Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Garasco/VI
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SOLITUDINE.
Ma seguitava a far scuola volentieri, ed era contento. Quell’atto così modesto e preveduto di riscuotere in fin del mese quella piccola somma all’ufficio dell’esattore, pensando che se l’era guadagnata centesimo per centesimo con altrettanti insegnamenti e correzioni e buoni consigli, gli dava ogni volta un piacer vivo, che gli durava per vari giorni. Gli mancavan soltanto nella scuola alcune cose indispensabili, che decise di chiedere al sindaco: qualche cartellone d’attrezzi agricoli, un mappamondo sferico, se era possibile, anche piccolissimo, e soprattutto un banco di più, poichè essendogli venuti dopo il primo mese cinque nuovi ragazzi, era costretto a farne star due a scrivere sul suo tavolino, ritti in piedi per tre ore filate. Una bella mattinata di novembre, trovato il sindaco davanti a casa sua, tutto di buon umore, con stivali alla scudiera e frustino, che stava per montare a cavallo, parendogli propizio il momento, gli toccò, fra le altre cose, di quello che occorreva alla scuola. — Ma come! — esclamò quegli maravigliato. — Mancano queste cose alla scuola? Ma provvederò ipso facto. Lei ha detto? — E si fece ripetere le tre cose, contandole via via sulle dita della mano, e acconsentendo col capo chino, come per porger meglio l’orecchio. — Farò scriver subito — disse — in-fal-lan-te-mente. — E lì su due piedi partecipò al maestro una sua idea: egli stava architettando qualche cosa per il primo dell’anno, una specie di festa scolastico-civile, con declamazione di poesie e concerto, e un ballo di ragazzi: una festa nuova e simpatica: ci sarebbero venute apposta delle famiglie sue conoscenti da Torino. Ma bisognava preparare gli alunni molto per tempo. — Uno di questi giorni — concluse — la manderò a chiamare per concertarci. — E salutatolo cordialmente, saltò in sella, diede di sprone e scomparve.
Passarono vari giorni e il maestro non vide più il sindaco, nè intese parlare di cartelloni e di banchi; ma se ne consolò, pensando che, se non altro, evitava di dover pestare nel capo ai ragazzi qualche brutta poesia d’occasione per la solennità minacciata. E continuò a viver tranquillo, non comprendendo ancora, poichè l’occupava quella passione della scuola, come fosse possibile in un villaggio l’esser divorati dalla noia al segno che mostravano alcuni, i quali, per disperazione, passavano fin quattro volte al giorno all’Albergo della Croce a domandare se erano arrivati dei forestieri, non fosse stato che un carrettiere, pur di vedere una faccia nuova. La domenica soleva andar con la corriera a ***, a veder sua sorella, e gli altri giorni non bazzicava con nessuno. In un mese incontrò una volta sola don Leri fuor della scuola, una sera di domenica, che arrivava da Torino, dov’era andato a far ricerca di certi documenti per il suo lavoro, ch’ei teneva in un pacco sotto il braccio, carezzandoli rispettosamente, come un tesoro sacro, col viso grave. Incontrava più spesso il soprintendente Toppo, che gli rendeva il saluto di mala grazia, ogni volta più rannuvolato, come se minacciasse tempesta. E un giorno riconobbe finalmente davanti a un’osteria il figliuolo del calzolaio, da un gesto che quegli fece per accennarlo a due suoi compagni, e dall’aria di sfida con cui lo guardò, cacciando le mani nelle tasche del panciotto e una gamba avanti. Egli finse di non vederlo. S’incontrarono qualche altra volta, e quegli sempre faceva l’atto di guardarsi attorno, se ci fosse gente, con ostentazione, per fargli comprendere che, se non ci fosse stato nessuno, l’avrebbe affrontato. Ma visto che il maestro mostrava un’indifferenza imperturbabile, e più forse per effetto della cessazione delle visite, la smise. Solo una notte egli e i suoi compagni briachi gli andarono a cantare sotto le finestre le cinque vocali, imitando il raglio degli asini affamati, come per esprimere insieme il concetto che avevano delle sue condizioni finanziarie, e la stima che, per conseguenza, facevano della sua professione. Ma egli non ci badò. Non gli rimaneva che un desiderio in quella vita solitaria che menava, e l’aveva fin dalla scuola, confuso con tutte quelle immaginazioni liete, benchè modestissime, dell’avvenire, a cui s’abbandonava nei suoi momenti migliori: avrebbe voluto avere nel villaggio una maestra giovane e colta, con cui stringere amicizia; un’amicizia schietta e cordiale, dalla quale potesse nascere col tempo, ma non nascesse così presto per non ingombrargli la via ai primi passi, un’altra affezione. C’era bene la giovane maestra di 1a. Ma questa non gli andava a genio per il suo carattere anfibio tra la contadinella e la signorina: egli ci vedeva l’immagine d’un mazzetto mescolato di fiori di campo e di fiori di carta, e indovinava dai suoi occhi la fermentazione di vanità e di idee monche e balzane che doveva aver prodotto in lei la insufficiente cultura letteraria, soprammessa alla incompleta educazione sociale. Se un dubbio poteva ancora avere, glielo tolse una breve conversazione che fece con essa una mattina, incontrandola sola per la campagna dov’era caduta nella notte la prima fiorita di neve. La ragazza, soffermata in mezzo alla via, stava pigliando delle note col lapis sopra un quadernetto.
— La signorina, — le disse egli levandosi il cappello, — sta componendo.
— No, — rispose essa con franchezza, — non compongo mai passeggiando. Segno dei pensieri, così per non dimenticarli; una, due parole; non di più.
— Un giorno, però, ci farà gustare qualche cosa.
— Oh! — rispose, scrollando il capo, — siamo ancora ben lontani da quel giorno!
— Conta dunque di non dar mai nulla alle stampe?
— Mai, non dico; ma no per un bel pezzo, senza dubbio. È una mia idea, di non pubblicare nulla prima dei ventinove anni.
Il maestro sorrise. — Lei diffida troppo del suo ingegno. Perchè mai ha fissato proprio il numero ventinove? se non è indiscrezione domandarlo.
— Questo è un mio segreto.
— Qualcheduno glie lo ruberà, e l’obbligherà a pubblicare prima.... con un nome di più.
— Non c’è questo pericolo.
— Perchè?
Tacque un momento; poi disse: — Perchè non amerò mai.
— Ne è proprio sicura? Come può dire questo alla sua età?
— È un voto fatto.
— È strano. Ed ha anche fatto voto di non dirne a nessuno il motivo?
La maestra fissò gli occhi per terra, come assorta in un pensiero, e poi disse sentenziosamente, con un sorriso che voleva esser finissimo:
L’arte che tutto fa nulla si scopre.
Per conto suo egli l’aveva scoperta abbastanza.