Il re della montagna/9. Harum

9. Harum

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8. La fuga 10. La festa del martirio di Hussein


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Cap. IX.

Harum.

La festa del martirio, o e id yatl, oppure raûz tygh, come la chiamano i popoli dell’Iran, è una delle più grandi ed insieme delle più originali che si celebrano in Persia. Cade nei primi giorni del maharraram, ossia del primo mese dell’anno, e dura dieci giorni senza interruzione, sì a Teheran come ad Ispahan, ad Hamadan, a Kasbin, a Sultanabab, a Koum, a Chir e a Kachau, che sono le principali città del reame. Quella della capitale è la più grandiosa però, intervenendo lo sciàh con tutta la sua corte.

La sua origine risale all’eccidio di Hussein e de’ suoi seguaci.

Hussein, uno dei successori di Maometto, fu il fondatore della religione persiana.

Il re di Siria Ayzid aveva giurato un odio mortale contro la famiglia di lui. Dopo d’avergli avvelenato il padre, che era califfo d’Arabia ed imân ossia governatore di Medina, cercava di uccidere pur lui per impadronirsi del regno.

Hussein, che lo sapeva e che lo temeva, si teneva in guardia ed aveva mandato suo cugino Muslin nella città di Kufa per essere certo di avere fedeli quegli abitanti; ma il re di Siria minacciò di distruggere tutta la popolazione se obbediva all’imân di Medina.

Spaventati, i kufiani nascosero il cugino di Hussein e i due figli di lui, ma il governatore della città li scoprì e fece mettere tutti e tre in prigione.

Il carceriere liberò i due ragazzi, che contavano l’uno sei anni e l’altro sette, e li nascose presso certa Shurra; ma questa, atterrita, [p. 92 modifica]sapendo che il governatore, se l’avesse saputo, l’avrebbe fatta uccidere, li trafugò in un bosco in attesa d’una carovana.

I due piccini disgraziatamente si perdettero, ma, trovati da una donna, furono condotti in casa di certo Haris, nemico acerrimo di Hussein e di Muslin.

La moglie fece loro buona accoglienza, li baciò, lavò loro i piedi, diede a loro da mangiare e da bere e li nascose in una stanza oscura; ma alla notte suo marito li udì piangere e, scopertili, li afferrò pei capelli, ferì la moglie e la figlia che cercavano di difenderli, li decapitò sulla riva d’un fiume e portò le teste al governatore per ricevere la ricompensa. Questi invece, vedendo le sanguinanti teste dei due bambini, si mise a piangere e fece decollare l’inumano Haris.

Narra la leggenda che, quando le teste dei piccini furono gettate nel fiume, i corpi risalirono a galla e si ricongiunsero ad esse.

Frattanto Hussein erasi rinchiuso in Kufa con soli sessantadue compagni ed era stato subito assediato da trentamila assiri. Secondo alcuni storici, resistette due giorni, secondo altri, venti, ed essendo rimasto solo, fu circondato, ferito e gettato da cavallo.

Si ordinò ai soldati di decapitarlo, ma nessuno osava lordarsi le mani col sangue del discendente di Maometto. Due uomini però, certi Sinau e Shamar-Zil, vinti dall’oro, si avvicinarono al ferito, ma il secondo si era nascosto il viso con un velo, per non essere riconosciuto.

— Chi sei tu? — gridò Hussein a Shamar. — Levati il velo.

Il soldato obbedì.

— Aspettate un momento — riprese Hussein con voce fioca. — Oggi è venerdì, il giorno festivo dei Musulmani, ed è l’ora della preghiera. Lasciatemi vivere un istante ancora per pregare.

Si prostrò, ed i due soldati gli piombarono addosso, staccandogli la testa dal busto con due colpi di scimitarra.

Il capo sanguinante del califfo fu portato per la città infisso su di una lancia, e narrano gli storici musulmani e persiani, che dappertutto faceva dei miracoli sorprendenti.

Finalmente la testa fu deposta in una moschea, ed i soldati assiri che erano di guardia, con loro grande sorpresa videro sorgere gran numero di persone, le quali si recavano a baciarla.

Un soldato più coraggioso degli altri volle avvicinarsi, ma ricevette uno schiaffo potente, mentre una voce gridava: [p. 93 modifica]

— I profeti, gli antenati e la famiglia del defunto sono venuti a fare alla testa del califfo una visita mattutina: perchè vieni a turbare il loro dolore?

I persiani hanno ricevuto questa strana leggenda per verità pura e, come dissi, tutti gli anni festeggiano con grande pompa il martirio di Hussein.

In quell’epoca, grandi preparativi fervono in tutte le principali città persiane e dovunque si rizzano baracche e tende di tela nera con emblemi di lutto, si preparano luminarie, si ergono palchi a spese dello sciàh, dei principi o delle persone più ricche.

Quando Nadir e Fathima giunsero sulla piazza di Meidam, quantunque fosse appena la mezzanotte ed i persiani abbiano l’abitudine di ritirarsi nelle loro case poco dopo il calar del sole, una folla immensa si pigiava nei dintorni dello splendido palazzo reale, per assistere ai preparativi della festa.

Un vero esercito di operai lavorava febbrilmente a rizzare le tende, i palchi, i pulpiti pei mollah (specie di preti), i pennoni imbandierati, onde tutto fosse pronto per la grande processione del domani. Già i numerosi negozi che s’aprono sulla piazza erano stati riaperti, e i kahvè-kahnè, dove si servono delle deliziose bevande e soprattutto dell’eccellente moka e dove si radunano i ricchi e gli sfaccendati per udire le storielle o per giuocare agli scacchi o per fumare l’oppio, rigurgitavano di persone.

— Vieni, Fathima — disse Nadir fendendo arditamente la folla, mentre la giovinetta abbassava il fitto velo per nascondere il grazioso volto. — Fra tante persone, nessuno ci riconoscerà.

— Dove mi conduci, Nadir? — gli chiese ella con voce tremante. — Ho paura.

— Nadir è leale.

— Non ho paura di te.

— Nessuno mi conosce e il tuo volto è coperto.

— Ma se qualche soldato ti scorgesse?

— Nessuno ricorda il mio viso. La lotta è stata così rapida ed eravamo tanti, che le guardie del re non possono avermi veduto.

Ad un tratto si sentì urtare violentemente. Si volse colla destra posata sull’impugnatura del kandjar. Un uomo di alta statura, assai bruno, con un immenso turbante sul capo, che gli copriva mezzo il volto, ed una lunga zimarra che gli scendeva fino ai piedi, stretta [p. 94 modifica]alla cintura da un vecchio scialle di Kerman, nelle cui pieghe era infisso un kard (specie di coltello), gli stava dinanzi fissandolo con profonda attenzione e tenendosi un dito sulle labbra come per invitarlo a tacere.

— Chi sei? — gli chiese invece Nadir, mentre Fathima si serrava al suo fianco.

— Seguimi, Re della Montagna — rispose quell’uomo.

Poi, senza attendere altra domanda, respinse bruscamente le persone che gli chiudevano il passo, urtando colle robuste spalle quelle che si pigiavano addosso a lui, e si fece largo, cercando di raggiungere un’estremità della vasta piazza, che era quasi deserta.

Nadir, quantunque assai inquieto, gli si era messo dietro traendo seco la giovinetta e si studiava di indovinare, dalle mosse, chi poteva essere quello sconosciuto. Quel titolo però di Re della Montagna, che soli i montanari del Demavend conoscevano, datogli da quell’uomo, lo rassicurava.

— Che sia un amico? — gli chiese Fathima.

— Lo spero — rispose Nadir. — Qui nessuno conosce nè il mio nome nè il mio titolo.

— Che sia un montanaro?

— Lo credo, Fathima.

— O un traditore? Ho paura, Nadir.

— Se è un traditore si pentirà. Si dirige laggiù, verso quell’angolo deserto della piazza e mi sarà facile spacciarlo, se vorrà impadronirsi di me.

Intanto lo sconosciuto continuava a farsi largo raddoppiando le spinte ed i colpi di spalla, come se avesse fretta di trovarsi fuori da quella folla, e raggiunse l’angolo oscuro d’un porticato, arrestandosi dietro ad una colonna. Nadir e Fathima in pochi istanti furono presso di lui.

— Chi sei? — chiese il giovane montanaro.

— Il Re della Montagna non mi conosce più, adunque? — chiese lo sconosciuto, levandosi il turbante e mostrando il volto.

— Harum! — esclamò Nadir, al colmo dello stupore. — Tu qui!

— Sì, Re della Montagna, sono io.

— Ma sei pazzo!...

— Il turbante mi rende irriconoscibile, Nadir.

[p. 89 modifica]— Il Re della Montagna non mi conosce più, adunque? — Chiese lo sconosciuto, levandosi il turbante....

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— Ma perchè non sei fuggito sulla montagna?

— Tu non eri fra noi. Potevo io abbandonare qui il mio salvatore, che aveva esposta la sua vita per me?

— Grazie, Harum. Ma gli altri?

— Si sono rifugiati sulla montagna. Le truppe dello sciàh li inseguivano.

— Ed i curdi?

— Si sono dispersi.

— Che abbiano assalite le mie torri? — chiese Nadir, con angoscia.

— No, poichè le truppe sono rientrate ieri sera. Tu sai che il Demavend è inaccessibile pei soldati quando i banditi difendono i sentieri.

— Dunque Mirza sarà vivo.

— Certo, Nadir.

— Che cosa avrà detto, non vedendomi giungere lassù assieme ai compagni! Povero vecchio!...

— Egli sa, a quest’ora, che noi ti cerchiamo a Teheran e che non siamo uomini da ritornare senza di te.

— Non sei solo adunque?

— No: in sei siamo riusciti a deludere la vigilanza delle truppe ed a rientrare in città.

— Dove sono gli altri?

— Ti cercano. Ma abbiamo un punto di riunione.

— Dove?

— Qui vicino, in una casa abitata da un mio parente.

— Qui non sono sicuro, Harum, e questa giovanetta ha bisogno di riposo.

— Porterai anche lei sulla montagna?

— Sì, Harum: essa è mia — disse Nadir con slancio appassionato.

— Chiunque sia, sarà nostra sorella.

— Essa corre un pericolo pari al mio.

— I cacciatori del Demavend la difenderanno. Seguimi, Nadir.

— Sei certo che non vi sia alcuna spia presso la casa?

— È guardata da due dei nostri.

— Andiamo, Harum. [p. 96 modifica]

Il montanaro gettò all’ingiro uno sguardo acuto per accertarsi che nelle vicinanze non vi era nessuno, poi s’inoltrò con passo lesto entro una viuzza oscura e deserta, fiancheggiata da case e da muraglie di giardini. Nadir e Fathima lo seguivano a breve distanza.

Percorsi circa trecento metri, sboccò in una larga strada che era pure deserta e che metteva capo all’estremità opposta della piazza di Meidam. Si fermò alcuni istanti scrutando le tenebre, poi emise un fischio. Un suono simile poco dopo vi rispose.

— Nulla abbiamo da temere — disse, volgendosi verso Nadir. — I compagni vegliano.

S’avanzò lestamente e s’arrestò dinanzi ad una porta bassa, come lo sono in generale tutte quelle delle case abitate da borghesi, precauzione necessaria per evitare che i signori entrino di sorpresa senza discendere da cavallo, per commettere delle bricconate, come una volta accadeva di frequente.

Harum la spinse ed introdusse Nadir e Fathima in un oscuro andito, facendoli poi passare in una ampia stanza situata a pian terreno, illuminata da una grande lampada di metallo. Era arredata come tutte le altre stanze delle case persiane, cioè con divani che giravano attorno alle pareti e con tappeti di grosso feltro stesi sul pavimento: però negli angoli si vedevano parecchie armi, fucili a pietra ed a rotella, pistole e kandjar.

Un vecchio, dalla barba bianca, col capo coperto da un abba, enorme turbante di tessuto a strisce brune e bianche, usato dai curdi, ed il corpo avvolto in una lunga zimarra di grosso panno oscuro, si alzò da terra e mosse incontro ad Harum, pronunciando la frase solita che i persiani adoperano ogniqualvolta un visitatore entra nella loro casa:

— Per grazia di Dio, il tuo naso è grosso?1

— Gloria a Dio, lo è per effetto della vostra bontà — rispose Harum.

Dopo qualche complimento indispensabile, il montanaro continuò:

— Sono ancora assenti i miei compagni?

— Ancora — rispose il vecchio.

— Conduco con me colui che cercava, il Re della Montagna. [p. 99 modifica] — Sia il benvenuto nella mia umile dimora.

— Grazie — rispose Nadir.

— Nessuno s’è accorto della nostra presenza? — riprese Harum.

— No — rispose il vecchio. — Gli amici vigilano sempre.

— Potremo lasciare Teheran questa notte?

— Le porte sono chiuse e non si apriranno che dopo la processione di Hussein.

Il montanaro fece un gesto di collera.

— Che cosa temono questi abitanti? — chiese.

— I curdi — disse il vecchio. — Anche l’anno scorso hanno sparso un panico immenso tra la folla, per saccheggiare un quartiere e depredare le donne dei loro ornamenti.

— Non c’è mezzo di uscire adunque? — chiese Nadir.

— No, perchè le porte sono chiuse e ben guardate.

— Aspettiamo — disse Harum. — Tu intanto esercita i tuoi doveri di ospitalità e conduci questa donna in una stanza sicura. Io e Nadir ci accontentiamo di questi divani.

Il vecchio accese una lampada ed invitò Fathima a seguirlo.

— Va’, mia diletta — le disse Nadir. — Qui sei sicura, poichè io ed Harum vegliamo su di te.

La giovanetta gli diede un lungo sguardo e si allontanò dietro al padrone di casa.

— Vuoi dormire, Re della Montagna? — chiese Harum. — È meglio che approfittiamo di queste poche ore.

— Ma i tuoi compagni?

— Ritorneranno prima dell’alba.

— Quando potremo uscire da Teheran? Ardo dal desiderio di ritornare sulla montagna, per rivedere il mio vecchio Mirza.

— A mezzodì la cerimonia sarà finita, e al tramonto noi saremo sul Demavend.

— Ma non verremo riconosciuti dalle guardie delle porte?

— Uscirà molta gente.

— Ma Fathima può essere scoperta.

— E’ la fanciulla che conduci con te, che così si chiama?

— Sì, Harum, e forse si sorvegliano le uscite della città perchè non fugga.

— E’ forse una ragazza d’alta casta?

— Parente d’un principe e doveva diventare la quarta moglie dello sciàh. [p. 100 modifica]

Harum lo guardò con ispavento.

— Ma che cos’hai fatto tu, Re della Montagna! — esclamò. — Vuoi farti uccidere?

— Essa mi ama e diverrà mia moglie.

— Ma credi tu che lo sciàh te la lasci?

— La porto sulla montagna.

— Ma lo sciàh è potente, Nadir, e ti perseguiterà dovunque.

— Non lo temo! — esclamò Nadir con fierezza.

— Con un solo cenno ti lancerà contro degli eserciti.

— Mi troverà pronto alla lotta.

— Cadrai, Nadir.

— Non importa.

— L’ami immensamente adunque?

— Tanto che senza di lei la vita per me sarebbe ormai insopportabile.

— Ma tutte le uscite della città saranno guardate e non potremo uscire.

— Bisogna che la porti sulla montagna, Harum — disse Nadir con voce risoluta. — Qui non vivrei a lungo, perchè le guardie del re mi scoprirebbero.

— Dimmi: sa ormai quel principe che tu l’hai rapita?

— Sì, poichè i suoi servi mi hanno inseguito.

— Lo sciàh sarà stato informato della scomparsa della giovanetta adunque?

— Lo temo.

— Tutte le donne che usciranno da Teheran verranno esaminate.

— Senza dubbio.

— Ebbene, noi usciremo egualmente — disse Harum dopo alcuni istanti di riflessione.

— In qual modo, Harum? — chiese il giovane montanaro, con ansietà.

— La vestiremo da curdo.

— Da Curdo?...

— Sì, Nadir, e la si crederà un giovanetto.

— E ci procurerai due rapidi cavalli. Hai denari?

— I miei carnefici mi hanno preso fino l’ultimo spicciolo e non possiedo un tomano. [p. 101 modifica]

Nadir estrasse il suo ricco kandjar, la cui impugnatura era adorna di gioie di gran prezzo e staccò un diamante grosso come una nocciuola.

— Lo farai vendere — diss’egli. — Con questo puoi acquistare venti cavalli.

— A domani, Nadir. Coricati, chè devi essere spossato, e dormi tranquillo, chè Harum ed i suoi amici vegliano su di te e la tua fidanzata.

Il giovinotto non se lo fece ripetere, e sdraiatosi sul divano, chiuse gli occhi, sognando la sua Fathima, il suo turrito castello, il vecchio Mirza ed il gigantesco Demavend.




  1. Storico.