Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Livia Contessina e donna Felicita.

Livia. Cara donna Felicita, se ancor non è tornato

Il Conte mio fratello, dev’essere impegnato.
Sapete quanti affari l’affollano al presente;
Vi prego accomodarvi, siate più sofferente.
Felicita. Di grazia, compatitemi. Mi par che passeggiando,
La bile che ho di dentro, si vada minorando.
Livia. Siete tanto collerica? sta fresco mio germano.
Felicita. Credetemi, Contessa, non è il mio sdegno insano.
Se mi scaldo, ho ragione. Quando son qua venuta,
Il Conte di lontano lo so che mi ha veduta.
Finse di non vedermi. Si ritirò alcun poco,
Mostrando sovvenirsi di andare in altro loco.
Io per veder se a torto formava un mio sospetto,

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Mi ascosi nell’interno di un vicolo ristretto.

Attraversar lo vidi la via velocemente,
Con un che lo seguiva parlando bassamente;
E l’ho veduto entrare in certa porticciuola,
Ove abita una vecchia con giovane figliuola.
Voglia mi era venuto... ma so che non conviene
A giovane ben nata in pubblico far scene.
Ora ch’è in altro stato, non è qual era prima:
Di me non si ricorda, di me non ha più stima.
Esce di casa in tempo che avevami invitata;
Non ho ragion. Contessa, di dimostrarmi irata?
Livia. Ancor non può sapersi là dentro il mio germano
Per qual ragion sia entrato: può sospettarsi invano.
Chi sa che là non abiti persona indifferente,
Che con quelle due femmine non abbia che far niente?
E poi, perchè i suoi passi esaminar volete?
Compatitemi, sposa ancor di lui non siete.
Felicita. È ver, sposa non sono, ma meco ha tale impegno,
Che usarmi non potrebbe un trattamento indegno.
Priva de’ genitori, sotto una zia canuta,
Per grazia della sorte di beni provveduta,
Arbitra di me stessa, da tutti non sprezzata,
Per riserbarla al Conte la mano ho altrui negata.
Troppo sarebbe ingrato, se a pratiche segrete
Rivolgesse il pensiero.
Livia.   Perchè non aggiungete,
Che mal vi pagherebbe de’ benefizi vostri?
Felicita. Non vo’ per questa parte che grato a me si mostri.
Di far quel ch’io poteva per lui non ricusai.
Ma tosto ch’io lo feci, di già me ne scordai.
Chiedo la ricompensa a un merito maggiore:
Non ai piccioli doni, ma al mio costante amore.
Vorrei, che quale un tempo chiedeva a me consiglio,
Or facesse lo stesso, che forse è in più periglio.
Nello stato infelice in cui si ritrovava,

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Niun di lui facea conto, ciascun lo abbandonava.

Ora che la fortuna lo fa di beni adorno,
Tutti gli sono amici, tutti gli stan d’intomo:
Amici adulatori delle ricchezze sue,
Niuno può aver per esso l’affetto di noi due.
Voi per ragion di sangue, io per inclinazione,
Gelose del suo bene, di sua riputazione.
Livia. Conosco il suo periglio, lo vedo anch’io con pena;
Dacchè cambiò di stato, la casa è ognor ripiena
Di gente, che può dargli sol dei consigli rei;
Se voi pensate ai vostri, io penso ai casi miei.
Non è di lui soltanto sì ricca eredità;
A me pur si appartiene d’averne la metà.
E voglio che si faccia la stima e l’inventario,
E che il danar si metta in un pubblico erario.
Non basta ch’egli dica di darmi la mia dote;
Anch’io del zio defonto sono qual lui nipote.
Felicita. Voi così favellate? Insidiato, oppresso
Dovrà vedersi il Conte fin dal suo sangue istesso?
Però mal consigliata credo che siate, amica;
Dubito che l’intento avrete con fatica.
Siete fratelli, è vero, fìgliuoli ambi di un padre,
Nati però non siete entrambi da una madre.
Della sua genitrice il morto era germano.
Onde con lui sperate di ereditare invano.
Livia. Fra le altre sue fortune il Conte è ben felice
D’aver nelle sue liti sì gran procuratrice!
Felicita. L’affliggerà piuttosto la sorte a lui contraria,
Trovando una sorella nemica ed avversaria.
Livia. Se la ragion mi assiste, a lui non faccio un torto.
Ho delle pretensioni contro lo zio ch’è morto.
Egli di nostro padre in mano ebbe l’entrate,
E colle sue confuse le nostre ha ancor lasciate;
Onde non è ingiustizia, e non può dirsi affronto,
Se dei beni paterni mi faccio render conto.

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Felicita. Siete assai bene istrutta ne’ punti di ragione;

Questa di don Emilio dev’essere lezione.
Ei che a sposarvi aspira, vi vuol più fortunata,
E senza tal speranza vi avrebbe abbandonata.
Livia. Lo stesso si può dire di voi, che coltivaste
L’amor di mio fratello per il ben che speraste.
Felicita. No, mal di me pensate. L’ho detto e lo ridico:
L’ho amato e l’amerei, se fosse ancor mendico.
Cento volte gli offersi la mano di consorte,
Incerta del suo stato, in dubbio di sua sorte.
E quasi bramerei vederlo sfortunato,
Per ismentir chi crede l’amore interessato. (si alza)
Livia. Non tanti eroici detti. Vi cal de’ beni suoi, (si alza)
Per rendere il suo stato più comodo per voi.
Felicita. Ciascuno altrui misura coi propri sentimenti.
Livia. Vi è chi non corrisponde coll’animo agli accenti.
Felicita. Dalle parole vostre si vede il vostro cuore.
Livia. Ed in voi l’interesse coperto è dall’amore.
Felicita. (Se in casa sua non fossi, risponderei qual merta).
(da sè)
Livia. (Se verrà don Emilio, dirò che stiasi all’erta). (da sè)

SCENA II.

Il Conte Orazio, Onofrio e dette.

Conte. (Eccola. Mi dispiace...)

(piano ad Onofrio, vedendo donna Felicita)
Onofrio.   (Ricordisi l’impegno).
(piano al Conte)
Conte. (Aspettate, facciamo le cose con ingegno). (ad Onofrio)
Felicita. (Ritorna con colui che seco ho già veduto). (da sè)
Conte. Eccomi, perdonate se tardi io son venuto.
(a donna Felicita)
Un affar mi trattenne... Livia, che avete voi? (a Livia)
Livia. Nulla.
Felicita.   Sta pensierosa per gl’interessi suoi.

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Conte. Ella non ha motivo di comparir dolente.

Ora spiccio quest’uomo, e torno immantinente.
(si accosta ad un burò, lo apre, ne cava un anello di nascosto delle due donne.)
Livia. (Dica pur quel ch’io penso; non ne averò spiacere;
Di già la mia intenzione un dì si ha da sapere). (da sè)
Felicita. (Quasi sarei curiosa saper quali interessi
Abbia con quell’omaccio, se saper lo potessi). (da sè)
Conte. (Portate alla ragazza per me quest’anellino.
Ditele che perdoni). (piano ad Onofrio)
Onofrio.   (In verità è bellino).
(guardandolo con cautela)
Conte. (Riponetelo presto). (piano ad Onofrio)
Onofrio.   (Subito, sì signore). (ripone l’anello)
Felicita. (Che cosa mai gli ha dato? ho dei sospetti in cuore). (da sè)
Conte. Ite da quel mercante, e ditegli che a conto
Tenga quel che gli mando del mio dovere in sconto.
Che poi ci rivedremo. (forte ad Onofrio)
Onofrio.   Ella sarà servita.
La mercanzia gli piace? gli par che sia polita?
Conte. Sì, ne son contentissimo, e a voi sono obbligato.
Onofrio. La sensaria, signore, però non ha pagato.
Conte. Eccovi uno zecchino. Vi pare a sufficienza?
Onofrio. Per or son contentissimo; le faccio riverenza.
E questa la damina? (uerso Livia)
Conte.   Sì, è la sorella mia.
Onofrio. Ella avrebbe bisogno di un’altra mercanzia,
Di genere diverso, ma sul tenore istesso.
La servirò, se occorre.
Conte.   Non ne parliamo adesso.
Ci rivedremo poi.
Onofrio.   Cospetto! ha un paio di occhi!
(piano al Conte)
Conosco il suo bisogno. La servirò coi fiocchi.
(a Livia, e parte)

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SCENA III.

Il Conte Orazio, donna Felicita e Livia Contessina.

Livia. Dite, signor fratello, quali interessi avete

In quella certa casa, dove stato ora siete?
Conte. Perchè de’ fatti miei volete esser curiosa?
Livia. Non io, donna Felicita di saperlo è ansiosa.
Felicita. È ver, non vi nascondo di aver qualche sospetto,
Promosso unicamente dal zelo e dall’affetto.
Conte. Cosa sapete voi, dove finor sia stato? (a donna Felicita)
Livia. Lo sa, lo sa benissimo. Lo vide, e l’ha spiato.
Felicita. Figlia è d’amor discreto La mia gelosa cura,
Che pensa all’amor vostro, che il vostro ben procura,
Dissimile da quello d’una germana avara,
Che un’acerrima lite vi accende e vi prepara.
Conte. Quai pretensioni avete contro un germano onesto?
(a Livia)
Livia. S’ella il principio ha detto, ella vi dica il resto, (parte)

SCENA IV.

Donna Felicita ed il Conte Orazio.

Conte. Dopo tant’anni e tanti che vissi in doglie e in pene,

Fin la germana istessa m’invidia un po’ di bene?
Che vuol? qual è il motivo, che delirar la fa?
Felicita. Dell’asse ereditario pretende la metà.
Conte. Prendasi quel ch’è giusto, abbia quel che le piace.
Purchè goder mi lasci quel che mi resta, in pace.
Felicita. La pace è il miglior bene, ma non è poi ragione,
Onde saziar dobbiate l’ingiusta pretensione.
Abbia quel che le spetta d’eredità paterna.
La metà della dote della ragion materna.
Godasi quel di più, che le darete in dote,
Ma non è di don Pietro nè erede, nè nipote.

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Alla pretesa ingiusta per sè non è condotta,

Lo so che don Emilio l’ha spinta e l’ha sedotta.
Ei che aspira alle nozze della germana vostra,
Di accrescere i suoi beni sollecito si mostra,
E spera fortunata l’ingiusta pretensione
Coll’arte e la violenza, se non colla ragione:
Spera con una lite confusa e pertinace,
Di farvi a caro prezzo comprar la vostra pace.
L’oro che i giorni vostri può rendere felici,
Non fa contro di voi che suscitar nemici.
L’invidia e l’avarizia arma degli empi i cuori.
Mille vi stan d’intorno perfidi insidiatori;
Chi con trame palesi, chi con coperto inganno,
Tutto l’ingrato mondo cospira a vostro danno.
E chi per voi sol vanta tenero amore in seno,
Forse degli inimici da voi si apprezza meno.
Pare un destin, che sempre dei miseri mortali
Ai beni della vita sian contrapposti i mali;
E che l’uomo medesimo nel più felice stato
Contro di sè congiuri per esser sfortunato.
Sprezzando il proprio bene, amando il suo periglio,
Qual voi di me sprezzate l’amore ed il consiglio.
Conte. Dei rimproveri vostri quale ragione avete?
Felicita. Ditemi, conte Orazio, da cavalier qual siete.
Là dove andar io stessa vi vidi poco fa,
Qual affar vi condusse?
Conte.   Dirò la verità:
Posso dal buon consiglio talora allontanarmi,
Non mai verso di voi gli obblighi miei scordarmi.
Conobbi l’amor vostro nei dì più sfortunati,
Detesto il reo costume dei sconoscenti ingrati.
Veggo, conosco i frutti dell’amicizia vostra:
Non temete ch’io sappia mentire in faccia vostra.
Voi mi chiedete il vero, e il ver vo’ confidarvi;
Sappiate che là dentro....

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SCENA V.

Riccardo e detti.

Riccardo.   Posso bene aspettarvi.

Siete uscito di casa, siete in casa tornato;
Di me, per quel ch’io vedo, voi vi siete scordato.
Del concertato affare tosto vicina è l’ora;
Andiam, con permissione di codesta signora.
Conte. Vi prego dispensarmi; non vuol la convenienza
Ch’io la lasci qui sola.
Riccardo.   Via, dategli licenza.
(a donna Feliclla)
Felicita. Al Conte io non comando, può far quel che gli aggrada:
Se vuol restar, ch’ei resti, se vuol andar, ch’ei vada.
Riccardo. Andiam.
Conte.   No, perdonate.
Riccardo.   Per me vi ho perdonato.
Ma almen non mi negate, che siete innamorato.
Perchè dirmi poc’anzi, celando il vostro cuore,
Che a lei la gratitudine vi lega, e non l’amore?
Conte. Dissi quel che mi parve; a voi non crederei
Obbligo avere alcuno di dire i fatti miei.
Riccardo. Meco non vi adirate.
Felicita.   Il Conte è un uom sincero.
Quando così vi ha detto, non ha celato il vero.
Un po’ di gratitudine mi serba, e non è poco:
Per me nel di lui seno amor non trova loco;
E se a venire aveste un momento tardato,
Questa sua indifferenza mi avrebbe confessato.
Stava per dirmi ei stesso, che da un novello affetto
Accendere s’intese piacevolmente il petto;
Che là dove lo vidi entrar furtivamente,
Trovato ha una fanciulla più bella ed avvenente;
Che avrebbe l’amor suo per lei già dichiarato,
Ma tace pel timore di comparire ingrato.

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Posto da me poc’anzi il Cavaliere al punto,

M’avria svelato il cuore, se voi non foste giunto:
Ora con voi si adira, non per il ver che dite,
Ma perch’ei volea dirlo, e voi lo prevenite.
Io che bramai soltanto saper la verità.
Contenta mi dichiaro di sua sincerità.
So che gli son molesta, so che la sua fortuna
Lo rese in pochi giorni amabile a più d’una;
E so che i buoni amici, che stanno a lui d’intorno,
Non amano vedermi frequente al suo soggiorno.
Addio, Conte.
Conte.   Restate.
Felicita.   No, lo chiedete invano.
Vi amo, ma non mi lascio sedur da amore insano.
Il cielo vi difenda da inganni e da perigli;
Temete più di tutto i torbidi consigli.
Se alcun nella fortuna amico a voi si mostri,
Di voi non è seguace, ma sol de’ beni vostri.
Chi vi sfuggiva un giorno, dolente e sfortunato,
La vostra confidenza non merta in miglior stato.
E ingrato ai benefizi degli astri men severi,
Vi rende l’ingiustizia che fate ai più sinceri.
Per zelo, per amore vi parla il labbro mio;
Un dì conoscerete chi vi vuol bene. Addio, (parte)

SCENA VI.

Il Conte Orazio e Riccardo.

Conte. Ecco; per voi sdegnata dagli occhi miei s’invola.

(in atto di seguirla)
Riccardo. Prima di seguitarla, udite una parola.
Conte. Che vorreste voi dirmi?
Riccardo.   Sembra a quei detti amari
Dir voglia, ch’io l’amore faccia ai vostri danari.
Di me render procura sospetta l’amicizia.
Crediam che ciò provenga da amore, o da malizia?

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Chi ha più di voi bisogno? esaminiam lo stato

Di me che ora vi parlo, di lei che vi ha parlato.
Ella è una figlia nubile, che cerca maritarsi;
Ella è una cittadina, che vuol nobilitarsi.
Chi puote assicurarsi, che quelle cure istesse
Che sembrano amorose, non sian per l’interesse?
E se il bisogno vostro un tempo ha sovvenuto,
Chi sa che il vostro caso non abbia preveduto,
Dicendo infra se stessa con femminil talento:
Dieci arrischiar io posso, sperando di aver cento?
Vi accorderei che fosse sincera e generosa,
S’ella non aspirasse a divenirvi sposa;
Ma con tal mira in mente, con tal desio nel petto,
Fidar non vi potete di un animo sospetto.
Io, di cui la sagace forma vegliando un sogno,
Io, della sorte in grazia, di voi non ho bisogno.
Se a profittar v’invito del ben del secol nostro,
Noi fo per interesse, lo fo per amor vostro.
Ella vi offre mendace una catena, un laccio;
La libertà, la quiete, sincero io vi procaccio.
Con lei de’ vostri beni spera diviso il frutto:
Io la ragion vi mostro d’esser padron di tutto.
Ella da ciò profitta, utile a me non viene.
Or giudicar potete di noi chi vi vuol bene.
Conte. Non so che dir: mi trovo confuso in tal maniera,
Che il ver più non distinguo dall’arte menzognera.
Se in mezzo alle ricchezze non trovo un cuor amico,
Meglio era ch’io durassi a vivere mendico.
Riccardo. Falsa filosofia. Del ben non vi lagnate.
Potete esser contento, quando esserlo vogliate.
Io, che ho meno di voi, vivo ridente, e godo.
Felice voi, che avete di giubbilare il modo.
Conte. Ma sarò poi contento del ben che voi vantate?
Riccardo. Fate quel ch’io vi dico.
Conte.   E che ho da far?

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Riccardo.   Provate.

Andiam da una ragazza giovane, bella e scaltra.
Conte. Ve lo confido, amico: ne ho già veduta un’altra.
Riccardo. Bella?
Conte.   Per dir il vero, il volto è assai ben fatto.
Riccardo. Pallida, bianca o rossa?
Conte.   Mirate il suo ritratto.
Riccardo. Bravo; così mi piace. Malinconia che vale?
Oh cospetto di bacco! so chi è l’originale.
La conosco benissimo. È una bella ragazza.
Figlia di buona madre, per quel che sa la piazza.
E se non vuol far torto a lei che l’ha educata,
Essere non dovrebbe ne stolida, nè ingrata.
Conte. Dal poco che ho veduto, dal poco che ho raccolto,
Parmi che sol consista il merito nel volto.
Non è di molto spirito.
Riccardo.   Se ha grazia, se ha beltà.
Quel che si chiama spirito, un dì l’acquisterà.
Conviene coltivarla con qualche regaletto.
Conte. Questo ancor vi confido: le diedi un anelletto.
Riccardo. Vi lodo estremamente, e mi consolo assai.
Che il tempo e la fatica finora io non gittai;
Siete un uomo di garbo, vedo che alle occasioni
Voi profittar saprete delle buone lezioni.
Volete che torniamo a visitarla insieme?
Conte. Troppo presto, mi pare.
Riccardo.   Vi preme, o non vi preme?
Conte. Per dir la verità, la giovane mi piace.
Riccardo. Voi non farete nulla, se non sarete audace.
Andiam, venite meco.
Conte.   Per ora ho i miei riguardi.
Andremo a ritrovarla verso la sera, al tardi.
Riccardo. Intanto andar possiamo a divertirci altrove.
Passar di casa in casa, e sempre cose nuove.
Conte. Pria del pranzo non esco, ci rivedremo poi.

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Riccardo. Dopo di aver pranzato, ritornerò da voi.

Andrem, prima di tutto, a bevere il caffè
Da una ballerinetta, che il diavolo non è.
Staremo una mezz’ora con tutta libertà,
Delle corbellerie dicendo in quantità.
Senza spendere un soldo, sol coll’esibizione
Del frutto generoso di nostra protezione.
Poscia lasciando il ballo, noi passeremo al canto,
Da certa virtuosa che ha una voce d’incanto.
Canta senza fatica, dell’oro non è schiava,
Basta che le si dica sei sette volte brava.
Di là voglio condurvi da certa mercantessa.
Che pizzica un pochino del grado di contessa;
Che fa dei complimenti, che scherza e che vezzeggia,
E fa crepar di ridere qualor si pavoneggia,
E quando le si danno dei titoli sonori,
Si gonfia dal contento, le vengono i sudori.
Poscia dalla ragazza andrem sull’imbrunire,
Colà, fin che a noi piace, ci potrem divertire;
E a terminar la sera si andrà in un altro loco,
Dove vi saran donne, vi sarà ballo, e gioco,
E cena, e ogn’altro spasso godibile giocondo.
Così senza fastidi vo’ che godiamo il mondo.
Da voi non voglio nulla guidandovi con me;
Ma pur dirà taluno, dev’esservi un perchè.
Il perchè che mi muove, certo non è interesse,
Ma vorrei, com’io godo, che ciaschedun godesse.
Quello che piace a me, credo che piaccia a tutti:
Comunicar desidero dell’allegrezza i frutti;
E parmi di aver fatto un ottimo guadagno,
Quando alla mia partita procuro un buon compagno.
Dell’amicizia mia mi par che siate degno;
Perciò di tutto cuore a vostro pro m’impegno.
Seguite il mio consiglio, credete a quel ch’io dico:
Prendetevi bel tempo. A rivederci, amico. (parte)

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SCENA VII.

Il Conte Orazio, poi Bigolino.

Conte. Più che parlare io l’odo, più di seguir m’accende

La strada del piacere, che facile mi rende.
Che vuol donna Felicita con i rimbrotti acerbi,
Che il ben che ho ereditato, solo per lei si serbi?
E la germana ingrata pretender vuole anch’essa
Tener la mia fortuna con sue minacce oppressa?
Nasca quel che sa nascere. Tanto ho acquistato e tanto,
Che ogni pensier molesto vo’ ponere in un canto.
Vo’ divertirmi, e voglio...
Bigolino.   Signor, con sua licenza,
Una povera donna la supplica d’udienza.
Conte.   Lo sai che cosa voglia?
Bigolino. Non lo so dir, signore,
Ma posso assicurarla, ch’è una donna d’onore.
Disse che un memoriale avea da presentare,
La prego in grazia mia di volerla ascoltare.
Conte. Ti preme che io l’ascolti?
Bigolino.   Per dir la verità.
Mi piace, quando posso, di far la carità.
Tanto pregommi e tanto, ch’io prego il mio padrone.
Conte. È bella?
Bigolino.   Non è brutta.
Conte.   Falla venir, briccone.
Bigolino. Mi ha detto qualche cosa; bramo sentire il resto.
La supplico, signore, di liberarla presto. (parte)

SCENA VIII.

Il Conte Orazio, poi Pasquina.

Conte. Di tutti facilmente io sospettar non soglio;

Ma temo questa volta che siavi un qualche imbroglio.
Pasquina. Serva di vossustrissima.

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Conte.   Vi riverisco. Avete

Cosa da comandarmi?
Pasquina.   Da supplicar.
Conte.   Sedete.
Pasquina. Perdoni. (ricusa di sedere per rispetto)
Conte.   Siamo soli, sedete in confidenza.
Pasquina. Lo fo per obbedirla. Con sua buona licenza, (siede)
Conte. Dite quel che vi occorre.
Pasquina.   Signor, la mia disgrazia
Mi obbliga con rossore a chiedere una grazia.
Sono, non fo per dire, nata con civiltà,
Per causa dei parenti ridotta in povertà.
Mi hanno usurpato il mio, son orfana fanciulla;
Non posso maritarmi, perchè non tengo nulla.
Finor, non fo per dire, trovai più d’un partito.
Ma senza un po’ di dote, signor, non mi marito.
Povera sfortunata, sol ricca di onestà,
A domandar costretta son io la carità.
(mostrando di piangere)
Conte. Non piangete, ragazza. Se siete savia e buona.
Non mancherà il consorte, il ciel non abbandona.
Pasquina. Signor, non fo per dire, ma un’altra come me,
Che soffia quel che soffro, credetemi, non c’è.
(come sopra)
Conte. Ma non istate a piangere. Mi fate venir male.
Ditemi il nome vostro.
Pasquina.   Tenete il memoriale.
Conte. Date qui.
Pasquina.   Cosa fate? Ehi, signor mio, pian piano.
Nessuno in questo mondo mi ha toccato la mano.
Non son venuta qui per quel che vi pensate.
Sono, non fo per dire... non vo’ che mi toccate, (come sopra)
Conte. Nel prendere la carta, toccai per accidente
Un dito appena appena, non sono impertinente.
Sentiamo il memoriale.

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Pasquina.   In fondo, gli attestati

Della mia condizione vedrete autenticati.
Conte. Noi qui appiè sottoscritti, con nostro giuramento
Diciamo ed attestiamo di comun sentimento,
Che l’onesta fanciulla, la signora Pasquina,
Un giorno fu illustrissima, ed ora è poverina.

(la guarda un poco)
Pasquina. Non fo per dir....
Conte. E nata, la povera infelice,
Da nobil genitore, da nobil genitrice.
(la guarda, ed essa mostra d’arrossire)
Fino al giorno presente, in fresca gioventù,
È sempre stata al mondo un fiore di virtù.
Savia, onesta, dabbene, amando di patire
Piuttosto che far male.
Brava. (guardandola)
Pasquina.   Non fo per dire.
Conte. Questo elogio non basta per ritrovar marito?
Pasquina. Signor, senza contanti non trovasi partito. (piangente)
Conte. E quanto vi vorrebbe per il vostro bisogno?
Pasquina. In verità, signore, a dirlo io mi vergogno.
Conte. Dite liberamente. Ho piacer di sentire.
Pasquina. Per la nascita mia, certo, non fo per dire,
Molto più vi vorrebbe; ma nel stato presente,
Credo che mille scudi sia dote sufficiente.
Conte. (Per ora non mi sento di ber questo sciroppo).
Signora, mille scudi, non fo per dire... è troppo.
Pasquina. Pazienza; già l’ho detto, che povera son nata,
E che dovrò vedermi da tutti abbandonata, (piangente)
Conte. Di grazia, non piangete.
Pasquina.   Il memorial.
(chiedendogli il memoriale pateticamente)
Conte.   Pigliate.
(nel darle il memoriale, Pasquina gli prende la mano)
Pian, signora Pasquina, la man non mi toccate.
Pasquina. Ho la rogna alle mani?

[p. 48 modifica]
Conte.   Io non dubito questo;

Ma sono anch’io, signora, non fo per dir, modesto.
Pasquina. E se, in vece dei mille, fossero cinquecento?
Conte. Sarebbero ancor molti.
Pasquina.   Via, mi basta di cento.
Conte. Vorrei trovar il modo di rendervi contenta.
E se invece dei cento, non fossero che trenta?
Pasquina. Vedrei da un’altra parte di procurare il resto.
Basta, che se son pochi, almen vengano presto.
Conte. Subito immantinente. Ecco belli e contati
Trenta scudi, che aveva per altro preparati.
Pasquina. Grazie, signor, vi rendo di tanta carità.
Almen l’avete fatta alla stessa onestà.
Chi sono, chi non sono, vi disse l’attestato;
Ma voglio da voi stesso ne siate assicurato.
Sto di casa nel vicolo in fondo della piazza,
Vicino a quella porta, che guida alla biscazza.
S’entra liberamente, si salgono due scalle:
Vedrete un terrazzino con due finestre gialle;
Ma se voi non volete venire a incomodarvi,
Signor, non fo per dire, tornerò a ritrovarvi. (parte)
Conte. La signora Pasquina savia, dabben qual è,
M’insegna la sua casa, o pur verrà da me.
Dice ben l’attestato, che non può dir di più.
La signora Pasquina è un bel fior di virtù. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note