Niun di lui facea conto, ciascun lo abbandonava.
Ora che la fortuna lo fa di beni adorno,
Tutti gli sono amici, tutti gli stan d’intomo:
Amici adulatori delle ricchezze sue,
Niuno può aver per esso l’affetto di noi due.
Voi per ragion di sangue, io per inclinazione,
Gelose del suo bene, di sua riputazione.
Livia. Conosco il suo periglio, lo vedo anch’io con pena;
Dacchè cambiò di stato, la casa è ognor ripiena
Di gente, che può dargli sol dei consigli rei;
Se voi pensate ai vostri, io penso ai casi miei.
Non è di lui soltanto sì ricca eredità;
A me pur si appartiene d’averne la metà.
E voglio che si faccia la stima e l’inventario,
E che il danar si metta in un pubblico erario.
Non basta ch’egli dica di darmi la mia dote;
Anch’io del zio defonto sono qual lui nipote.
Felicita. Voi così favellate? Insidiato, oppresso
Dovrà vedersi il Conte fin dal suo sangue istesso?
Però mal consigliata credo che siate, amica;
Dubito che l’intento avrete con fatica.
Siete fratelli, è vero, fìgliuoli ambi di un padre,
Nati però non siete entrambi da una madre.
Della sua genitrice il morto era germano.
Onde con lui sperate di ereditare invano.
Livia. Fra le altre sue fortune il Conte è ben felice
D’aver nelle sue liti sì gran procuratrice!
Felicita. L’affliggerà piuttosto la sorte a lui contraria,
Trovando una sorella nemica ed avversaria.
Livia. Se la ragion mi assiste, a lui non faccio un torto.
Ho delle pretensioni contro lo zio ch’è morto.
Egli di nostro padre in mano ebbe l’entrate,
E colle sue confuse le nostre ha ancor lasciate;
Onde non è ingiustizia, e non può dirsi affronto,
Se dei beni paterni mi faccio render conto.