Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/XIV
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LICENZIATA.
Era uno sproposito peggior del primo poichè, senza addurre nuovi motivi, s’infliggeva una nuova e maggior punizione a un’insegnante già dichiarata immeritevole d’una punizione minore. La maestra, più tranquilla questa volta, ricorse da capo al Consiglio scolastico perchè fosse annullato il licenziamento, e intanto continuò a far scuola. Ma le cose eran mutate, l’inimicizia del sindaco aveva cominciato a produrre i suoi effetti. Vari parenti che già mandavan le figliuole a scuola di mala voglia, fatti certi oramai che il sindaco non li avrebbe più denunziati al pretore per una trascuranza che gli poteva parer disprezzo per la sua nemica, tennero le figliuole a casa. E la maestra vide, pur troppo, nel viso dell’altre alunne, e nel loro contegno, un riflesso dei discorsi, chiari o velati, che si facevano a carico suo nelle loro famiglie: dei sorrisi maliziosi negli occhi delle più grandi, e apertamente malevoli sulle labbra delle triste; e nello sguardo di quelle buone, che le erano affezionate, una vaga pietà, una certa curiosità inquieta, come se aspettassero da un momento all’altro ch’ella dicesse qualche cosa, che sfogasse in loro presenza il suo dolore o il suo sdegno. Ella si sentiva bene la forza di lottare con le autorità, senza paura; ma quel mutamento della sua scolaresca, che parea le sedesse davanti come a giudizio, e nella quale ella capiva ch’era sempre presente un pensiero estraneo alla scuola e diretto a lei, le dava un dolore indicibile, che turbava anche la sorgente del suo coraggio. Questo dolore le fu ancora accresciuto. Una decina di giorni dopo il licenziamento, cessò di venire a scuola la bambina che le regalava le stelle di montagna. Essendo figliuola d’un contadino del sindaco, essa non ebbe nemmeno il coraggio di andarne a chieder conto ai parenti; ma ogni volta che vedeva quel posto vuoto, le si stringeva il cuore, come se la bimba fosse morta, e quando la notava assente, c’eran le maligne che dicevano: — L’abbiamo vista. Non è mica malata! — Una sola alunna la confortava con un raddoppiamento d’affezione e di segni di rispetto: la figliuola del pizzicagnolo, il quale pure la salutava appena per la strada: entrando in iscuola, essa la sorprendeva qualche volta a perorare in un crocchio col viso rosso, e capiva che difendeva lei. Ma i banchi si vuotavano di giorno in giorno. Il tredici di gennaio, che era il suo giorno onomastico, il giorno in cui da per tutto aveva ricevuto dalle sue alunne qualche dimostrazione gentile, tre sole, fra cui la figliuola del pizzicagnolo, le portarono un mazzetto di fiori alpestri: le presenti non erano più che quattordici. Quel giorno non potè nascondere il suo dolore al maestro. Comparve sul terrazzino appena un momento, e gli disse con grande tristezza: — M’hanno cambiato le mie scolare. Mi abbandonano.... Non mi amano più.
Quella sera stessa, non potendosi più frenare, il Ratti decise di sfogarsi col segretario; il quale da un po’ di tempo, con la sua faccia più spaurita del solito, e con l’ostinato silenzio che serbava sull’affare della maestra Galli, lo irritava. Ma questi lo prevenne con una preghiera. Titubò un pezzo a metter fuori quello che aveva in manica; poi, balbettando un monte di scuse, gli fece capire che, avendo deciso di cambiar l’orario dei pasti per ragioni d’ufficio, ed anche per mettersi a un regime speciale, a cagione d’un malessere persistente, era costretto a rinunziare alla mensa in comune....
Il maestro capì al momento la ragione vera, ch’era il terrore del sindaco, e quella vigliaccheria lo indignò — Eh! quante storie! — esclamò, alzandosi da tavola — Mi dica francamente che ha paura di compromettersi! Ci vuol tanto coraggio?
Ma quegli protestò, arrossendo e facendogli cenno che parlasse piano: non era vero: egli non era capace d’una debolezza simile; gli aveva detto la pura verità; il maestro poteva informarsi dal medico.... verificare il nuovo orario del municipio....
— Mi dica almeno, — gli disse il maestro, — che riconosce che questa guerra che si fa alla maestra Galli è una birbonata, che si fonda sopra una calunnia indecente, e che c’è sotto qualche sporcherìa del suo principale.
Il segretario, spaventato fece l’atto di chiudergli la bocca e corse a chiuder l’uscio della cucina.
— Mi confessi almeno, — ripetè il Ratti, — che è persuaso della calunnia, perchè lei sa che è una calunnia.
— Ma Dio benedetto! — rispose quegli in aria costernata. — Ma che cosa vuole che io le confessi, che non ci ho colpa nessuna, e non so niente? Lei sa che il segretario è il servo dei servi, lo strofinacciolo del comune. Che cosa vuole che abbiano detto a me?
— Ma dunque, — riprese il maestro, — lei si fa approvatore, complice.... lei non è il segretario, ma il tirapiedi del sindaco!
— Ma che tirapiedi, Dio superiore! Parli piano. Che piedi vuole ch’io tiri, che me li danno tutti nel deretano, dalla mattina alla sera; maledetto il giorno che m’hanno stampato! — E rimase lì in atto contrito, come per chieder perdono.
Il maestro lo guardò con più compassione che sdegno, e trangugiato in fretta l’ultimo boccone, sbattè il tovagliolo sulla tavola e s’avviò per uscire.
Il segretario gli corse dietro, dicendogli: — Anche non desinando più insieme, saremo sempre buoni amici lo stesso, non è vero? — E siccome il maestro non rispondeva: — Veda, — gli disse, trattenendolo per il braccio, — per darle una prova della mia amicizia le dirò una cosa che le farà piacere. — Il giovane si voltò, aspettando una rivelazione. — Le dirò, — continuò l’altro, abbassando la voce, — che in questa quistione con la maestra, il municipio, a mio parere.... — E dopo una pausa, soggiunse col tuono di chi fa una gran concessione:... — sarà molto difficile che la spunti.
Il maestro gli avrebbe allungato uno schiaffo. Gli disse in faccia: — Lei è un buffone, — e gli voltò la schiena.
E quegli fece un passo avanti, dicendo con voce supplichevole: — Badi come parla.
Ma da quel giorno il Ratti non gli parlò più. E da quella persecuzione contro la maestra egli era ferito allora, non solo nel cuore e nella coscienza, ma anche nell’egoismo della sua passione, poichè vedeva bene che, se pure aveva per effetto di legar più affettuosamente lei, sola e addolorata, al suo unico amico, rendeva però più difficile a lui di parlarle, e quasi gli faceva un dovere di scansarla, per non aggiunger esca alla maldicenza; oltrechè, fin ch’ella durava in quelle angustie, gli sarebbe parso indelicatezza il manifestarle l’animo suo. E il peggio era che cominciava a sentire i colpi del nemico anche lui. Il sindaco mandava attorno fra i suoi aderenti una petizione da sottoscrivere, colla quale si domandava “l’allontanamento„ del maestro e della maestra per causa del “pessimo esempio„ che davano “alla gioventù„ del paese. Nessuno sapeva in modo certo che dessero altro malo esempio che quello di discorrere sul terrazzino; pochi credevano a peggio; i più accorti dicevano che la punizione del trasferimento sarebbe stata giusta soltanto per metà, in quanto, cioè, avrebbe levato dalle Case Rosse la maestra Vetti; la quale, veramente, a giudicarne dalle orme che lasciava sulla neve quel tal maestro d’Azzorno, pareva che fosse un po’ troppo ospitale. Ma così gli uni come gli altri si divertivano della cosa, e ci facevan su delle chiacchiere interminabili, che i ragazzi sentivano e ripetevano. Il maestro ne provò presto le conseguenze nella sua scolaresca, nella quale, oltre a una tendenza al disordine cagionata dalla ineguaglianza del suo umore, principiò a serpeggiare un sentimento di irriverenza per lui. Una mattina egli trovò disegnate col carbone sul muro esterno della scuola, sotto una delle finestre della sua classe, due figure abbracciate, che rappresentavano lui e la maestra Galli, coi registri fra le mani, e vide dei ragazzi che spiavan l’effetto che gli facea quel disegno. Questa scoperta svegliò la sua diffidenza, e ad ogni sorriso o parola sommessa che si scambiassero gli alunni più grandi, egli cominciò a sospettare che parlassero di lui e di lei. Di diffidente diventò in breve irritabile. Si lasciò sfuggir coi ragazzi degli epiteti che non gli erano mai usciti di bocca, e che rimasticava dopo la lezione, con amarezza, pentito d’averli detti. Prese a scansare, quasi con repugnanza, tutti quegli argomenti, trattando i quali gli uscivan prima dal cuore delle parole d’entusiasmo e d’affetto, poichè sentiva che quelle parole non gli sarebbero più venute alle labbra, o avrebbero reso un suono falso. E l’accorgersi che i più grandi, con una finezza incredibile per l’età loro, coglievano a volo ogni frase o parola ch’egli dicesse o leggesse, la quale si riferisse anche lontanamente o presentasse un grossolano e informe equivoco relativo all’amore e alla donna, lo mise in un imbarazzo continuo e affaticante, che gli rendeva la scuola molesta e uggiosi gli alunni. Ah! come tutto era mutato!