Il sigillo d'amore/A cavallo
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A CAVALLO.
Un tempo io ero, pare impossibile, una intrepida amazzone. Ma da noi, in quel tempo, si nasceva, si può dire, a cavallo. Invece che sulle sedie i bambini s’arrampicavano sui mansueti ronzini invariabilmente legati nelle stalle dei ricchi proprietari e sotto le tettoie dei pastori poveri: a cavallo i proprietari andavano a visitare le loro terre, a cavallo si viaggiava da un paese all’altro, a cavallo le nobili dame si recavano a sciogliere qualche voto nelle belle chiese di stile pisano che arricchiscono l’isola, e le serve a portare l’acqua dalla fontana.
E a cavallo si partiva, nelle luminose albe di primavera e d’autunno, in allegre brigale, per le feste campestri: il cavallo, quindi, era per noi ragazze di buona famiglia condannate ancora a una vita orientale, chiusa e sorvegliata gelosamente dai genitori, fratelli, zii e cugini, un simbolo di libertà e di gioia.
Si diventa alti, a cavallo, e si ha l’illusione di essere, come i centauri, creature favolose agili e forti capaci di camminare, senza mai stancarsi, fino ai limiti della terra.
Dall’alto di un piccolo cavallo baio legnoso e pensieroso, simile, nelle forme arcaiche, a quelli decorativi delle cassepanche e degli antichi ricami sardi, ho viaggiato mezza Sardegna, e veduto i più bei paesaggi che la mia memoria ricordi.
Accusata di avere, nei miei racconti, sciupato troppo colore e troppa vernice per questi paesaggi, ho voluto rivederli nell’età in cui la fanciullezza non fa più belle della realtà le nostre visioni esterne colorandole del suo divino splendore interno: riveduti dalle impazienti automobili che adesso palpitano nelle vene stradali dell’isola e le riempiono di vita nuova, li ho trovati ancora più belli, nella loro immota e sacra solitudine che vive di sè stessa e pare anzi si rattristi quando viene turbata.
Ricordo sempre il misterioso suono dell’eco che rispondeva alle nostre voci quando costeggiando il monte Orthobene si scendeva al bianco villaggio d’Oliena: era una voce potente, cavernosa, che pareva scaturisse davvero dalle grandi roccie simili alle rovine enormi di una città titanica; e ripetesse sdegnata le vane parole di noi piccoli sopravvissuti ad un’epoca in cui l’uomo anche nelle sue costruzioni materiali tentava di vincere il tempo e avvicinarsi al cielo.
La gita più avventurosa ch’io ricordi si fece con una mia cugina maggiore di me di parecchi anni, e per la quale io professavo il rispetto e l’ammirazione dovuti ad un’eroina: poichè era una ragazza di una forza e un coraggio da Ercole: spezzava sul ginocchio grossi rami di legno verde e sparava il fucile senza mai fallire il colpo. Fu lei a combinare una gita arrischiatissima, al paese d’origine delle nostre famiglie, l’aquila dei paesi di Sardegna accovacciata alle falde del Gennargentu: Fonni. Questo era il mio sogno: risalire la strada donde erano scesi i nostri nonni arguti e artisti.
E si cominciò con l’astuzia, domandando ai genitori il permesso di passare due giorni e una notte nella vigna, dove ci si poteva dormire, e il guardiano, fidato e affezionato, era un nostro parente.
La vigna era nella strada per Macomer; ma noi, arrivate al trivio dopo Nuoro, nel mattino di maggio che dava tutti i colori dell’iride al meraviglioso panorama, si tirò dritto per lo stradone di Mamojada.
La paura d’incontrare qualcuno che ci spiasse e tradisse, turbava alquanto il piacere del viaggio: per fortuna non si incontrò che una donnina di Fonni; anche lei sola e spavalda sul suo ronzino carico di bisacce di patate, ci salutò con un semplice:
— Ave Maria.
Dopo la cantoniera davanti alla quale si passò di corsa (la cugina aveva lo sprone e se ne serviva spietatamente), si cominciò a respirare; la strada, in salita, è sempre più amena, i prati più ricchi di pascoli in fiore; le quercie vibrano tutte per il canto degli usignoli; pastori di Mamojada scendono, a cavallo, fra i loro sacchi e le bisacce istoriate, tranquilli come i pastori diretti a Betlemme: e non badano a noi: solo un vecchio, affacciato a una muriccia, ci domanda dove andiamo.
— A Fonni a portare un cero alla Basilica dei Santi Martiri, — dice pronta la cugina; e gli fa vedere un bastone che tiene come un’arma sull’arcione.
Si costeggiò Mamojana: non c’interessava visitarla, anche perchè abitata da numerosi compari di battesimo e relativi figliocci di mio padre: arrivate al bivio la cugina esitò un momento, poi diede una bastonata al fianco del cavallo e lo aizzò con un grido selvaggio.
La bestia andò, scuotendo la testa come per salutare qualcuno e chiamarlo a testimone della sua ingiusta persecuzione: e il mio piccolo baio sornione gli tenne come sempre dietro, rigido e raccolto a pensare cose sue particolari.
Quando Mamojada sparve nella sua piccola conca piena di sole, io espressi il desiderio di fermarci: avevo fame e cominciavo ed essere stanca.
— Tu sei pazza, — gridò la cugina piegandosi per trarre qualche cosa dalla bisaccia, — sai che il viaggio è lungo e non dobbiamo perdere un attimo di tempo. Prendi e mangia; i denti non hanno bisogno di star fermi per masticare.
E diede un pezzo di pane a me e una bastonata alla mia innocente cavalcatura. Da quel momento il nostro viaggio prese un carattere alquanto fantastico. Si saliva sempre; nel meriggio luminosissimo le grandi vallate molli di una vegetazione intensa che aveva l’ondulare lucente del lampasso, i placidi mostri addormentati delle roccie argentee, gli alberi tutti scintillanti, i prati coloriti di fiori, lo sfondo grandioso delle montagne che parevano di marmo azzurrognolo venato di rosa e di viola, prendevano una bellezza esasperante: paesaggi così, fatti di luce e dei colori liquidi delle gemme, si vedono solo in sogno o nelle vetrate istoriate.
Ed ecco siamo su un altipiano: la strada si insinua in un bosco; attraverso i tronchi dei lecci secolari, bruni ancora delle foglie vecchie, gli sfondi svaporano più chiari in uno spazio infinito: ed io comincio ad avere l’impressione che i monti del Gennargentu invece di avvicinarsi si allontanino o meglio si sciolgano in quella luminosità aerea.
L’ombra del bosco ci ridona un poco il senso della realtà e dell’orientamento: si cammina in silenzio per molto tempo: fiori bellissimi, grandi margherite d’oro, rose peonie simili a quelle coltivate nei giardini, garofani violetti il cui profumo si distingue fra gli altri come la nota del violino in un’orchestra; e rose, rose, rose di macchia, rallegrano come fuochi di notte la solitudine.
Di nuovo il bosco si spalanca; di nuovo si sale; la strada, adesso, come presa da un capriccio di avventura rasenta un precipizio che davvero ha il fascino dell’abisso; giù per una cascata di roccie granitiche scendono processioni di cespugli selvaggi che pare tendano all’acqua brillante del ruscello in fondo al vallone: di là ricomincia l’ondeggiare immenso delle chine verdi e grigie, rosee e azzurre, che risalgono verso l’orizzonte.
La strada, pentita, ritorna nel bosco, e vi si interna sempre più; ed è sempre in piano, fra prati e allori, come il viale di un parco.
Quello che più impressiona è la solitudine assoluta del luogo: il sole declina e noi camminiamo ancora, ed io ho un vago timore che ci si sia smarrite.
Anche l’intrepida cugina è pensierosa: il suo viso lungo, un po’ animalesco quando è triste, rassomiglia a quello del mio cavallo.
D’un tratto ella si rianima e si mette a cantare a voce alta: a me pare lo faccia per paura, come i ragazzi nelle stanze buie.
Il suo canto è spavaldo, nella sua desolazione.
In chenapura so nadu, |
Ed ecco all’echeggiare del ritornello ripetuto con forza come una sfida al pericolo e alla mala sorte, risponde l’abbaiare di un cane, e le cose intorno si svegliano di soprassalto dal loro sonno incantato.
Un uomo con una fiera barba rossa appare nell’arco verde fra due quercie, un altro, a cavallo, nella lontananza azzurra della strada; e noi ne riconosciamo con orgoglio il costume.
È il costume di Orgosolo, e noi siamo nella foresta di Morgogliai.
Così, invece che a Fonni, culla dei nostri avi poeti e vescovi, passiamo la notte ad Orgosolo, nido di uomini dei quali ancora oggi solo Dante potrebbe incidere il profilo.
Note
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In venerdì son nato,
In giorno di tribulazione:
Il cuore è di pietra viva,
E di acciaio temprato.