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strano prete cinquantenne, piccolino di statura e larghissimo di spalle e di petto, che aveva un vocione di basso e mostrava d’avere una salute di ferro e una forza erculea. Egli li ricevette cordialmente, sbrogliando il pavimento a pedate, e li fece entrare nell’altra stanza, non mobiliata che d’un armadio, d’un cassettone e d’una tavola grande per gli scolari, sulla quale c’era qualche libro, un rasoio aperto, una saliera, dei tegami, un giornale. Andò subito a attinger del vino e lavò due bicchieri in una catinella, mentre il maestro, dando un’occhiata ai libri disposti in fila sul cassettone, ci trovava un’altra stranissima mescolanza di cose: libri di chiesa e di scuola, delle Sibille celesti, il vecchio romanzo storico I montanari sardi, e Dio sa per che via venuto, il libretto della Gemma di Vergy.

Ah! che buona spanciata di buonumore! Da un pezzo il povero maestro non aveva più riso così di vena. Ma il meglio era che don Biracchio non rideva mai: detta la facezia, stava a vederne gli effetti aggrottando le sopracciglia sui suoi due occhi di pulce e arrotondando le labbra come per fischiare. Conosceva tutti quanti, dal primo signore all’ultimo vaccaro, su tutta la superficie del mandamento, era al fatto d’ogni avventura e d’ogni braca fino a vent’anni addietro, e sopra ogni caso o persona aveva in pronto un aneddoto pepato e esilarante. E poi un tritume di discorsi da non potersi riassumere: con che metodo aveva fatto il vino, in che modo aveva riparato a una filtrazione d’acqua nel muro, la storia del suo rasoio, il modo di far l’insalata; ma le cose meno significanti pigliavano in bocca sua un certo sapor lepido e nuovo, e rivelavano tutte insieme un senso così piacevole della vita, una filosofia così comoda, una sanità così tranquilla del corpo e dello spirito, che, udendolo, veniva la voglia di fermarsi a mangiar là, in quei tegami, e di prender domicilio in quella catapecchia, con lui, per viver fuori del mondo, senza pensieri e senza malinconie. E pareva, a sentirlo, che avesse una vita piena di faccende: si levava alle cinque, spazzava, spaccava legna, armeggiava per dell’ore tra i suoi quattro mobili, e poi si faceva da mangiare, e la scuola, e l’uffizio, una corsa di qua, una corsa di là: non gli bastava la giornata. E