Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/XIV

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Il colpo fu duro, e lo fece fremere per vari giorni di dispetto e di vergogna; ma produsse il buon effetto d’un ferro rovente sopra una piaga. L’orgoglio offeso soffocò la voce dei sensi, e quando quello tacque, egli si ritrovò libero. Anche servì a distrarlo da quel pensiero la visita inaspettata d’un suo collega d’una borgatella dei monti, del quale fin dai primi mesi gli era già arrivata la fama d’improvvisatore di versi in dialetto. Costui gli si presentò da sè per pregarlo di stendergli una domanda di sussidio al Consiglio scolastico, fondata sopra una tal quantità di ragioni che ci sarebbe voluto una giornata a scriverne mezze. Era una figura di vecchio mago, zoppo, con gli occhi sempre stralunati e con i capelli grigi lunghissimi; il quale gli parlò in lingua italiana, forse per stornare il sospetto che non la sapesse; ma con un vizio strano di pronunzia, che, quando parlava spedito, gli faceva scambiar le finali di tutte le parole: diceva: un grosse affaro, una false deposiziona. Egli disse che si voleva far comporre il [p. 125 modifica]ricorso da un maestro giovane e fresco di studi, non perchè non sapesse scrivere lui, ma perchè ora il modo di scrivere che egli aveva imparato non piaceva più essendo mutato, come ogni cosa al mondo, lo stile, e le autorità non vedendo più di buon occhio i maestri che scrivevano con le frasi di una volta. Questo pover uomo aveva un figliuolo soldato, e nel suo villaggio, per aiutarsi a vivere, faceva lo zoccoliere. Uscendo, improvvisò in forma di ringraziamento uno scherzo in due versi così lagrimevole, che per poco il Ratti non mise la mano in tasca per dargli due soldi. Ritornò poi altre volte a salutarlo, e un giorno gli presentò un altro suo collega, anche più povero e più originale di lui, venuto a Camina a riscuotere lo stipendio dall’esattore: uno che per campare, nel suo comunello, faceva insieme il maestro, il collettore di posta e il segretario d’un paesetto vicino; oltredichè cavava qualche lira vendendo degli scoiattoli, che aveva una destrezza mirabile a cacciare; e viveva in un terrore continuo di perdere qualcuno dei suoi impieghi, dopo che eran comparsi in un giornale della provincia due articoletti contro di lui, intitolati: — Il maestro ubiquista e accumulazione degli stipendi; tanto che al solo vedere una gazzetta si rannuvolava. E tuttavia il Ratti seppe di costui che c’era in un’altra borgata un maestro, il quale

per questa noia di mangiare e bere

aveva, durante una lunga malattia del titolare, fatto il beccamorti; e la cosa era stata divulgata in un numero del Supplemento del Popolo, ch’egli conservava, per amore dei commenti filosofici che andavano uniti alla notizia. Era una smania generale anche da quelle parti di mettere i poveri maestri alla gogna dei giornali. Un mese prima, appunto, dopo tanti anni che lo lasciavano in pace, avevano scritto una corrispondenza contro un vecchio maestro prete, rimproverandolo di corrompere i ragazzi con la soverchia mansuetudine; e quell’articolo, il primo di cui fosse fatto segno in vita sua, gli aveva a tal punto sconvolto l’anima, che da quel giorno egli aveva cominciato in scuola a tirar calci e ceffate con così matto furore, che gli [p. 126 modifica]scolari gli scappavan persino dalla finestra. E d’altri ancora sentì parlare, vicini e lontani, i quali sonavano tutti insieme la sinfonia della bulletta con l’accordo d’un’orchestra di professori. Ma quella di cui giovò meglio l’esempio a insegnargli a contentarsi di poco, fu una maestra del villaggio di Riocaldo, dove egli fece un giorno una passeggiata con don Bruna, che aveva conosciuto il padre di lei, usciere di tribunale in Alessandria. Rimasta orfana e sola, che aveva già la patente, essa se n’era ritornata al suo paesetto, dove aveva impiantata una scuola facoltativa, con lo stipendio di duecento lire l’anno. Lì l’avevan conosciuta bambina, la trattavano bene. Era una ragazza sui ventott’anni, tarchiatella, con un viso di Pasqua, d’un’operosità e d’un buon umore senza pari, e abitava in due stanze grandi come due compartimenti di vagone; in una delle quali dava lezione ai suoi scolaretti dei due sessi, che sedevano sopra rozzi panchettini fatti dai villani e scrivevano sopra vecchie panche d’un’osteria andata in malora. Ella stessa descrisse la sua gaia povertà a don Bruna, che fece con lei un vero duetto d’allegria. Per vivere faceva camicie e stirava per contadini; i quali, quando tornavan dal mulino con la farina di meliga, le regalavano un sacchetto, come dicono, di polenta nuova; e quando facevano il pane impastavano apposta la grossa mica per lei. Guadagnava anche qualche cosa facendo di quelle larghe cuffie bianche che portan le contadine in gran gala, e in cambio di certe lezioni di conteggio che dava di nascosto a certe persone adulte che volevan salvare il pudore dell’ignoranza, riceveva al tempo della vendemmia qualche canestro d’uva, con cui si faceva essa medesima, in un mastello da cucina, una mezza brenta di vinetto, che le serviva a tinger l’acqua per tutta l’annata. E con tutto questo, aggiungendovi le patate e le mele che metteva in serbo per l’inverno, e scaldandosi un poco, nei mesi più freddi, coi pezzi di legna che le portavan gli scolari, viveva. È vero che, cucendo anche in scuola, doveva, per esser un po’ libera, far copiare delle decine di pagine di storia sacra e empire dei mezzi quaderni di calligrafia; ma a cucire in scuola c’era costretta, non potendo far la spesa del lume per lavorar di notte. — Perchè — disse ingenuamente, col [p. 127 modifica]suo buon sorriso, porgendo ai suoi ospiti due bicchieri d’acqua inzuccherata — io non ho mica i grossi stipendi che hanno loro.