Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA.

Camera in casa del Conte Orazio.

Raimondo e Bigolino, uno da una parte, l’altro dall’altra, incontrandosi.


Raimondo. Buon giorno, Bigolino.

Bigolino.   Raimondo, vi saluto.
Raimondo. Mi rallegro con voi. Se ricco è divenuto
Il signor conte Orazio, vostro padron cortese,
Si accrescerà per voi il salario e le spese.
Bigolino. Certo, se dallo zio cotanto ha ereditato,
Anch’io spero vedermi da lui beneficato.
Raimondo. Bella fortuna, amico! dolcissimo diletto!
Andare a dormir povero, e ricco uscir di letto!

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Bigolino. Il mio padrone infatti visse finor meschino.

Lo zio sordido avaro non davagli un quattrino.
Ma inaspettatamente è morto ab intestato,
E diecimila scudi di rendita ha lasciato.
Raimondo. E dicono che in casa fossevi del grand’oro.
Bigolino. Per bacco! nello scrigno ha lasciato un tesoro.
Tante doppie ho veduto, tanti zecchini e tanti,
Tanti ducati e scudi, che non saprei dir quanti.
Tutta una notte intera in camera serrato
A numerar monete col mio padron son stato.
Quasi mi facea ridere. Il morto, poveretto.
Era insepolto ancora, ancor nel proprio letto;
E il padrone ogni tratto all’uscio si voltava.
Guardando se il defonto ancor risuscitava.
Raimondo. Quel vecchio in mezzo all’oro si è ognor tiranneggiato.
Poscia miseramente è morto, e lo ha lasciato.
Questo è il fin dell’avaro.
Bigolino.   Questo è quel che succede
A chi senza alcun merto benefica un erede.
Raimondo. Far buon uso conviene dei beni della sorte.
Meglio è dar dieci in vita, che donar cento in morte.
Bigolino. Ed ei, per risparmiare, fin si astenea dal vino,
E dato non avrebbe a un povero un quattrino.
Raimondo. Dai sordidi risparmi qual frutto ebbe l’avaro?
Leverà il signor Conte la ruggine al danaro.
Quello che ha il zio acquistato vivendo parcamente,
Consumerà il nipote scialando allegramente.
E fortunati i primi che a lui si accosteranno,
E a consumare e a spendere l’erede aiuteranno.
Bigolino carissimo, parlo per me e per voi:
i primi, i fortunati, potressimo esser noi.
Già dal destin comune non può fuggire il Conte;
A eredi di tal sorta le insidie sono pronte.
Se noi non lo facciamo, lo saprà fare un altro,
Di noi meno discreto, di noi forse più scaltro.

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Io so ch’ei vi vuol bene; sogliono tai signori

Lasciarsi consigliare talor dai servitori.
Ed essi, profittando dell’amor dei padroni,
Compran spade, orologi, si fan degli abitoni.
Io son, già lo sapete, un ottimo sensale:
Son pratico di tutto, son uomo universale.
Ditegli, che volendo far delle buone spese,
Io sono il miglior mezzo che siavi nel paese,
Poscia fra voi e me mettiamolo in pensiere
Di spendere alla grande, da ricco cavaliere.
Farò venir mercanti, se contrattar gli preme,
E tutti due con essi c’intenderemo insieme.
Fate la parte vostra, anch’io farò la mia,
E spartiremo all’ultimo fra noi la sensaria.
Bigolino. Per dir la verità, non mi spiace niente
Questa proposizione, e penso veramente,
Che se il padron mi dona, non mi vorrà mai dare
Tanto, quanto con voi mi posso approfittare.
Raimondo. Per ora ammobigliando gli appartamenti ignudi,
Vo’ che gli facciam spendere tre o quattromila scudi,
E qualche buona somma in abiti ed argenti,
E in vini, e in comestibili, per far dei trattamenti;
Poi, quando si marita, allor si farà il resto.
Bigolino. Credo che a maritarsi risolverà ben presto.
Sono tre anni e più, ch’ei fa l’amore ad una
Ricca mediocremente di beni di fortuna;
E che nella miseria, in cui finora è stato,
Con somme di denari talor lo ha sollevato:
Nobile men di lui, ma spiritosa e bella.
Raimondo. Vorrà, prima di farlo, dar stato alla sorella.
E noi provvederemo, se provveder conviene.
Bigolino. Ecco il padron che arriva.
Raimondo.   Via, portatevi bene.

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SCENA II.

Il Conte Orazio e i suddetti, poi un Servitore.

Conte. Che seccatura è questa! che orribile tormento!

In pace non mi lasciano le visite un momento.
Tre giorni fa nessuno non mi guardava in faccia,
Ora ciascun m’inchina, ora ciascun m’abbraccia.
Bigolino.
Bigolino.   Signore.
Conte.   Chi è quegli?
(accennando Raimondo, il quale profondamente s’inchina)
Bigolino.   È un uom dabbene,
E un mercante onorato, che ad esibirsi or viene
In tutto quel che possa occorrere per ora
Di vitto, di vestito, per lei, per la signora.
Conte. Bigolin, che ti pare? Tre giorni fa, se un pane
Chiedea per sostenermi, non mi guardava un cane.
Bigolino. È ver, ma non si parli del tempo ch’è passato,
E ringraziate il cielo, che siete in miglior stato.
Solo pensar dovete a provvedere adesso
La casa e la sorella, e a provveder voi stesso.
Ma a spender non essendo, signor, troppo avvezzato,
Dovete guardar bene non essere gabbato.
Questi, che qui vedete, è un uom giusto e sincero;
Fidatevi di lui, ch’è un galantuom davvero.
Conte. Chi l’ha fatto venire?
Bigolino.   Per dir la verità.
Io son, che mi ho pigliato codesta libertà;
Ma perchè lo conosco, e so ch’è un omenone,
E so che l’interesse può far del mio padrone.
Conte. Va da donna Felicita, dille ch’è qui aspettata
Da Livia mia sorella a ber la cioccolata.
Bigolino. Subito, sì signore. (È finalmente giunto
A dar la cioccolata in grazia del defunto).
(da sè, e parte)

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Conte. Accostatevi, amico. (a Raimondo)

Raimondo.   Son qui per obbedirla.
(s’avanza inchinandosi)
Degnisi comandarmi, se ho l’onor di servirla.
Conte. Mercante?
Raimondo.   Sì signore.
Conte.   Di che?
Raimondo.   Di tutto un poco.
Buone corrispondenze coltivo in ogni loco.
Di lasciarsi servire quando sia persuasa.
La servirò, occorrendo, di mobili di casa,
Di abiti di ogni sorta, di gioie e argenterie,
D’astucci, d’orologi, di pizzi e biancherie.
Di vini, di liquori, di mode oltramontane,
Di quadri d’ogni prezzo, di specchi e porcellane.
Di cera di Venezia, di caffè di Levante,
Di buona cioccolata, di frutti, fiori e piante,
Statue, cammei, medaglie, armi, libri e cavalli,
Di musica e strumenti, di cani e papagalli.
Conte. Sento che in ogni genere da voi si coglie e semina:
Nel vostro magazzino saravvi anche la femmina.
Raimondo. Per dir la verità, sia detto con rispetto,
Di tale mercanzia, signor, non mi diletto;
Chi vende, e non mantiene, si accusa e si condanna,
E in mercanzie di donne spessissimo s’inganna.
Conte. Bravo, ammiro lo spirito e la prontezza vostra.
Di qualche bella stoffa portatemi la mostra:
Voglio farmi un vestito.
Raimondo.   Perdoni l’ardimento.
Di mobili di casa vuol far provvedimento?
Conte. Cosa avete di bello?
Raimondo.   Cose superbe e rare,
Tappezzerie magnifiche, che fan maravigliare.
Degli arazzi di Fiandra di un gusto peregrino.
Tessuti sui disegni di Raffael d’Urbino.

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Specchi, lumiere e vasi di cristal colorato,

Fabbrica di Venezia d’artefice pregiato,
Che fe’ co’ bei lavori stupire il mondo tutto,
E riportò con gloria dell’invenzione il frutto1.
Addobberem le sale....
Servitore.   Signore, è domandato, (al Conte)
Conte. Chi è?
Servitore.   Il signor Riccardo.
Conte.   Ah! mi ha pure seccato.
Di’ che ho che far per ora. (parte il servo)
Raimondo.   Signore, ha fatto bene.
Le cose che ora premono, risolvere conviene.
Addobberem, diceva...

SCENA III.

Riccardo e detti.

Riccardo.   Si può venire innanti?

Siete confuso e oppresso dal peso dei contanti?
Con voi me ne consolo de’ fortunati auspici.
Ma non si dee per questo scordarsi degli amici.
Avete degli affari? Ecco, son io venuto
A darvi il mio consiglio, ad offerirvi aiuto.
Fuori quelle monete, fuori fuori quell’oro:
Finchè sta nello scrigno, è inutile il tesoro.
Avete assai patito, povero disgraziato,
Rifatevi, e godete per il tempo passato.
Conte. Amico, compatite, stava qui discorrendo.
Riccardo. Io voglio divertirvi, sturbarvi non intendo.
Conte. (Ite, signor mercante, ci rivedremo poi;
Sempre che avrò da spendere, ricorrerò da voi).

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Raimondo. (Signor, la non si lasci persuader da nessuno,

Avrà da me quel prezzo che non può fare alcuno).
(piano al Conte)
Conte. (Dopo pranzo tornate; ci parlerem; vi aspetto).
Raimondo. (Voglio servirla io solo).
Conte.   (Ma sì, ve lo prometto).
Raimondo. (Costui mi fa paura; lo so ch’è un imbroglione.
Lo dirò a Bigolino, che invigili al padrone).
(da sè, e parte)

SCENA IV.

Riccardo ed il Conte.

Riccardo. Chi è colui ch’è partito?

Conte.   È un uom, per quel ch’io sento,
Che ha cognizion di tutto, che ha pratica e talento
Per provveder di mobili, vestiti e vettovaglie.
Riccardo. Badate a quel che fate, vi son delle canaglie.
San che avete danari, ed useranno ogni arte
A gara i frappatori d’aver la loro parte.
Quando si suol comprare, è il consiglio più sano
Le merci dai mercanti pigliar di prima mano.
Lasciatevi servire da chi alle spese è usato.
Io vi farò comprare la roba a buon mercato.
Conte. Veramente vi è tempo a spendere, a comprare:
Per or per qualche giorno ad altro ho da pensare.
Ancor non ho potuto esaminar lo stato.
Le rendite e gli aggravi di quel che ho ereditato.
Tutto da sè faceva lo zio, senza un agente.
Principio ad informarmi; ancor non so niente.
Riccardo. Tre o quattr’ore del giorno ponno bastar per questo,
Pensar, pensar dovete a divertirvi il resto.
Finor siete vissuto, si può dir, fuor del mondo;
Voi non provaste ancora a vivere giocondo;
E se perdete i giorni più bei di gioventù,
I beni e le ricchezze non vi gioveran più.

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Prendendo di soverchio amor per il danaro,

Non meno dello zio voi diverreste avaro.
E se fuor dello scrigno quell’oro non traete,
Più infelice di prima, più misero sarete.
Conte. Non ho intenzione, amico, di vivere infelice;
Mi voglio divertire, però sol quanto lice.
Spendere, non gettare; veduti ho in questo mondo
De’ ricchi, che han distrutto delle ricchezze il fondo.
E se tornassi un giorno nel misero mio stato,
Meriterei allora d’essere bastonato.
Riccardo. Con una entrata almeno di dieci scudi al dì,
Con un tesoro in scrigno non parlasi così.
Spendere allegramente per ora almen potete,
Finchè d’argento e d’oro pieno lo scrigno avete.
Fatevi onore almeno finchè potete farlo;
Non mancherà poi tempo un dì di risparmiarlo.
L’entrata è sufficiente. Basta avere in deposito
Cinque o sei mila scudi, di più non vi è proposito.
Moglie voi non avete, e non avete figli.
Conte. È ver, ma posso averne.
Riccardo.   Volete vi consigli
Da amico, con amore e con sincerità?
Godete in questo mondo la vostra libertà.
Lasciate il matrimonio con i fastidi suoi.
Quel ben che il ciel vi ha dato, godetevelo voi.
Conte. Ma con donna Felicita sono in un mezzo impegno.
Riccardo. Che impegni! che pazzie! voi mi movete a sdegno.
Ora che la fortuna vi ha tratto fuor di pena,
Volete per diletto imporvi una catena?
Via, non mancherà tempo di prendervi un malanno;
Ma vi consiglio il mondo godere almeno un anno.
Un anno sol provate i beni della vita.
Se voi vi maritate, la libertà è finita;
E colla moglie al fianco, seccante e pretendente,
Tutti i vostri danari non servono a niente.

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Provate un par di mesi a far quel che fo io.

Scommetto che alla moglie date un perpetuo addio.
Giochi, feste, teatri, villeggiature amene,
Conversazioni amabili di femmine ripiene,
Tavole con amici, talor qualche viaggetto,
In compagnia alla sera a bevere un fiaschetto,
Vegliar tutta la notte, dormir fin mezzo giorno,
In carrozza, a cavallo il dopo pranzo intorno,
Spendere allegramente, vestire a tutta moda.
Godere i propri beni, e far che altri ne goda.
Libero da ogni cura, e libero dai guai,
Questa è vita piacevole, e da non morir mai.
Conte. Certo, che s’io potessi far questa vita un anno,
Mi rifarei ben bene d’ogni sofferto affanno.
Riccardo. Chi v’impedisce il farlo?
Conte.   Per confidarvi il cuore,
Ho con donna Felicita un impegno d’onore.
Ella mi ha sovvenuto nel povero mio stato:
Son cavalier, non posso, non deggio esserle ingrato.
Riccardo. Affè, mi fate ridere. Codeste obbligazioni
Ricompensar potete con benefizi e doni.
Ella è una cittadina, un cavalier voi siete;
Bisogno di soccorsi da lei più non avete.
Ne può da voi pretendere, per qualche benefizio,
Che facciate per essa di tutto un sacrifizio.
Bella forse vi sembra? ne siete innamorato?
Pochissimo nel mondo avete praticato.
Vi farò veder donne bellissime, vezzose.
Tenere, giovanette, brillanti e spiritose.
Variar, variar mi piace or con questa, or con quella
Oggi una bella giovane, domani una più bella.
S’intende onestamente, senza intacchi di cuore.
Che l’allegria è finita, dove si caccia amore.
Andiam, farò conoscervi il fior di gioventù.
Riguardi non abbiate: argent, argent fait tout.

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Conte. Lasciatemi pensare un poco a’ casi miei.

Passar dal nulla al tutto sì presto io non vorrei.
Farmi d’essere ancora della fortuna un gioco;
Penso in questo gran mondo d’entrare a poco a poco.
Mandai donna Felicita ad invitar poc’anzi:
Andremo a divertirci, ma vo’ vederla innanzi.
Riccardo. Povero innamorato! siete perduto, amico,
E le vostre ricchezze non vi varranno un fico.
Conte. Credetemi, vi parlo con sulle labbra il cuore:
Sento la gratitudine per lei, più che l’amore.
Nelle miserie andate certo l’avrei sposata.
Or la risoluzione sarà più consigliata.
Riccardo. Ditemi: in vita vostra avete mai giocato?
Conte. Come giocar poteva nel povero mio stato?
Riccardo. Nelle conversazioni andar senza giocare.
Che razza di figura un cavalier può fare?
Comprate delle carte; io vi darò lezione.
Prima al gioco più facile, ch’è quel del faraone;
Poi v’insegnerò l’ombre, il tressetti, il picchetto.
Io sono a tutti i giochi un giocator perfetto.
Per me, qualora io gioco, di guadagnar mi picco;
Ma voi dovrete perdere, che siete un uomo ricco.
Le donne hanno piacere d’essere regalate.
Al donator talvolta senza essere obbligate;
E il mezzo più comune di regalarle poco,
È il perdere con esse qualche zecchino al gioco.
Conte. A tutto ciò v’è tempo: il gioco ho da imparare.
Quando sarò nel caso, mi saprò regolare.
Riccardo. Amico, a quel ch’io vedo, non farete niente.
Conte. Perchè?
Riccardo.   Mi par che siate un po’ troppo prudente.
Conte. È mai troppa prudenza?
Riccardo.   È buona a tempo e loco.
Ma chi è troppo prudente, suol divertirsi poco.
Conte. Anzi vo’ divertirmi, e non ne vedo l’ora.

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Ma il modo di condurmi non ho imparato ancora.

Riccardo. Stiamo due mesi insieme. Due mesi s’io vi addestro
Nell’arte del buon gusto, voi vi fate maestro.

SCENA V.

Bigolino e detti.

Bigolino. Signore, un galantuomo per lei sta qui di fuora.

Conte. Verrà donna Felicita?
Brigida.   Verrà, disse, fra un’ora.
Conte. Chi è quel che or mi domanda?
Bigolino.   Onofrio Malacura,
Che dee comunicargli qualcosa di premura.
Conte. È un galantuom?
Bigolino.   Sì certo.
Conte.   Che venga.
Bigolino.   Signor sì.
(In grazia di uno scudo si ha da parlar così).
(da sè, e parte)
Conte. Onofrio Malacura lo conoscete voi? (a Riccardo)
Riccardo. Non so chi sia. Vi lascio; ci rivedremo poi.
Vado a tentar la sorte.
Conte.   Dove?
Riccardo.   Al caffè vicino.
Vo’ veder se mi riesce di vincere un zecchino.
Tosto che siete libero, venitemi a trovare.
Già il loco lo sapete. V’insegnerò a puntare.
Ci tratterremo un poco; poscia ne andremo in piazza;
Vo’ farvi questa mane vedere una ragazza
Bella, bionda, garbata, sul fior di giovinezza.
Eh! che donna Felicita! vedrete una bellezza. (parte)

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SCENA VI.

Il Conte Orazio, poi Onofrio.

Conte. Sentirmi tutto a un tratto far tante esibizioni,

Mi fa di quando in quando venir delle apprensioni.
Temo di esser tradito. Ma poi ragiono, e dico:
Possibil che nel mondo non diasi un vero amico?
Se dubito di tutti, che farò da me solo?
Che val la mia ricchezza, se agli uomini m’involo?
Dovrei pur procurare di vivere giocondo.
Non dice mal Riccardo: godiamo un po’ di mondo.
Onofrio. Servitore umilissimo, servitore devotissimo.
Bacio la mano a lei, signor Conte illustrissimo.
Conte. Via, non più riverenze.
Onofrio.   Io faccio i miei doveri.
Vossignoria illustrissima è il fior de’ cavalieri.
Conte. Quanto tempo sarà, che voi mi conoscete?
Onofrio. Saran circa tre giorni.
Conte.   Bravo. Voi mi piacete.
Godo aver da trattare con uomini sinceri;
Tre giorni fa i’ non era il fior de’ cavalieri.
Onofrio. Per venire al proposito, per cui son qui venuto.
Io devo a vossustrissima portare un bel saluto.
Conte. Un saluto di chi?
Onofrio.   Di certa gentildonna...
Ma che bella ragazza! ma che pezzo di donna!
Conte. Siete, per quel ch’io sento, ambasciator d’amore.
Onofrio. Son, signore illustrissimo, sono un uomo d’onore.
Della mia condizione ho mille testimoni;
Io sono un onorato sensal da matrimoni.
Conte. Da me chi vi ha mandato?
Onofrio.   Io pratico per tutto,
Conosco nel paese il buono, il bello, il brutto.
Solo di vossustrima sento parlar la piazza;
Dicono, non gli manca che una bella ragazza.

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Trenta ne ho visitato, e ne ho trovate sei,

Una meglio dell’altra, buonissime per lei.
Quella che lo saluta, è certa biancolina
Con un occhio furbetto, con sì bella bocchina.
Con due guance di rose, con un nasin ben fatto.
Eh! non creda ch’io burli. Osservi il suo ritratto.
Conte. Per or col matrimonio legarmi io non destino.
Onofrio. Favorisca vedere questo bel ritrattino.
Conte. Lo vedo.
Onofrio.   E che gli pare?
Conte.   Non può negarsi, è bello.
Ma quanto gli ha donato la grazia del pennello?
Onofrio. Oh mi creda, illustrissimo, ch’è fatto al naturale,
Anzi qualcosa meglio è ancor l’originale.
Per esempio, la giovine ha l’occhio più lucente.
Il viso più tondetto, la bocca più ridente.
È un tantin più grassotta, ma è sì prudente e onesta,
Che il pittore ha dovuto dipingerla modesta.
Certo, che dal ritratto si può conoscer poco.
Ma se la vuol vedere, ritroveremo il loco.
Conte. È nobile?
Onofrio.   Cospetto! che nobiltà illibata!
Ha un albero sì grande, che copre una facciata.
Conte. Ha dote?
Onofrio.   Ha quel che basta per essere consorte.
Non si domanda dote a faccie di tal sorte.
Ha avuti fino ad ora tanti partiti e tanti,
Nessuno ebbe il coraggio di chiedere contanti:
Val centomila scudi quall’occhio sì furbetto,
Vale un milion quel labbro vezzoso e tumidetto.
Prezzo non hanno al mondo quei bei capelli d’oro.
Ha tante cose belle, che vagliono un tesoro.
Conte. Con tante belle cose non si è ancor maritata?
Onofrio. Ha una madre, signore, ch’è troppo delicata.
Trova che dire a tutti. La povera figliuola

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Dipende dalla madre, e ancor si trova sola.

Ieri di vossustrissima si ragionò con esse.
Disse la ragazzina: Io sì, se mi volesse.
E la madre, voltandosi pietosamente a lei,
Disse: Col conte Orazio io mi contenterei.
Poi disse a me parlando: Via, questo affar trattatelo.
Soggiunse la figliuola: Andate, e salutatelo.
Trovar fortuna simile sì facile non è.
È degna tal bellezza di maritarsi a un re.
No, signor illustrissimo, non vo’ che a me si creda.
Non dico che la pigli; mi basta che la veda.
Faccia questa finezza di darle un’occhiatina;
Ha da far pochi passi, la giovane è vicina.
Vo’ che veda s’io dico almen la verità.
Conte. Bene, verrò a vederla; ma per curiosità,
Non per innamorarmi; ho già qualch’altro impegno.
Onofrio. Per me son contentissimo, se del favor son degno.
Andiamola a vedere così disabbigliata.
Senza che sappia nulla. (Già sarà preparata).
Conte. Andiam., ma stiamci poco. Fra un’ora io sono atteso.
Onofrio. Sì signore. (Scommetto che al laccio ei resta preso).
(da sè)
Conte. Ehi, se donna Felicita viene, che io non ci sia,
(esce un servitore)
Ditele che perdoni, che resti in compagnia
Di Livia mia germana, che seco or or mi avrà.
(al servitore che parte)
Andiamo a soddisfare la mia curiosità.
(ad Onofrio, e parte)
Onofrio. Curiosità produrre suol de’ graziosi effetti.
Le donne, quando vogliono, san far de’ bei colpetti.
Chi sa che non rimanga il Conte innamorato!
Quando si va al mulino, si torna infarinato. (parte)

Fine dell’Atto Primo.

  1. Si allude, pare, al famoso Giuseppe Briati (1686-1772) di Murano, che fin dal 1739 aveva ottenuto dal Governo di trasportare la sua fornace dalla nativa isola a Venezia.