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d’idee vaghe, svelte, confuse, multicolori, si sparpagliarono nel suo spirito come uno stormo d’uccelli.

Bruto, lo dico qui per incidente, era un bel ragazzo: rosso come una pesca, alto, agile, svelto, che sotto l’aspetto dell’impassibilità britannica e talvolta di una squisita balordaggine, aveva uno spirito svegliato, una prontezza di maniere e certe eteroclite fantasie. Era un biricchino nella pelle di un John Bull. Sembrava un fiammingo fatto tutto d’un pezzo, ma, girata la chiave, ne zampillava un fanciullo viziato, astuto, ostinato, con degli inattesi lampi di spirito.

Il barbiere, borbonico, l’aveva chiamato Bruto in odio a Murat. La madre, quantunque devota al punto di far venire una vocazione, non aveva potuto persuaderlo a prendere non dico altro che i quattro ordini. Bruto voleva cignere la sciabola e farsi gendarme.

Mastro Zungo ruminava, dunque, quale carriera farebbe intraprendere a suo figlio; perocchè quella delle armi a lui pure pareva troppo rischiosa.

E continuò il suo monologo:

— Egidia non arriverà mai a fare di Bruto un sotto-diacono. Quando io salasso, egli si accoccola sopra una sedia e ha l’aria di saperne più di me; mi sconcerta con quel suo sguardo serio ed intrepido. Ha scritto un sonetto sul brachiere dell’arciprete, un altro sulla gamba che il suo maestro ha obliato non so dove, andando dietro a quel giacobino di Bonaparte. Stuzzica tutte le ragazze del paese. Bestemmia