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A CAVALLO.
Un tempo io ero, pare impossibile, una intrepida amazzone. Ma da noi, in quel tempo, si nasceva, si può dire, a cavallo. Invece che sulle sedie i bambini s’arrampicavano sui mansueti ronzini invariabilmente legati nelle stalle dei ricchi proprietari e sotto le tettoie dei pastori poveri: a cavallo i proprietari andavano a visitare le loro terre, a cavallo si viaggiava da un paese all’altro, a cavallo le nobili dame si recavano a sciogliere qualche voto nelle belle chiese di stile pisano che arricchiscono l’isola, e le serve a portare l’acqua dalla fontana.
E a cavallo si partiva, nelle luminose albe di primavera e d’autunno, in allegre brigale, per le feste campestri: il cavallo, quindi, era per noi ragazze di buona famiglia condannate ancora a una vita orientale, chiusa e sorvegliata gelosamente dai genitori, fratelli, zii e cugini, un simbolo di libertà e di gioia.
Si diventa alti, a cavallo, e si ha l’illusione di essere, come i centauri, creature favolose