Il re della montagna/13. Il tradimento

13. Il tradimento

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12. Una storia terribile 14. L'assalto al castello


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Cap. XIII.

Il tradimento.


I matrimoni persiani sono così bizzarri, così originali, così diversi da tutti gli altri, che meritano un cenno speciale.

Quantunque quel popolo sia maomettano come il turco, non avendo la loro religione che lievi differenze, pure l’adge — così chiamasi la cerimonia del matrimonio — è molto diversa da quella che fanno i Musulmani d’Europa e dell’Asia Minore.

L’amore di rado vi ha parte: i padri, per lo più due amici, s’intendono fra di loro, trattano la dote che devono assegnare ai loro figli, e quando si sono accordati, destinano il giorno per l’adge. Accade così sovente, come fra i Chinesi, che gli sposi si uniscono senza essersi prima mai veduti, non tollerando i persiani che i giovanotti vedano o parlino con le loro figlie.

Fissato il giorno, il padre dell’uno e quello dell’altra avvertono i parenti e gli amici che devono prender parte alle feste; le quali durano ordinariamente mezza settimana e talvolta una intera, se si tratta di famiglie assai ricche.

Il primo giorno è destinato al ricevimento degli amici e dei parenti. Il padre dello sposo raduna nella sua casa parecchi suonatori e ballerini, poi invita tutte le persone che devono intervenire a l’adge, le quali fanno scambio di complimenti, mentre vengono serviti gelati e dolci. Si chiacchiera, si suona, i ballerini danzano, si mangia e si beve, e quella prima festa si protrae fino ad ora tarda. [p. 140 modifica]

Il secondo giorno, al tramonto, dei suonatori vanno in gran pompa, seguìti dai servi della sposa recanti fiaccole, a casa dello sposo e offrono a lui l’hennè, che è una specie di polvere giallastra, assai usata dalle persiane e che serve a tingersi le mani e i piedi di un giallo oscuro.

Il terzo lo sposo si reca al bagno, accompagnato da due parenti od amici, i quali devono aiutarlo e perciò prendono i nomi, uno di mano destra e l’altro di mano sinistra; quindi indossa un vestito nuovo mandatogli dalla sposa e viene ricondotto a casa da una legione di suonatori. Eguale bagno fa pure la fidanzata e viene accompagnata a casa dallo stesso seguito.

Si attende la sera, perchè la cerimonia riesca più imponente, ed appena le tenebre sono discese, il fidanzato invia alla fanciulla un cavallo bianco, scelto fra i più belli della sua scuderia e che deve condurla alla casa di lui, oppure uno splendido tartaravan, specie di palanchino tirato da due mule bianche. I parenti e gli amici suoi conducono l’uno o l’altro, portando con loro gran numero di fuochi artificiali e di torce accese.

La fidanzata vestita dell’abito più sfarzoso, ma coperta interamente d’un velo bianco e tenendo in mano uno specchio, sale sul cavallo o nel palanchino e s’avvia verso la casa del futuro sposo, preceduta da una turba di suonatori e seguita e fiancheggiata da tutti gl’invitati, i quali lanciano fuochi artificiali.

A trenta passi dalla casa tutti s’arrestano. Lo sposo, che li attende sulla porta, s’avanza tenendo in mano un’arancia, la scaglia verso la fanciulla, poi fugge, ma tutti i parenti e gli amici lo inseguono, lo raggiungono prima che varchi la porta, lo atterrano malgrado la resistenza che deve opporre, gli strappano il cappello e portano questo alla sposa, che solo con quell’oggetto può entrare.

I persiani, che sono superstiziosi forse più degli altri popoli, notano accuratamente il lancio dell’arancia e osservano se lo sposo oppone molta resistenza agli amici che gli strappano il cappello, e se il frutto è stato mandato assai lontano e se la lotta è stata accanita, ne deducono che quel matrimonio sarà assai felice!...

La sposa, tenendo in mano il cappello, entra nella casa, seguita da tutti gl’invitati, scende da cavallo e sale al secondo piano, poichè è là che lo sposo deve attenderla, per farle sapere che il padrone della casa tutta è lui solo. [p. 141 modifica]

Entrambi vengono allora condotti nella stanza nuziale, in mezzo alla quale è stato preparato una specie di divano formato d’un grande cuscino di seta e d’un tappeto, col capezzale vôlto verso la Mecca, la città ove riposa il Profeta Maometto, il fondatore della religione musulmana.

Su quel cuscino si colloca lo specchio recato dalla sposa, ai lati si depongono due grandi candelabri adorni di fiori e di nastri, e il mollah (prete), o in mancanza di questo il parente più stretto, unisce dinanzi allo specchio le destre degli sposi; ma l’uomo deve premere col suo piede destro quello della sposa, in segno di padronanza.

Viene allora pronunciata la frase: «Allah (Dio) sia con voi»; e i due fidanzati sono sposi.

Allora cominciano i suoni, le danze, i canti, e le feste si succedono alle feste per parecchi giorni e talvolta per delle settimane intere.

Quantunque nel vecchio castello del Re della Montagna tutte queste cerimonie fossero impossibili, non avendo i fidanzati parenti, nè la giovane persiana una casa propria, Mirza si era dato le mani d’attorno, perchè la festa riuscisse imponente come meritavano il grado e la posizione elevata degli sposi.

Fino dal mattino aveva radunato nel castello una trentina di cacciatori e di banditi, perchè lo aiutassero nei preparativi. I ricchi tappeti sfolgoranti d’oro e di gemme, gli splendidi arazzi che un giorno adornavano le pareti del palazzo reale di Teheran, erano stati levati dai polverosi solai, dove dormivano da tanti anni, ed erano stati stesi negli ampi saloni del castello, mentre le bandiere e le orifiamme, in mezzo alle quali campeggiava il sole splendente, l’emblema degli sciàh, erano state spiegate sui merli delle grosse torri, al vento della montagna.

La stanza nuziale, addobbata splendidamente, con tappeti ed arazzi, divani e cuscini di seta e di broccato, con lampade grandiose di metallo dorato e con specchi giganteschi, non attendeva che i due fidanzati. Mirza, che lavorava per quattro malgrado la sua avanzata età, l’aveva abbellita con dei grandi vasi di vera porcellana di China, doni di ambasciatori del Celeste Impero al suo re, sostenenti dei grandi mazzi di rose montanine, che spandevano all’intorno un acuto profumo.

Il divano destinato alla cerimonia era già pronto, coll’origliere volto verso Zeble, ossia la Mecca, e ai due lati erano stati già [p. 142 modifica]collocati due immensi candelabri d’argento, sostenenti una quadruplice fila di candele adorne di nastri, scintillanti di perle e di gemme.

Nadir e Fathima, ciascuno nella sua stanza, attendevano ansiosamente l’arrivo del mollah che doveva benedire la loro unione, ed il tramonto del sole, non essendo permesso il matrimonio che dopo la scomparsa dell’astro diurno. Il giovinotto aveva indossate le vesti più sfarzose, i larghi calzoni di seta allacciati sopra la cintura da un largo nastro azzurro, la camicia pure di seta, ma bianca; uno splendido coulidje, specie di giubba corta, di broccato rosso ricamato in oro e adorno di diamanti, e alla cintola uno scialle di Cascemir di gran valore, sostenente un kandjar coll’impugnatura di diaspro orientale tempestato di diamanti, del valore di ventimila piastre.

In preda ad una irrequietezza e ad una segreta angoscia che non sapeva spiegarsi, passeggiava nervosamente per la sua stanza. Sinistre inquietudini lo assalivano, e prestava attento orecchio ai rumori, che il vento portava sulla montagna.

Ogni qual tratto si affacciava alla finestra del torrione e spingeva il suo sguardo, acuto come quello d’un’aquila, giù per la montagna, scrutando ansiosamente i boschi, le valli, gli abissi. Che cosa temeva? Non lo sapeva nemmeno lui, ma non si sentiva tranquillo.

Mirza, che lo aveva raggiunto dopo d’aver dato gli ultimi ordini acciocchè tutto fosse pronto per la cerimonia, lo guardava, cercando di spiegarsi il motivo di quella irrequietezza.

— Sospiri quel momento? — gli chiese alfine.

— Di sposare la donna che amo? — chiese Nadir. — Oh, sì! Mirza!...

— Ma sei inquieto, Nadir. Eppure tutto è pronto! Fathima arde dal desiderio di essere tua moglie, e fra breve Harum sarà qui col mollah.

— Vorrei che fosse già qui, mio buon Mirza.

— Il sole non è ancora tramontato; e la via è lunga. Tu sai che la salita della montagna è aspra e difficile.

— Ma ti ripeto che vorrei vederlo già qui.

— Che cosa temi? Harum è uomo di parola e ti condurrà il mollah.

— Ho delle vaghe paure, Mirza — disse il giovanotto, fermandosi dinanzi a lui. — Io non so per quale motivo, ma il mio cuore mi sussurra che una tremenda sventura mi sta vicino. [p. 143 modifica]

— Pazzie d’innamorati, Nadir.

— No, Mirza!

Vi era un tale accento d’angoscia in quelle parole, che il vecchio provò un brivido.

— Che cosa temi? — gli chiese di nuovo.

— Non lo so.

— La tua Fathima ti ama e ti attende.

— Lo so che ella mi ama assai, Mirza.

— I montanari sono tutti amici tuoi e pronti a morire pel loro giovane capo.

— Lo so che mi sono fedeli.

— La montagna è tranquilla e Teheran è lontana.

— È vero; ma io ho paura, Mirza!...

In quell’istante, nelle valli della grande montagna echeggiò una fragorosa detonazione. Nadir emise un grido.

— Un colpo di fucile! — esclamò.

— Ti sgomenti per ciò? — chiese il vecchio, che tuttavia era diventato leggermente pallido.

— Una fucilata a quest’ora?

— Sarà stato qualche cacciatore che ha fatto fuoco su di un onagro o su di un’aquila.

Nadir, sempre più inquieto, s’affacciò alla finestra e guardò il versante della montagna. Alcuni cacciatori erano usciti dal castello e scrutavano attentamente le foreste, che cominciavano a diventare oscure, essendosi il sole nascosto dietro le alte vette nevose.

— Vedete nessuno? — chiese Nadir.

— Odo delle voci in fondo alla valle — rispose un montanaro.

— E dei cavalli a nitrire — rispose un altro.

— Che sia Harum? — chiese Mirza.

— Mi sembra di udire la sua voce — disse un bandito. — Sarei però curioso di sapere contro chi ha fatto fuoco.

Giù nella valle, che le foreste allora nascondevano, si udivano delle voci umane ed i ferri di parecchi cavalli che battevano le rocce del sentiero. D’improvviso un’altra detonazione risuonò, destando gli echi della montagna, e si udì una voce a gridare:

— Si direbbe che lo spirito del re che brucia nel vulcano, ci perseguita.

— Harum! — gridò Nadir. [p. 144 modifica]

Un uomo a cavallo apparve alla svolta del sentiero e alzando la testa verso il castello rispose:

— Giungiamo, Re della Montagna.

— Il mollah è con te? — gridò Mirza.

— Lo conduciamo noi — rispose il montanaro.

— Affrettati, chè il sole è tramontato.

Le tenebre calavano rapidamente nelle vallate della montagna. I picchi nevosi delle alte regioni erano ancora indorati dagli ultimi raggi dell’astro morente, ma assumevano già una tinta grigiastra.

Le foreste erano ormai diventate oscure e non si scorgevano più i loro tronchi. Gli onagri s’affrettavano a raggiungere i loro covi notturni, e le aquile e i falchi calavano a stormi, celandosi fra le alte rupi o fra i merli delle vecchie torri. Un vento freddo, gelato, scendeva dalle vette, facendo stormire le fronde degli alberi, mentre in cielo cominciavano ad apparire i primi astri.

Harum, il mollah e la scorta affrettarono la marcia, superarono quasi di galoppo gli ultimi pendii della valle e s’arrestarono dinanzi al castello, dove li attendevano i montanari invitati alla festa.

Mirza, dopo aver dato ordine che si accendessero tutte le lampade delle sale, andò a ricevere alla porta maggiore del castello, che per la prima volta dopo tanti anni si apriva, il mollah, dandogli il benvenuto, poi lo aiutò a scendere dal cavallo e lo introdusse nella grandiosa sala terrena, dove gli fece offrire dolci e gelati, secondo l’uso persiano.

Mentre il sacerdote musulmano, un bel vecchio dalla lunga barba bianca, coperto da una lunga zimarra chè gli scendeva fino alle scarpe e d’un grande turbante che gli scendeva fino agli occhi, gustava i dolci, Harum saliva nella stanza di Nadir.

— Tutto è pronto, Re della Montagna — gli disse entrando. — Il mollah attende gli sposi: affrettiamoci.

— Una domanda prima, mio fedele Harum — disse il giovinotto. — Contro chi hai sparato quei due colpi di fucile?

— Non lo so, Re della Montagna — rispose il montanaro.

— Hai veduto qualcuno aggirarsi presso le valli? Dei nemici forse? Harum, io non so il perchè, ma io, che mai conobbi la paura, questa sera tremo.

— Che cosa temi?

[p. 137 modifica]Un uomo a cavallo apparve alla svolta del sentiero e alzando la testa verso il castello rispose:
 — Giungiamo, Re della Montagna. (Pag. 144.)

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— Non lo so. Hai veduto nessuno?

— Ma!... — disse Harum esitando.

— Parla!

— Allora ti dirò che, mentre noi salivamo la valle, mi è sembrato di scorgere un’ombra sull’orlo di un bosco. Faceva oscuro, poichè il sole stava per tramontare; ma quell’ombra mi parve umana.

— Che fosse un montanaro?

— Sul Demavend tutti ci conosciamo: banditi o cacciatori, siamo tutti amici.

— Che cosa vuoi concludere? — chiese Nadir, con ansietà.

— Che, se fosse stato un montanaro, mi sarebbe venuto incontro.

— Ed invece?...

— Scomparve nel bosco dopo il mio colpo di fucile. Se non avessi avuto con me il mollah e non avessi saputo che tu mi attendevi con impazienza, mi sarei cacciato sotto quel bosco.

— L’hai più riveduta quell’ombra?

— Sì, ma più oltre, presso l’uscita della valle.

— Era l’istessa, o un’altra?

— Le tenebre erano diventate più dense entro la valle, e non potei vederla bene.

— Che fosse una spia?

— Non so che cosa dirti.

— Che i soldati dello sciàh abbiano saputo che noi siamo saliti quassù?

— Chi sa che qua sorge un castello? Gli uomini della pianura hanno paura dei venti gelati del Demavend, e mai sono saliti fino a queste balze.

— È vero — disse Nadir. — Forse i miei timori sono esagerati ed ho torto a creare dei pericoli che sono forse immaginari. Orsù, la cerimonia si compia!

In quell’istante la porta s’aprì, e comparve Mirza.

— Mio Nadir — diss’egli. — La sposa t’aspetta.

— E’ pronto tutto? — chiese il giovanotto, trasalendo.

— Lo specchio è stato deposto sul letto della camera nuziale.

— Oh mia Fathima — mormorò egli. — Mia!... Mia!... Possa tu esserlo per sempre, e possa questa misteriosa angoscia che mi lacera il cuore ingannarsi. Vieni, Harum; vieni, Mirza!...

Uscì dalla stanza ed entrò in quella nuziale, che era la più vasta e la più bella dell’antico castello. Una infinità di lampade dorate, [p. 148 modifica]sospese alla vôlta, la illuminavano come in pieno giorno, facendo scintillare gli ori dei ricchi tappeti di Kerman e degli arazzi che coprivano il pavimento, le pareti e le colonne di pietra.

Sessanta montanari, schierati in giro, coi kandjar e le pistole alla cintura, aspettavano gli sposi, mentre il mollah si era collocato dinanzi al letto nuziale, sul quale era stato collocato uno specchio magnifico, colla cornice incrostata di zaffiri e di rubini d’un prezzo favoloso.

Quando Nadir fece la sua comparsa, bello come mai era stato prima veduto, collo sguardo fiero, il volto leggermente pallido che faceva risaltare vivamente i suoi baffetti neri ed i lineamenti energici, un gran grido rimbombò nella sala, destando gli echi del vecchio castello:

— Viva il Re della Montagna!... Viva il figlio dello sciàh Luft-Alì!

— S’avanzi la sposa! — tuonò Mirza, raggiante di gioia.

La grande porta tosto s’aprì e apparve Fathima, bella come un raggio di sole, bella come un bottoncin di rosa. Appena apparve, un lampo d’uno splendore abbagliante tosto l’avvolse: parve che si tuffasse in una nuvola di luce.

Mai donna persiana aveva indossato un costume così splendido; mai donna dell’Asia intera avrebbe potuto sognare tante perle e tanti diamanti. I tesori dei famosi nababbi indiani potevano impallidire dinanzi a quelli dell’assassinato sciàh e della sua sposa.

Il vecchio Mirza, il fedele guardiano delle favolose ricchezze dell’infelice sciàh, aveva messo a disposizione della giovinetta i grandi forzieri che da anni riposavano nei misteriosi sotterranei del vecchio castello, ed aveva gettato su di lei a piene mani i gioielli più preziosi del tesoro reale.

I larghi calzoncini, la lunga casacca di broccato tessuto in oro, la larga cintura, il lungo velo bianco tessuto in argento, le piccole scarpe di pelle rosea a punta rialzata, che un tempo dovevano aver appartenuto alla sposa dello sciàh, erano carichi delle più belle perle di Barhein, dei più grossi diamanti, dei rubini più scintillanti, degli zaffiri più splendidi.

Un diadema d’oro sormontato da un grande pennacchio tempestato di pietre preziose, e molteplici file di perle grosse come nocciuole, e braccialetti più superbi del kok-i-nour o montagna di luce e del derva-i-nour od oceano di luce, che usano portare i re persiani, e [p. 149 modifica]pendenti formati da due smeraldi grossi come noci, completavano l’abbigliamento della giovane sposa.

Nadir, nel vederla, emise un grido di stupore e fece atto di correrle incontro colle braccia tese, esclamando:

— Fathima! Luce de’ miei occhi!...

Mirza però lo trattenne, mentre il mollah, ritto dinanzi al letto nuziale, impartiva la benedizione di Allah a tutti i presenti.

— Che la sposa s’avanzi! — gridò Mirza.

Fathima si fece innanzi, sorridendo a Nadir, che la divorava cogli sguardi, come se volesse attirarla colla potenza de’ suoi occhi, e rossa per la commozione e per la gioia che la invadevano.

— Oh mio amato Nadir — mormorò. — È troppa la felicità!...

Il mollah collocò gli sposi dinanzi allo specchio, pose le mani dell’uno in quelle dell’altra, il piede destro di Nadir su quello della giovanetta, poi, alzando le mani verso il cielo e volgendo il capo verso la Mecca, la città santa di Maometto, gridò con voce da ispirato:

— Allah sia...

Non finì. Una scarica violenta echeggiò al di fuori e una grandine di palle entrò per le finestre, mentre sulle balze della montagna risuonavano feroci clamori.

Un istante dopo un montanaro coperto di sangue, tenendosi ambe le mani strette al petto si slanciava in mezzo alla sala e stramazzava ai piedi degli sposi inorriditi, rantolando:

— Tradimento!... Le guardie del re vi assalgono.