Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/XV
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DI PEGGIO IN PEGGIO.
Il contegno altero della maestra, e anche più la fiducia ferma ch’essa mostrava d’avere nella vittoria, spinsero l’esasperazione del sindaco agli estremi, e gli fecero vibrare un gran colpo. Andata la maestra una mattina per far scuola, si sentì come una puntata in mezzo al cuore: l’uscio della sua classe era chiuso. L’inserviente comunale, nella strada, aveva rimandato a casa le prime alunne venute, e stava rimandando le ultime. La ragazza, tremante e pallida, lo interrogò. Quegli, senza neppur toccarsi il cappellaccio, le rispose con la sua voce insolente di galletto: — D’ordine superiore, — e non aggiunse altro. Essa ritornò a casa sbalordita, e nondimeno confortata alquanto dal pensiero stesso della enormità del sopruso, il quale sarebbe cessato, certamente, appena fosse giunto dal Consiglio scolastico l’ordine d’annullare il licenziamento; ordine che non poteva esser dubbio. La sera si consultò col Ratti, più calma. Essa voleva scrivere al provveditore. Il maestro la consigliò invece ad aspettare, per mostrar che era sicura di sè e che aveva piena fede nel Consiglio; ed ella si arrese. Ma, senza dirle nulla, il giovane decise di venirle in aiuto, e anche di vendicarla in un certo suo modo, che già volgeva in mente da vari giorni. Scrisse al giornale la Scuola elementare, che andava per tutta la provincia e per altre parti d’Italia, una lettera, nella quale fece la storia della contesa, fustigando il sindaco di santa ragione, e sollecitando l’intervento del provveditore, a cui pregò la direzione di mandar l’articolo, secondo l’uso, segnato di rosso. Quest’avvertimento, a parer suo, avrebbe se non altro intimidito il tiranno, se pur non indotto il provveditore a provveder subito; e in ogni caso sarebbe stato un buon ceffone su quella odiosa faccia di cuoco, che ne avrebbe portato il segno un bel pezzo.
E allora cominciò una lotta in un nuovo campo, che sarebbe riuscita infinitamente comica se non fosse stato così deplorevole il fatto da cui moveva; una di quelle tante lotte che s’attaccano fra i giornali scolastici, protettori dei maestri abbonati, e le autorità dei piccoli comuni, le quali, dovendo battersi con la penna, ci fanno per solito una magra figura. Il direttore del giornale pubblicò la lettera, giusta l’usanza, senza nome, fingendo d’averla ricevuta da Torino, e aggiungendovi fra l’altre frangie: “che il sindaco aveva chiuso la scuola villanamente, come altre volte sbatteva l’uscio della cucina, quando il guattero gli lasciava bruciare la salsa,„ e ci mise a modo di chiusa (cosa non nuova in siffatte polemiche) un invito a tutti gli abbonati dei due sessi, di mandare al sindaco un biglietto di visita come segno d’ammirazione per “la maravigliosa disinvoltura con cui si metteva sotto i piedi la legge e s’infischiava delle autorità scolastiche superiori.„ Il maestro ricevette una copia del giornale, ch’era la sola che arrivasse in paese, e pensò che al municipio pure l’avessero ricevuta; ma per fare in modo che la dimostrazione dei biglietti riuscisse inaspettata, la direzione non aveva mandato nulla nè al sindaco nè ad altri, contando che vari giorni sarebbero trascorsi prima che avessero avuto notizia dell’articolo per altra via. E così avvenne infatti. Usando i maestri e le maestre, in queste occasioni, di sostenersi a vicenda con un buon accordo che lasciano spesso desiderare nei congressi pedagogici e in seno alle loro associazioni, passati quattro o cinque giorni, cominciarono a piover biglietti al sindaco da una quantità d’insegnanti delle Provincie del Piemonte, poi da abbonati della Lombardia e del Veneto, dalle Romagne, dalla Liguria, perfin dal Napoletano; biglietti d’ogni formato e colore, segnati con le lettere p c, con punti d’esclamazione, con dei V a orecchie d’asino; alcuni con cazzaruole, mezzelune ed altri utensili di cucina minutissimamente disegnati con la penna al di sopra del nome o in un angolo, a guisa di stemma gentilizio. Ogni corriere postale ne portava al sindaco sei o sette. In una settimana n’ebbe un’ottantina. Stupito i primi due giorni, inquieto il terzo ed il quarto, diventò furioso finalmente, sospettando una canzonatura relativa alla sua contesa con la maestra, ma senza comprendere in che modo potesse esser stata architettata. Quando stava per andar difilato dalla signorina a fare una scena di tragedia, gli arrivò il numero arretrato del giornale. Per fortuna, essendo la corrispondenza datata da Torino, il suo sospetto andò a cader subito sull’avvocato Samis, e vi rimase come piantato, e ribadito da successive riflessioni. Ma a questo non osando scrivere, e per mancanza di certezza assoluta, e per timore d’esser rimbeccato malamente, commise un error peggiore: scrisse al giornale, e per fare anche peggio, scrisse nel primo impeto di collera, e di proprio pugno, una lettera piena di parole impertinenti, ma vaghe, nella quale non negava nulla e parlava di calunnie, alludendo all’avvocato, suo nemico, e dicendo che aspettava le decisioni superiori “fidente nella giustizia.„ Il direttor del giornale, astuto, pubblicò la lettera senza commenti, in grandi caratteri, con tutti gli svarioni di grammatica e di sintassi, e vari errori ridicoli d’ortografia, che provocarono le risate di tutti gli associati d’Italia. A coronar l’opera, il giorno stesso in cui il sindaco ricevette la sua prosa stampata, gli arrivò il decreto del Consiglio scolastico che annullava il licenziamento.
Appena lo riseppe la maestra, si ritenne salva; e il Ratti e molti altri credettero pure che la scuola sarebbe stata riaperta senza ritardo, non parendo loro possibile che il sindaco e i suoi fidi avessero l’audacia di persistere in una illegalità così sfacciata ed assurda, dopo un secondo avvertimento del Consiglio scolastico, a rischio di incorrere alla fine in qualche smacco clamoroso. Ma lo credettero solamente gli ingenui, quelli che non capivano fino a che punto d’insensatezza potesse l’orgoglio offeso spinger sulla via delle prepotenze un tanghero salito dal lavatoio al seggio sindacale, forte d’ostinatezza e di quattrini, e reso temerario dalla sua stessa ignoranza. Il giorno che ricevette il decreto dell’annullamento, egli fu visto girar per il villaggio con faccia provocante, come se andasse a caccia dei suoi nemici, e fu inteso gridar nel caffè, nella bottega del tabaccaio e altrove, che si rideva del Consiglio scolastico e della Prefettura, che sarebbe ricorso al Consiglio di Stato, che se questo gli avesse dato torto, avrebbe fatto fare un’interpellanza al Parlamento dal deputato del Collegio, che se l’interpellanza fosse fallita, si sarebbe rivolto al Re; ma che in ogni modo non l’avrebbero avuta vinta le maestre, che “portano l’immoralità nei comuni„ e che ricorrono ai giornali per far gettare il ridicolo e la calunnia sulle autorità nominate alla Corona. E la scuola non fu aperta. Credendo la maestra che, soltanto per farle un ultimo dispetto, il sindaco non la volesse riaprire che col nuovo mese, aspettò. Il primo del mese, vedendo ancora chiusa la classe, indusse il maestro Calvi ad andar a chieder la chiave. Ma la chiave gli fu rifiutata. Ricorse allora al delegato scolastico, il quale, urlando per la gotta, le disse di lasciarlo in pace, che si sarebbe occupato dell’affare appena guarito, e avrebbero concertato insieme un nuovo ricorso al Consiglio. Insomma, si ritrovò nelle condizioni di prima.