Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/XIII
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ENTUSIASMI.
Ma a questo pettegolezzo il Ratti non badò, assorbendosi ogni dì più nella scuola, con una passione ch’egli si domandava qualche volta, maravigliato, donde venisse. Non mai come allora s’era sentito vicino di spirito al grande educatore di Zurigo, che per affinità di natura egli aveva sempre prediletto. Sempre gli sonavano dentro quelle sue belle parole: — Tutto ciò che v’era di buono nello spirito dei miei fanciulli, io lo conoscevo. La mia mano teneva stretta la loro mano, i miei occhi leggevano negli occhi loro: io confondevo le mie lacrime alle loro lacrime, il mio riso al loro riso. Io non avevo amici; non avevo nulla, nemmen da mangiare; avevo solamente i miei diletti scolari. Io pregavo e insegnavo, stando accanto al loro letto, fin che si fossero addormentati. Anche quando eran lontani da me, io vivevo con essi. — E ripetendosi queste parole, capiva, sentiva con tutte le forze del cuore come il far delle anime nobili fosse la più santa e gloriosa opera che potesse compier l’uomo sulla terra. Anche a lui, come al suo grande maestro, seguiva ora qualche volta, nel cominciar la lezione, d’esser preso dall’agitazione febbrile, che assale l’artista al lavoro. Persuaso per lunga esperienza di quella gran verità, che tanto più riesce facile al maestro di tener la disciplina quanto va meglio preparato a far la lezione, ci si preparava con molta cura, ogni giorno. E facea delle lezioni filate, serrate, calde, che forzavano tutti all’attenzione, e dalle quali usciva contento, come un oratore da un trionfo di tribuna. Quando nelle brevi pause del suo discorso, voltandosi verso la finestra a guardar la vastiissima pianura punteggiata di campanili bianchi, s’immaginava le centinaia di maestri che in quella stessa ora lavoravano in quelle centinaia di villaggi a istruire e a educare miriadi di ragazzi, l’idea di aver parte in quell’opera immensa e benefica, gli faceva battere il cuore d’entusiasmo. Egli non ignorava che vari parenti d’alunni lo accusavano d’aver troppa indulgenza, lagnandosi che i lor figliuoli, demoni in casa, non fossero mai castigati in scuola; ma di questo si confortava, pensando che del Pestalozzi s’era detto il medesimo, e che molti parenti dei suoi scolari neppure lo salutavano, e alcuni l’avevano in odio. Sapeva pure che il suo metodo non andava molto a verso al sindaco, il quale, avendolo visto un giorno accompagnar per mano e ragionare con amorevolezza uno dei peggio soggetti della classe, gli aveva detto passando: — Moine a quello lì? Un toc d’ frasso! (Un pezzo di frassino!) — Ma egli era così certo oramai che con la bontà spinta fino alla dolcezza angelica si potesse riuscir a tutto, che di nessuna disapprovazione s’inquietava. Andava a visitare a casa i ragazzi malati, e a dar consigli ai parenti, perdonando anche gli sgarbi. Si occupava con speciale amore degli alunni di scarsa intelligenza. Vigilava anche fuor della scuola i più discoli, cogliendo ogni occasione di ammonirli, col fare d’un fratello maggiore più che d’un maestro. Si trovava come in uno stato di grazia d’intelletto e d’animo, che gli rendeva ogni cosa facile e gradita. E a questo effetto cospirava una primavera splendida, e la bellezza del luogo arioso, donde si vedeva da ogni parte verde e azzurro, dei fiumi d’argento lontani, le Alpi bianche, e v’era per tutto un odor d’erba, di fiori e di terra, che gli ridestava il sentimento fresco dell’adolescenza, e con esso la speranza di diventar qualche cosa nel mondo, e il proposito di ricominciar la sua vita intellettuale. Si rimise, infatti, ai suoi studi. Rincasava la sera presto, e scambiata qualche parola con quella bizzarra guardia tutta pelo, che passava delle ore immobile sull’uscio a chieder dei numeri a tutte le stelle del firmamento, si chiudeva nella sua camera a ripassare i suoi trattati e a studiare il francese. Alle volte, a ora tarda, sentiva la voce rauca del Reale, che passando per la strada e indovinando dal lume ch’egli studiava, gli gridava con la lingua impacciata: — Bravo, dacci dentro! Studia lo scibile!.... Ah che matto! Ah che minchione! — ma neppur questo non lo turbava; non solo, ma il pensiero della enorme differenza che passava fra lui e il suo collega lo rinvigoriva anche di più nei suoi buoni propositi. E in quell’eccitazione di tutte le facoltà migliori della sua natura gli si ridestò pure il senso religioso che non gli era mai morto: nulla di determinato, ma quasi un bisogno di tener l’animo sgombro di bassi pensieri, come per prepararlo a ricevere un sentimento di fede di cui non aveva ben chiaro il concetto, una tendenza a meditare a lungo di notte, con gli occhi su quella grande pianura illuminata dalla luna, evocando le immagini di sua madre, dei suoi fratelli, dei suoi benefattori, della sua buona amica Faustina, che gli infondevano la speranza d’un’altra vita. E arrivò fino a cercar la compagnia del parroco, e l’occasione d’aprirgli l’animo suo, come in una confessione da figlio a padre; ma la prima volta che il buon prete trapelò il suo sentimento, sgomentato all’idea d’un colloquio alto e commovente a cui si rifiutava la sua fibra, s’affrettò a rompergli il tempo offrendogli da bere e intavolando un discorso faceto. Il giovane si voltò allora a don Bruna, col quale aveva già concertato di cominciar lo studio del latino. Egli si sentiva bene ogni volta che vedeva quel viso aperto e che stringeva quella mano fresca di vecchio onesto. Ma vide che neppur con lui si sarebbe potuto aprire. A un primo cenno ch’egli facesse del suo stato d’animo, quegli diventava serio, e ascoltava con rispetto, ma si teneva fuor del discorso, restringendosi a battergli una mano sulla spalla e a esclamare: — Oh che bravo giovane! Oh che buoni sentimenti!.... — da prete intelligente, il quale capiva che con le frasi solite, — le sole ch’ei fosse in grado di dirgli — avrebbe piuttosto turbato che aiutato la germinazione gentile di pensieri e di affetti che indovinava nell’anima del suo giovane amico. Ma questi si contentava anche di quel poco. Una sola cosa lo frastornava, ed era una sensazione più veemente che, dopo venuta la primavera, gli faceva la maestra Pedani, ogni volta che la vedeva e le parlava. Col fiorire della nuova stagione essa aveva preso come uno splendore di salute maraviglioso, e pareva che il suo corpo si fosse fatto anche più possente e più bello, pur rimanendo inalterato il suo viso, il quale non esprimeva che un forte e tranquillo sentimento della sua giovinezza. Non era amore quello ch’essa gli destava; ma come un formicolìo di scintille nel sangue, un turbinìo d’immagini tentatrici, di cui ciascuna rappresentava una sua forma e un suo atteggiamento, e nessuna il suo viso; le quali gli attraversavan la mente come baleni, qualche volta anche nella scuola, s’egli l’aveva incontrata prima d’entrare. E questo ribollimento ch’ei risentiva andò fino al punto, che un giorno si tradì. Stava discorrendo con lei della prossima venuta dell’ispettore, sull’uscio d’un giardinetto di casa sua, e fissava da qualche minuto la bella mano con cui essa afferrava e quasi tentava la forza di resistenza d’una delle spranghe di ferro del cancello, quando, senza che il discorso lo portasse in nessuna maniera, un complimento dozzinale, chiarissimo, stupido, che gli s’aggirava da un po’ sulle labbra, gli scappò tutt’a un tratto, lasciandolo stupito della propria sciocchezza e della propria audacia. La maestra lo guardò con attenzione, e indovinato dal suo viso che quelle parole non esprimevano soltanto il grillo d’un momento, ma un ordine di pensieri abituali, e forse un proposito e una speranza, gli rispose tranquillamente, squadrandolo da capo a piedi: — Faccia l’esercizio coi manubri.