Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/X

Un tristo giorno

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UN TRISTO GIORNO.


Certo, l’ispettore aveva detto più d’una verità, e altre cose, che meritavano d’esser meditate; ma siccome per attuar le idee di lui, se pure ne fosse stato persuaso, il maestro non avrebbe dovuto mutar soltanto [p. 126 modifica]il suo metodo d’insegnamento, ma rifare sè medesimo, così, dopo un non lungo esame di coscienza, egli prese il partito che tutti i maestri prendono in simili congiunture: continuò in tutto e per tutto col sistema di prima.

Ma seguì in quei giorni un caso che, quasi a malgrado suo, produsse un mutamento nella sua scuola.

Passeggiando una mattina fuor del paese, per un sentiero ombreggiato da gelsi, che fiancheggiava la strada provinciale, vide venir giù per la strada il medico a cavallo, che tornava dal suo giro solito, con gli occhiali verdi e l’ombrellino aperto, sotto un sole che accecava. Quando si trovaron vicini, quegli soffermò il ronzino, e, salutato il maestro, gli disse ch’era stato a visitare un suo scolaro, in una casa poco lontana, che accennò. Non ne sapeva il nome; ma al maestro venne subito in mente un ragazzo che gli mancava da quindici giorni: un tal Dobetti. — Guardi — soggiunse il medico — lei ci dovrebbe fare un passo.... perchè veda almeno una faccia di cristiano prima d’andarsene. Ci ha certi cani di parenti! — E si rimise in cammino. Il maestro gli domandò: — Che malattia? — E quegli rispose allontanandosi: — Ma! La malattia dei ragazzi maltrattati.... Ahi che cani! che cani! —

Il maestro passò dall’altra parte della strada, prese un viottolo a traverso ai campi, e arrivò a una piccola casa di contadini, dove non si vedeva indizio di vita. Entrò nell’aja: all’ombra d’un carro da fieno stavano seduti in gruppo due ragazzini e una bimba, che parevan fratelli e sorella, silenziosi. Andò diritto fino all’uscio, dov’era attaccato un sonetto a stampa in lode della Madonna; picchiò, l’uscio s’aperse, ed egli si trovò davanti il contadino e sua moglie, ritti in mezzo alla stanza, con le braccia ciondoloni: due facce chiuse e fredde.

Disse loro ch’era il maestro. E domandò: — Come va il malato?

La donna abbassò gli occhi. Il marito scrollò il capo, e rispose con voce chiara: — Se ne va.

Mi parete già rassegnati, — osservò il maestro, guardandoli.

— Cosa vuole? — disse la donna con un sospiro; — è già il terzo che nostro Signore ci riprende. [p. 127 modifica]

— Dov’è? — domandò il giovane.

Il contadino indicò un uscio da una parte, la donna andò a sospingere l’imposta, e il maestro entrò, seguìto da tutti e due. Era una stanza senza intonaco, ingombra per metà di fascine ammontate e d’attrezzi agricoli. Entrando, il Ratti inciampò in un grosso nido di calabroni, che doveva esser caduto dalle travi del palco. Il letto non si vedeva. I contadini accennarono che era dietro al mucchio delle fascine, nell’angolo.

Il maestro girò intorno: vide un letto e un viso: era la morte.

Un senso di stupore e di ripugnanza lo tenne immobile qualche momento. A stento riconosceva il ragazzo, che aveva il viso stranamente assottigliato, color di cera, luccicante di sudore, e delle mosche nel cavo d’un occhio; gli occhi parevan rientrati nelle occhiaie, il petto ansava. Era disteso sopra uno strapunto di paglia, che posava su delle assi sporgenti, sostenute da due cavalletti bassi. Aveva sotto il capo un cuscino senza fodera, a strisce turchine, già annerito, e un solo lenzuolo addosso, che cascava da una parte sull’ammattonato; e per l’apertura della camicia sudicia mostrava le costole. Sotto uno sgabello di paglia sfondato che serviva da tavolin da notte, c’era un pezzo di pan di segala. Si sentiva un odor forte di sudore.

Il maestro s’avvicinò al capezzale, mise un ginocchio a terra e una mano sulla sponda del letto, accanto a quella del ragazzo, scarnita, che non osò di toccare.

— Mi conosci? — gli domandò.

Al suono di quella voce insolita il ragazzo girò gli occhi lenti, come per cercar la persona, e arrestò lo sguardo sopra di lui, vagamente, come sopra un’ombra.

Il giovine ripetè la domanda.

Allora gli occhi del malato s’animarono un poco, come se vi s’accendessero due scintille giù in fondo; egli mosse le labbra, sporgendole avanti, e pronunziò a stento, con un fil di voce, la parola maestro. E questa parola diede una scossa al giovine, come s’egli vi sentisse per la prima volta un suono grave e solenne.

Sentì nello stesso momento, con un fremito, qualche cosa che gli moveva sul petto: guardò: era la mano del ragazzo che, salendo lentamente su per la [p. 128 modifica]sua giacchetta, glie l’aveva afferrata sotto al bavero, e vi restava come attaccata.

Allora lo prese una pietà infinita, ed egli afferrò quella mano fredda e viscosa, che non gli fece più ribrezzo. Cercò delle parole di conforto; non ne trovò. Dirgli: coraggio, guarirai, gli pareva crudele. Non trovò altro che una domanda: — Dobetti, soffri?

Il ragazzo fece un movimento con le palpebre, per dir di sì. E ansava forte.

Il maestro si ricordò allora d’un rimprovero che gli aveva fatto un giorno per un lavoro, non terminato; si ricordò la sua voce, un difetto di pronunzia, il suo sorriso; ma come cose d’un tempo già lontano.

Il piccolo malato teneva sempre gli occhi fissi nei suoi, come se osservasse le lacrime che vi luccicavano; le prime, forse, ch’egli vedeva sparger per sè. E la sua mano non lo lasciava. Il giovine cercava intanto dei pensieri che lo sollevassero dalla pietà angosciosa che gli opprimeva l’anima. Era meglio per lui, povera creatura. Che vita avrebbe fatta? Che piaceri lo aspettavano? La morte gli toglieva così poca cosa!... Ma il suo cuore si ribellò con un grido a quei pensieri. Ah! no! È inutile, è una cosa crudele e tremenda! Un fanciullo che muore! Gran Dio! Nascere, mangiare un po’ di pan nero, esser battuto, e morire! — E un altro pensiero gli balenò: quella morte desolata in quella stanza nuda, su quel pagliericcio sudicio, accanto a quel tozzo di pan duro, davanti a quei due parenti impassibili, era una cosa che seguiva tutti i giorni, migliaia di volte, continuamente. Oh! l’abbominevole pensiero!

Il fanciullo continuava a fissarlo, e sotto la fissità di quelle pupille che andavano velandosi e convergendo come per effetto di strabismo, egli cominciava a sentire un’inquietudine, un senso quasi di sgomento, come se stesse per uscire da quello sguardo il segreto dell’eternità. Il malato ansava con maggior violenza, e dava di tratto in tratto un colpo di tosse, e allora gli veniva sulla bocca una saliva purulenta; gli occhi gli s’infossavano, la mano gli si raffreddava. Poi cominciò a movere fitto le labbra come se pronunziasse delle parole di terrore in una lingua senza suono.

— Muore — disse il padre. [p. 129 modifica]

— Inginocchiatevi, — disse il maestro; — che vi veda!

La madre soltanto s’inginocchiò, mettendosi una mano sul viso.

E allora il ragazzo fu scosso da uno di quegli ultimi sforzi della vita, che strappano qualche volta ai bimbi moribondi una parola suprema, la quale riman nel cuore dei parenti come uno strazio eterno. S’agitò, strinse più forte il vestito del giovane, e gridò stralunando gli occhi: — Ah maestro! Ah maestro! È finita!

La sua mano s’aperse e ricadde, e il viso rimase immobile in una espressione di stupore.

— È morto — disse il padre.

Un ribrezzo improvviso fece trarre il viso indietro al maestro; ma subito egli fu risospinto avanti da un impulso del cuore, e chinatosi sul morto, gli mise insieme un bacio e un singhiozzo in mezzo alla fronte.

Poi s’alzò, asciugandosi le lacrime, e vedendo il padre e la madre ritti in mezzo alla stanza, lei con gli occhi appena rossi, lui che corrugava le sopracciglia per mostrar tristezza, disse loro con accento d’irresistibile disprezzo: — Vegliatelo.... almeno.

Quelli l’accompagnarono fino all’uscio che dava sull’aia, inondata di luce. E lì la madre, trattenendolo, gli disse ch’eran poveri, che avevan molti figliuoli: se avesse avuto la bontà di dar qualchecosa per la sepoltura, lui che era stato maestro del povero ragazzo.... Il maestro le mise in mano qualche moneta, voltando le spalle, e attraversata l’aia rapidamente, prese per i campi, sotto il sole. Camminava come sbalordito, preso nel più profondo dell’anima da quel sentimento terribile della morte veduta, che muta tutte le idee della vita e scolora il mondo; e si vedeva sempre lì quel piccolo viso immobile e misterioso, che gli andava davanti, rivolto verso di lui, come un’apparizione; e con quello degli altri, mille altri, in basso, in alto, vicini, lontani, innumerevoli visi bianchi di bambini morti, l’immenso e desolato campo di battaglia dell’infanzia e della fanciullezza, che lottano con l’incuria, il disamore, la malvagità, la miseria, e muoiono senza baci e senza compianto. E tutto questo gli pareva così orrendo, ch’egli si rifugiava con la mente in una speranza sovrumana, per salvarsi dall’odio della vita e dall’esecrazione della sua specie.