Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/XIII
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LA PRIMA BOMBA.
La settimana appresso scoppiò la prima bomba. Entrò una mattina l’inserviente comunale nella scuola della Galli, e scoprendosi il capo di mala grazia, le presentò copia d’una deliberazione del municipio, con la quale essa era trasferita alla “frazione„ delle Case Rosse, a datare dal prossimo anno scolastico. La maestra lesse: le alunne la videro impallidire. Uscì di scuola stropicciando il foglio tra le mani, soffocata dallo sdegno. Era una prepotenza inaudita, contro la quale doveva protestare sull’atto, per non lasciar supporre che ci fosse nella sua coscienza la più leggera incertezza. Essa aveva pattuito col municipio di far scuola nel capouogo del comune, e non in una frazione; di far la seconda femminile, e non la scuola mista. Portare a viver suo padre in quella borgatuccia, lontano dalla farmacia e dal medico, le sarebbe stato impossibile. In ogni modo, quel trasferimento non motivato sarebbe parso un castigo, ed era per lei un disonore. In fretta e in furia scrisse queste ragioni, in forma di protesta, al municipio, ed aspettò la risposta. La risposta non venne. Andò dal delegato scolastico: aveva la gotta, e non riceveva nessuno. Stese allora il suo ricorso al Consiglio scolastico della provincia, e lo mandò raccomandato. Il ricorso s’incrociò con una lettera del provveditore che la chiamava a Torino, fissandole il giorno e l’ora dell’udienza. Angustiata più dall’incertezza che dal timore, affidò suo padre a una vicina di casa, e partì per Torino la mattina a buio, con la neve, viaggiando prima in calesse, poi in diligenza, poi in strada ferrata. Arriva a Torino, si presenta al provveditore: che cosa c’è?... che cosa vogliono?... Il sindaco l’aveva prevenuta con una lettera che annunziava il suo trasferimento alle Case Rosse per motivi di moralità: lei e il maestro, che stavano a uscio e uscio, diceva la lettera, mantenevano una relazione che dava scandalo al paese. Invece della discolpa, le venne subito alle labbra l’accusa, e stava per lasciarla andare in parole roventi; ma la rattenne. A che pro? Il sindaco avrebbe negato, l’accusa veniva troppo tardi, e il solo pensiero che potesse parere una contromina preparata con astuzia le metteva ribrezzo. Si restrinse a difendersi, con la fronte e la voce alta. Era una calunnia indegna. Lei e il maestro si parlavano. Che si poteva dire di più? Che scandalo ci poteva essere? Perchè avevan creduto alla prima denunzia? Perchè non avevano attinte informazioni da altri prima di chiamarla come una colpevole?... Il provveditore le osservò riguardosamente, guardando la lettera che il maestro andava in casa sua. — Ma c’è mio padre! — gridò essa, indignata; — il sindaco stesso è venuto! — Il provveditore la guardò, parve scosso, ed ebbe la delicatezza di non accennare un passo della lettera, nel quale il sindaco diceva di non essere andato a casa di lei se non per accertarsi che il padre si trovava in tale stato da non si poter considerare come un testimonio imbarazzante. — Ho fede in lei, — disse il provveditore, dopo un minuto di silenzio, e la congedò con buone parole, raccomandandole prudenza e pazienza. Essa ripartì subito, e ritornò a notte fatta, spossata, al villaggio, dove correvan già mille chiacchiere sul trasferimento, sul suo viaggio, sulle sue relazioni col Ratti.... Insomma, s’aspettava la decisione del Consiglio scolastico. Passarono dieci giorni d’aspettazione ansiosa dalle due parti, durante i quali si disse ch’era venuto in paese un personaggio misterioso a chieder ragguagli, ma che non fu visto nè dal maestro, nè dalla maestra, nè dal sindaco. Finalmente, arrivò un decreto del Consiglio di Torino che ordinava l’annullamento della deliberazione sindacale. E il Consiglio comunale l’annullò. Ma il sindaco perdette i lumi. A capo d’una settimana, la maestra ricevette l’annunzio ch’era licenziata.