Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/III
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PARROCO E SEGRETARIO.
Aveva trovato alloggio poco lontano dalla scuola, in una casetta scalcinata e nera, dove a pianterreno abitava il segretario comunale, e al primo piano, sullo stesso suo pianerottolo, la maestra Pezza, che viveva con una vecchia sorella. La casa, composta di due ali congiunte ad angolo retto, formava un cortiluccio aperto verso il mezzo della valle, e da quella parte correva lungo i due lati un terrazzino, sul quale davano di qua l’uscio a vetri del quartierino della maestra, di là quello della camera del Ratti: un cancello di legno separava l’un braccio del terrazzino dall’altro. Il segretario, scapolo, aveva al pian terreno una camera e una cucina, dove una vecchia donna veniva due volte al giorno a fargli un po’ di mangiare. Con costei si accordò il maestro, consentendo il padrone, perchè facesse nella stessa cucina un po’ di desinare a lui pure; che però avrebbe mangiato in camera sua. Questa comunanza della cuoca gli diede occasione di entrar presto in familiarità con quel piccolo personaggio dal mento aguzzo e dai baffi di topo, del quale aveva notato la timidità nella sala del Consiglio comunale. Era un uomo sui quarantanni, ma che per la piccolezza misera della persona mostrava d’esser più giovane; una figura d’impiegatuccio trito, di cui il viso, il modo di moversi, di stare, di parlare, pareva che esprimessero un sentimento di timore indeterminato, misto d’un rispetto ossequioso e inquieto, per qualche grande personaggio presente, che egli solo vedesse. La rigorosa pulitezza dei suoi panni spelati, la cura che metteva a non sciuparli, gestendo e sedendo, facevano indovinare una vita tutta di economie, di riguardi, di scansi; e lo stesso modo teneva nelle parole, ch’egli pesava ad una ad una dentro di sè, prima e dopo d’averle dette, come parole d’una testimonianza giudiziaria. E aveva l’abitudine di parlar sempre a bassa voce, anche in casa sua, e guardandosi intorno come se temesse che dietro a ogni mobile fosse rimpiattata una spia. A questo povero diavolo, nel quale sembravano incarnate tutte le angustie, le difficoltà e i pericoli della sua carica, il maestro fu legato subito da simpatia, e quantunque la conversazione sua riuscisse di necessità un po’ slavata, perchè non c’era verso di cavargli di bocca un’indiscrezione, e neanche un giudizio, fuor che benevolo, sulle persone e sui fatti del comune, prese a trattenersi con lui la sera, nella sua camera, con piacere. E non andò molto che gli scoperse un piccolo vizio. Trincava. Ma solo, in casa sua, e fors’anche alFonte/commento: ed. 1890 buio. Egli se ne accorse dallo straordinario rispetto che mostrava davanti al personaggio invisibile, e dal raddoppiato calore con cui lodava le autorità a una cert’ora della sera. Fu lui, appunto in una di quest’ore, che annunziandogli ch’era guarito il parroco della sua resipola, lo consigliò riguardosamente d’andargli a fare una visita; e, inteso che sarebbe andato, se ne rallegrò, e gli soggiunse all’orecchio: — È sempre prudenza.
Mal prevenuto dall’esperienza del parroco di Piazzena, il maestro andò a far la visita di mala voglia, preparato a imbattersi in un altro tonsurato dello stesso stampo. Ma ne vide uno, invece, non solo diverso affatto da quello, ma anche nuovo al tutto per lui. Lo trovò in fondo a una stanza lunga e strettissima, seduto accanto alla finestra, davanti a un tavolino dove non c’era altro che un libro aperto. Imbruniva e pioveva: la stanza era così buia ch’egli non avrebbe neppure indovinato a un di presso l’età del prete, se il suo viso fermo d’uomo nel vigor maturo degli anni, con una gran fronte ossuta, sporgente sopra un naso a becco d’aquila, non si fosse disegnato di profilo sul chiaror crepuscolare della finestra. La sua accoglienza fu brusca e strana come il suo profilo.
— La ringrazio della visita, — disse al maestro, parlando spiccio, con voce netta, e con una pronunzia italiana che, pur risentendo del dialetto, mostrava un uomo non rozzo. — Ma se è venuto per parlarmi di scuola non occorreva che s’incomodasse.
Il maestro, maravigliato, gli domandò perchè. Poi soggiunse subito, seccamente: — Son venuto per compiere un dovere di cortesia.
— Allora — rispose il prete — tanto meglio. Ma ci tengo a dirle su due piedi, con tutta schiettezza, il mio modo di vedere. Io non m’impiccio in niente e per niente nelle scuole del comune, perchè disapprovo assolutamente tutto quello che vi si fa. Ecco detto. Disapprovo come vi si parla di religione, il sistema col quale vi si educano i ragazzi, i criteri con cui si scelgono i maestri, i programmi, i libri, tutto quanto, e non potendo ottenere che si faccia tutto al rovescio di quello che si fa, per non far nascere dei guai senza frutto, non c’entro.
Il maestro tentò di parlare.
— È inutile, — interruppe il prete, — mi scusi. Lei potrebbe essere pienamente del mio parere, che sarebbe tempo perso lo stesso che noi discorressimo insieme, perchè tanto lei non potrebbe far scuola secondo le sue idee e le mie.... La scuola elementare è quello che è, ossia quello che l’han fatta, e nessun maestro la può cambiare. Ora io ho la ferma, invincibile persuasione che, fuori della legge divina, non si può fondare l’educazione dell’infanzia se non sopra un ammasso di contraddizioni assurde, e che per conseguenza la scuola com’è adesso, con quella lustra d’insegnamento religioso che sarebbe più onesto di togliere, la scuola che mette Dio in un canto, quando non lo nasconde per vergogna, è la peste della gioventù e conduce la società alla perdizione. Non sono uomo di studio, non le so dir altro. Ma sono certo di questo come d’una verità d’aritmetica. Lei dirà: — È un prete che parla. — E io le assicuro che se non fossi prete, e se anche non credessi in nulla, sarei ugualmente persuaso di quello che ho detto. Questa stessa dichiarazione l’ho fatta, a tempo debito, al signor sindaco, col quale non vado d’accordo. Per ciò non ho accettato la soprintendenza. Io non m’occupo dei ragazzi che in chiesa. Lei può fare e dire nella sua scuola quello che vuole. La scuola attuale non la riconosco. E su quest’argomento, mi passi la franchezza, siamo intesi una volta per sempre.
Il maestro rimase un momento in dubbio se dovesse tenersi offeso di quel discorso, o mostrare un’assoluta indifferenza; ma, vinto da un certo rispetto di quella sincerità: — Sta bene, — rispose. — Lei rimane con le sue idee, io con le mie. Sono un uomo onesto, educo i ragazzi da uomo onesto. Questo mi basta.
— Non basta — disse il prete.
Il maestro lo guardò.
— Lei è diventato onesto, — continuò il parroco alzandosi, — perchè fin da ragazzo è stato educato in un modo col quale ora non può più educare gli altri: ossia con la religione. Per questo i ragazzi d’adesso valgono meno di quelli d’allora, e quelli che verranno poi saranno peggio di quelli d’adesso. E così s’andrà avanti fino alla rovina. E se non si rovina fin d’ora è perchè, senza volerlo o avvedersene, maestri, famiglie e scolari tengono ancora un piede sopra un avanzo del fondamento antico. Mancato quest’avanzo, veda, ha da venire il giorno che i maestri non oseranno nemmen più dire ai ragazzi: — Non rubare. — E non lo diranno più che i carabinieri.... se ci saranno ancora. Così potessi salvar l’anima mia come son certo di questa verità.
— Almeno, — disse il giovine sull’uscio, con un sorriso, — io son ben sicuro che non vedrò quel giorno.
— Quanti anni ha?
— Ventitrè.
— Ebbene, — disse il parroco — non si faccia illusioni. La riverisco.
Il maestro era troppo giovanilmente compreso e caldo delle proprie idee, da uscir turbato da quella conversazione; ma n’uscì con un dubbio strano intorno all’uomo. Egli aveva visto nel viso di lui e sentito nelle sue parole qualche cosa, per cui avrebbe giurato che gli mancava la fede religiosa che ostentava, e anche gli pareva che, se fede avesse avuta, in luogo di ritrarsi, come faceva, avrebbe combattuto con coraggio per farla trionfare. No, così non avrebbe parlato a un giovane un prete colto e religioso nel profondo dell’anima, così non avrebbero parlato a lui certi vecchi preti che aveva conosciuti da giovinetto, e che sua madre rispettava; dei quali gli sonava ancora vagamente all’orecchio la voce pacata e affettuosa, che lo commoveva e lo persuadeva più col suono che col senso del discorso. No, egli avrebbe giurato che quel parroco non pregava, e che non aveva mai toccato il cuore a un fedele in vita sua. No, non era un prete credente. Eppure aveva sentito in lui una profonda coscienza di quello che diceva, tanto che della sua sincerità avrebbe fatto fede egli stesso. Come era possibile una tal contraddizione? Conoscendolo meglio, egli l’avrebbe forse capito: qualcun altro, più tardi, gliel’avrebbe forse spiegato. Per allora egli non riusciva a comprendere. Con questo enigma nel capo uscì dalla sua casa, ed anche con un pensiero consolante. — Eccone un altro — pensò — che non si verrà a cacciar tra me e i miei ragazzi.