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Il maestro Calvi 161

sfatto, misurandosi il boccone per poter comprare francobolli, e non trascinando mai altro che da casa a scuola e da scuola a casa la sua lunga palandrana piena di frittelle, e sempre sbottonata. Nel paese alcuni lo tenevano per mezzo matto, altri ne parlavano con grande considerazione. Avrebbe forse fatto miglior riuscita se fosse vissuto fin da giovine in una città grande, dove, nella compagnia d’insegnanti colti e d’ingegno, la facoltà che in lui eccedeva e lo traviava, sarebbe stata compressa dall’urto con le facoltà consimili, ma più forti, degli altri; ma vivendo sempre nei villaggi, dove non c’era chi lo potesse curare coi suoi stessi strumenti, egli non faceva che andar sempre più innanzi sulla strada dell’utopia e della stravaganza. Sua moglie, di professione levatrice, lo teneva in conto d’un uomo superiore, e n’era gelosa.


Tra quest’originale e il segretario passava il giovine Ratti il breve tempo libero che gli lasciavan la scuola e il lavoro di casa; il quale non era poco, poichè, tra l’altre cose, l’istruzione obbligatoria aveva accresciuto il numero già considerevole dei registri ch’egli doveva tenere in ordine fin da prima. Con altri non aveva occasione di trovarsi. La maestra Pezza, malaticcia, si tappava in casa appena uscita dalla scuola; e del resto, avendo domandato per ragione di salute il suo congedo per la fin dell’anno, si considerava già come estranea al paese. Una volta sola, dopo un mese dalla sua visita, egli incontrò il parroco, di cui l’occhio azzurro morto e il saluto freddo non lo invogliarono a fermarlo: era anche lui un solitario che fuggiva tutti. E vide anche un’unica volta, in quaranta giorni, la maestrina Vetti, che veniva ogni tanto a far qualche compera dalla maestra Falbrizio, la quale teneva una botteguccia di merciaia, grande quanto un guscio di noce. La forma stessa del villaggio, lunghissimo, faceva ch’egli s’imbattesse assai raramente nelle poche persone con cui avrebbe potuto scambiar qualche parola. Alle otto della sera, pareva che Altarana fosse sprofondata nel fianco della montagna, e appena qualche lumicino qua e là diceva che c’erano in quello spazio nero delle creature viventi. Solo una sera della settimana, verso le dieci di notte, quando non c’era la

Il romanzo d’un maestro. — I. 11