Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/II

L’istruzione obbligatoria

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L’ISTRUZIONE OBBLIGATORIA.


Il maestro capì alla prima che sotto a quel programma bellicoso del sindaco ci doveva essere parecchia ciarlataneria, come anche una non leggera provvigione di quella brutta cosa ch’egli voleva combattere a morte. Ma pensò che, se non altro, quel sindaco lì non gli sarebbe venuto a rompere il capo con la grammatica. Visitando la scuola, peraltro, egli vide che ci sarebbe stato, prima dell’ignoranza, un’altra grande nemica da combattere, ch’era la sudiceria. Le scuole maschili erano al pian terreno d’una vecchia casa addossata al monte, che avevan ridotta alla meglio a locale scolastico, buttando giù dei tramezzi: in una delle stanze del pian di sopra c’era la classe femminile superiore, e nell’altra, di là dal pianerottolo, ci stava l’inserviente comunale con sua moglie. Quello del Ratti era uno stanzone basso, rischiarato da due piccole finestre a inferriata, attraversato per mezzo da un lunghissimo tubo di stufa, col soffitto nero di fumo, e una parete segnata dall’unto, forse quadrilustre, delle teste degli [p. 152 modifica]scolari. C’eran quattro cartelloni, due dei quali, tarlati e infunghiti, avevan la data del 1847. I muri macchiati d’umidità, i vetri listati di carta, i ragnateli tesi negli angoli, e una scopa sporca che faceva bella mostra di sè nel vano d’una finestra, compivano il quadro. La prima volta che il maestro lo vide, gli tornarono a mente quelle parole del Tommaseo: — Quando la scuola non è un tempio, è una tana. — Quella scuola non era un tempio.


Incominciò nondimeno di buona voglia. Quella novità dell’istruzione obbligatoria gli dava quasi un ardor nuovo, come se con essa dovesse principiare per gl’insegnanti un nuovo e miglior periodo d’esistenza; un periodo nel quale i parenti, meglio persuasi dell’importanza dell’istruzione, imposta così solennemente, come un sacro dovere sociale, avrebbero preso in maggior rispetto il maestro, e agevolato in qualche modo il suo ufficio, adoperandosi, se non altro, con più impegno, a infonder nei ragazzi l’amor della scuola, e a farveli andar tutti i giorni e tutto l’anno. Dal canto suo egli decise di fare tutto il possibile perchè fosse osservata la legge.


Il giorno dell’apertura gli si presentò una compagnia di ragazzi sani, tarchiatoni, d’un bel colorito di montanari, con certe forme di testoni che rivelavan forza di volontà, e degli occhi azzurri chiari, che davano a sperare delle indoli quiete. Ma i presenti eran cinquantatrè, mentre sommavano a settantaquattro gli obbligati. È vero che tutti i settantaquattro non sarebbero capiti nella scuola, e a questo non s’era pensato. Ma, rispetto alla legge, non voleva dire: ventun mancanti eran molti. Passati alcuni giorni, il maestro ne compilò l’elenco, e lo presentò al segretario, che lo trasmettesse al sindaco, e gli domandò insieme notizie intorno ai parenti, per andarli a sollecitare. Quasi tutti stavan fuor del paese. Egli stabilì di far due o tre visite al giorno, deviando qua e là dalla sua passeggiata solita. E cominciò il suo giro con zelo veramente apostolico, dopo essersi predisposte in capo certe brevi esortazioni ragionate, che gli parevano di efficacia sicura. Ma le sue illusioni duraron poco. Per quanto si [p. 153 modifica]presentasse in modo cortese e amichevole, egli fu male accolto quasi da per tutto. Alcuni gli dichiararono apertamente che non avrebbero mandato a scuola i figliuoli perchè n’avevan bisogno per i lavori; altri perchè la scuola era troppo lontana; altri perchè il ragazzo stava poco bene di salute; e mentre parlavano, il malato era lì che macinava pane a quattro ganasce. Egli tentava prima di persuadere; poi ammoniva in nome della legge. — Ah, l’ammenda! — rispondevano; — son ciance. Vogliamo un po’ vedere se il signor sindaco avrà il coraggio di strapparci di bocca quel pezzo di pane! — Alcuni se ne ridevano, dicendo che tutto si sarebbe ridotto a far pubblicare i nomi dei parenti a quel luogo comodo dell’albo pretorio, dove nessuno li avrebbe neanche veduti. — Un contadino, fra gli altri, lo investì. — Ah sì! Ah proprio ci mancava ancor questa delle angherie! Non bastava la leva, ci voleva per giunta l’obbligatoria! Il signor sindaco me lo pagherà lui il servitore da mettere in cambio del figliuolo che mi fa tutte le piccole commissioni! Dica un po’: verrà il signor pretore a condurmi in pastura le vacche! Lasciamola lì, signor maestro: ci vuole del fegato per portar di queste imbasciate! — Ma i più singolari eran quelli che ragionavan sulla cosa tranquillamente, come se il mandare a scuola i ragazzi fosse rendere al Governo un servizio che desse loro diritto a un compenso. — Ebbene — gli disse un di questi, in un crocchio, — se il Governo vuole i ragazzi a scuola, ci dia un sussidio. I soldati li mantengono e li pagano, mi pare. Ora il Governo vuole gli scolari, si paghi gli scolari. — Con tutto questo, un po’ per timore dell’ammenda, un poco per condiscendenza, sei o sette delle venti famiglie renitenti mandarono i figliuoli. Per le altre vide il maestro che non c’era che da aspettar gli effetti del rigore del sindaco, e rinunziò alla sua propaganda.