Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Garasco/III
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UNA RETE.
Intanto si veniva facendo alla vita del villaggio. Andò qualche sera al Caffè della Piazza, dove si radunavano gli amici del sindaco, e all’albergo della Croce Bianca, frequentato dai suoi avversari; e fece conoscenza coi personaggi principali del paese. Ma eran tutti così assorti nei tarocchi, che a mala pena tendevan la mano agli amici intimi, quando entravano, senza quasi alzar gli occhi dal gioco, e a lui, dopo un cenno di saluto, non badavan più. Egli non se n’ebbe a male, perchè non desiderava altro che di esser lasciato in pace: d’altra parte, la correzione dei lavori e la preparazione delle lezioni gli prendevano quasi tutte le serate; oltre che a notte fatta, quando non splendeva la luna, il villaggio era così buio, che egli, come molti altri, non usciva per timore di dare e di ricevere delle nasate. Incontrava quasi ogni giorno per le scale, o nel corridoio delle scuole, don Leri, che lo salutava affabilmente, e barattavano qualche parola; ma, vedendolo sempre come intento a svolgere il filo d’un pensiero, non lo intratteneva. E se ne viveva così, solitario.
Ma fu ben presto forzato a uscire dalla solitudine.
Ogni volta che s’incontravano, l’assessore Toppo gli diceva amabilmente, chiudendo gli occhi: — Maestro, c’è sempre una bottiglia che lo aspetta. — Temendo che finisse con risentirsi della sua ritrosia, egli decise di andarlo a trovare. Bevettero la bottiglia. L’assessore lo seccò con un discorso interminabile intorno alle pratiche che s’andavan facendo presso la direzione del Catasto perchè fosse “ripristinata„ nella campagna di Garasco “la vecchia viabilità„ e si rimettessero a segno i proprietari ingordi che s’eran venuti mangiando a poco a poco le vie comunali; e gli fece anche la storia particolareggiata di certe vie ch’erano al tutto scomparse, con molte citazioni di misure, di ricorsi e d’articoli di legge; ma poi lasciò ragionar lui della scuola, approvando con cenni del capo le sue idee, ed egli provò tanto piacere di potersi sfogare in quell’argomento, che, ripregato, ritornò. Il modo di condur la conversazione, da parte dell’assessore, era sempre lo stesso: esordiva con una specie di dissertazione dottorale intorno a un soggetto su cui si sentiva forte, come la “Società cooperativa fra i consumatori del vino„ o il servizio della corriera o la tassa di fuocatico, e poi lasciava la briglia sciolta al maestro sulla questione dell’insegnamento. E questi ci pigliava gusto; stupito, peraltro, che la nipote maestra non aprisse mai bocca sopra quell’argomento che pure le doveva star a cuore, e un poco imbarazzato, oltre che dal suo silenzio costante, dal vedersi sempre addosso i suoi due occhi fissi, luccicanti d’una certa civetteria goffa e bonacciona, che pareva piuttosto un contegno suggeritole, che un atteggiamento volontario. Ma alla quarta visita il signor assessore prese a toccar certi tasti che gli destarono un vago sospetto: la maggior rispettabilità di cui godono nei villaggi i maestri ammogliati, rispetto ai celibi; la buona riuscita che fanno di solito i matrimoni tra maestri e maestre, i quali mettono insieme i due stipendi, e s’aiutano a vicenda nelle cose di scuola; e cose simili. Anni addietro, per esempio, c’era stata nel villaggio una coppia esemplare, e ancora molto giovane.... — Diavolo! pensò il maestro; che io paia un partito conveniente, e che tutte queste cortesie abbiano quello scopo? — E adocchiava intanto di sfuggita la ragazza, il cui sguardo, fuggendo per la prima volta il suo, lo confermava nei suoi sospetti. Lo confermò il dì dopo anche meglio il segretario comunale, che, incontrandolo, gli domandò: — Dunque lei frequenta la famiglia del signor assessore?
Il maestro si scusò, allegando i ripetuti inviti.
— Ma lei fa ottimamente, — ribattè il segretario; — bisogna tenersi in buona coi superiori. E del resto, — soggiunse con un sorriso — la signorina non manca d’attrattive, e lo zio ha le coste larghe.
Il maestro arrossì e, per nascondere il dispetto, mostrò di credere ch’egli celiasse. — Sì, un bel partito, — disse, — un maestro con settecento lire di stipendio.
— Che! — rispose l’altro, — lei farà carriera, e poi.... penseranno che abbia dei mecenati.
Il maestro si ricordò delle domande che gli aveva fatto il soprintendente intorno alla famiglia Goli. E a fine di levarsi ogni dubbio, tornò un’altra sera in casa sua, risoluto di non lasciarvisi poi più vedere, per non fare una parte ridicola o disonesta. Ma questa volta gli seguì un caso strano. Uscendo dalla casa a notte fitta, inciampò e cadde a terra, e sentì ridere nel buio, poco lontano. Si rialzò e, al tasto, riconobbe che aveva inciampato in una corda tesa a traverso alla strada. Guardò intorno: non vide nessuno; ma nel punto che stava per allontanarsi, sentì un fischio a un orecchio e un colpo di sasso nel muro, dietro di sè. Non aveva un coraggio temerario; ma era uno di quelli, ai quali il ricordo d’un atto di vigliaccheria fa così acerbamente soffrire l’amor proprio, che basta il terrore di quella tortura a cacciarli incontro al pericolo. Egli si slanciò dalla parte dond’era venuta la sassata; non vide anima; sentì da capo delle risa, ma più lontane; poi silenzio. Allora riprese il suo cammino, col sangue sossopra. Sapeva che nei villaggi quel tiro della corda si soleva fare agli innamorati dai loro rivali: era già dunque considerato nel paese come un aspirante alla mano della ragazza, come un cacciatore di doti, o un cascamorto ridicolo. Il sangue gli salì al viso. Chi gli avrebbe mai predetto un fastidio di quella sorta sul primo principio della sua carriera? Una tale stizza lo rodeva che avrebbe svillaneggiato lo zio e la nipote come due nemici diffamatori. Non dormì quella notte, si svegliò con quell’osso nella gola. Ed era ben deciso di romperla; ma non senza chiarirsi prima con qualcheduno, chè, se c’era un concorrente geloso, doveva essere conosciuto, ed egli voleva prevenire il sospetto che cessasse dalle visite per paura. Ma a chi rivolgersi? Gli s’affacciò alla mente la maestra Strinati, vecchia del paese, che sul conto dell’assessore doveva saperla lunga, e per via di quella faccenda della scuola privata, non usar riguardi.
V’andò verso sera, col pretesto di domandarle se era uso fra gli insegnanti del comune di mandare in principio d’anno all’ispettore del circondario una copia del programma didattico che ciascuno aveva stabilito. La trovò occupata a riveder un mucchio di camicie imbastite dalle sue alunne, al lume d’una lucerna. Le si presentò con quel rispetto, misto di cordialità filiale, che rende accetti i giovani alle vecchie senza figlioli. E rimase stupito a sentirsi domandare ex-abrupto: — Lei, dunque, è tutto di casa col signor assessore? — Essa pure! Egli si scusò: c’era stato due o tre volte, invitato, pregato quasi. Ma in che maniera lo sapeva lei? — Ma pensi se non si sanno queste cose! — rispose la maestra, continuando a passar le camicie. — E poi, già, era destinato. Anche il suo predecessore gli andò per casa.... per un po’ di tempo. È una fissazione che ha quell’uomo di caricarla a un maestro, forse per dare al marito, invece della dote, la sua protezione; perchè già s’intende che la borsa non la vuole aprire. Pare che non veda l’ora di levarsela dai piedi. Ha una gran premura d’aver la casa libera. Con che fine poi, chi lo sa? Alle volte questi vecchi ippopotami fanno delle pazzie poco prima di morire. Scusi, le piace la “damigella?„
Il maestro fece un gesto: quella sorrise con le labbra strette. — Volevo dire! Un dromedario. Del resto, è lui che ha il prurito di farle far la signora, pensando di maritarla più facile; chè, quanto a lei, non c’è punto tagliata, e scappa pei campi ogni volta che può, a dar una mano alle contadine.
Impaziente di sapere, il maestro le disse il fatto della corda e della sassata. — Come? — domandò la maestra, posando la camicia che aveva tra le mani, — così presto? Che dovesse accadere, me lo aspettavo; ma dopo un certo tempo. L’altro maestro è stato bastonato. — E, senz’altro, svelò il mistero. L’incognito della corda era il figliuolo del calzolaio, che due anni avanti, credendo la ragazza dotata bene, l’aveva domandata, e, toccato un no tanto fatto, furioso, l’aveva giurata addosso a chiunque si fosse fatto avanti dopo di lui. Un farabutto, ch’era stato tre mesi in prigione per una coltellata data in rissa. Non gli era ancora occorso, nel villaggio, di vedersi fissato insolentemente da un giovinastro bruno, con una voglia sotto un occhio, e la berretta per traverso? Era un’anima persa capace di fargli un brutto tiro; il maestro avrebbe fatto bene a guardarsene ogni volta che fosse ritornato là.
Sospettando, da quelle parole, ch’ella volesse tastarlo per veder se aveva paura, il giovane le disse che sarebbe ritornato apposta, e più d’una volta; ma che poi era deciso di finirla. — E farà bene a tornarvi — riprese la maestra; — anzi io la consiglio di non romperla così bruscamente, per non offendere il vecchio, che sarebbe uomo da pigliarla a perseguitare, per vendetta, come ha fatto con l’altro. Perchè è orgoglioso come l’Imperatore delle Russie, sa lei, con quella faccia di maschera di fontana. Per un nulla è capace di tirar giù una letteraccia al Prefetto di Torino, e poi dà ad intendere che ha ricevuto la risposta, mentre si sa da tutti che la sua carta sporca va nel cestino. —
E raccontò come una cosa notissima in paese ch’egli era stato una volta rimbeccato in tutte le regole dal provveditore di Torino per essersi risentito con lui che non l’avesse riconosciuto a primo aspetto per il soprintendente di Garasco, col quale aveva già avuto che fare l’anno prima. — Col provveditore di Torino, che riceve venti persone al giorno tutto l’anno, vecchio gonzo, va! che sa appena legger lo stampato. — E ne raccontò un’altra: di certo giorno, quando essa era ancora maestra di 1a, che il Toppo era venuto in scuola, e per vedere i progressi delle bambine che incominciavano appena a sillabare, aveva tirato fuori un manifesto del Municipio, e s’era maravigliato e sdegnato che non lo sapessero leggere, perchè egli credeva che, essendo tanto più facile la lettura quanto i caratteri son più grandi, un manifesto stampato a lettere cubitali si dovesse saper leggere anche dopo un mese d’abecedario.
— Del resto, — continuò la maestra, abbassando la voce, — io le debbo dire un’altra cosa, per coscienza. La ragazza non le va a genio, non è vero? E questo basta. Ma lei non se ne deve impicciare anche per un’altra ragione, che c’è un brutto affare per aria. — La ragazza aveva la patente di maestra, fuor di dubbio: c’era chi l’aveva vista e toccata. Ma era poi una patente da vero o da burla? Questa vanterìa della patente datava da vari anni, e tutti, sulle prime, ci avevano creduto; perchè no? Ma poi erano cominciati a nascer dei dubbi sul quando la ragazza fosse andata a dare gli esami. Dei curiosi s’eran messi a cercare e a chiedere; ma a nessuno era riuscito di trovare ch’ella si fosse assentata da Garasco altro che una volta, con suo zio, quattro anni innanzi, per andare a Torino, e i giorni del viaggio non combinavano appuntino con quelli degli esami di patente di quell’anno. Di più erano state domandate informazioni, così alla larga, a un certo professore e ad alcune maestre del circondario, che avevan la patente della stessa data; ma nè quello nè queste si ricordavano d’averla veduta, nè agli esami in scritto nè ai verbali. E un’altra cosa da notarsi, nessuno aveva mai inteso una sillaba dalla sua bocca riguardo a quei benedetti esami, che pure per una ragazza dovevano essere stati un avvenimento importante. Come andava questa faccenda? C’era del losco. Sicuri proprio d’una birbonata non s’era ancora; ma c’era qualcheduno, tra i nemici dell’assessore, che continuava a investigare. Non sarebbe stato quello il primo caso che si fossero fabbricate delle patenti false al Provveditorato, per danaro. In ogni modo, quando si fosse accertata la cosa, sarebbe stato uno scandalo da doversi nascondere sotto terra chiunque avesse parentela con la famiglia.
Il giovine ne sapeva abbastanza. Tornò ancora una volta dall’assessore; lasciò languire la conversazione come per preparare zio e nipote a non rivederlo più per un pezzo, si congedò freddamente, e lanciata in su dalla strada una di quelle occhiate con cui si fa un crocione a una casa come a un affare fallito, se n’andò col proposito fermo di non ricomparirvi mai più.