchiostro sul naso per sei mesi. Di maniera che io non veggo altro per lui che di farne un medico o un chirurgo. Il sangue non lo spaventa. Non l’ho mai veduto affliggersi per la morte di chicchessia. Mente, come sua madre dice, un'Ave Maria. È grave, parla poco, non va mai a messa, giuoca alle carte, ha una bella fisonomia ed un corpo solido; è infingardo come un vescovo. La sua vocazione è, dunque, predestinata.
Pieno di questa magnifica idea, mastro Zungo si alza, si veste, mette il suo panciotto alla rovescia, dimentica la cravatta, rimbocca le maniche fino al gomito, afferra la sua berretta, il piatto di stagno, la busta dei rasoi, un pugno di tele di ragno, e via! Allo spuntar del giorno, il primo colpo di rasoio toccava al mento del maestro di scuola, il sergente Sacco-e-Fuoco.
Seguiamolo, o meglio, precediamolo.