Il primo processo delle streghe in Val di Non/Parte II
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PARTE II
IL DIBATTIMENTO
La caratteristica tipica di questo processo è la sciatteria nella forma, sciatteria che corrisponde perfettamente alla trascuratezza dei verbali. I costituti si alternano, anche in questa seconda parte dell’azione inquisitoriale, alle deposizioni degli ultimi testimoni, ritardatari condotti a viva forza o collo stimolo di forti multe davanti al Commissario; e costui è, caso strano e illegale, l’unico factotum della inquisizione: non c’è traccia del decano foraneo, non dei «delli probiviri adsistentes»; il nome dell’avvocato Torresani (Lorenzo) appare solo di sfuggita in quistioni fiscali come quello di un deputato procuratore.
L’interrogatorio è informato a un criterio progressivo: dalle domande generali si passa all’esame particolare dei singoli punti d’accusa. Le vittime, arrestate con qualche piccolo intervallo fra l’una e l’altra cattura, si presentano, l’una dopo l’altra, davanti al tribunale, che agisce nella «cocuina magna» del Castel Coredo, o nella stuva del Commissario nel palazzo detto della Reson: dunque, probabilmente, in quel bello stanzone, affrescato con motivi forensi e curiali, che oggi serve a battere il grano quietissimamente, dove oggi ruzzano i bimbi sotto gli occhi corrucciati dei giudici quattrocenteschi dipinti sui muri, allora apparivano fra quelle due figure di sgherri di S. Romedio: Giovanni Bono e Pasquino, pubblici ufficiali:
1. Maria del quondam Tomè Pelizan o Pollizan di Romeno detta la Pillona, catturata da Cristofoletto officiale pubblico di Salter il 3 novembre 1613 nella casa di Antonio Perizalli di Romeno. Quest’atto è esteso dal notaio Antonio Inama di Coredo (perché l’Arnoldo era probabilmente assorto nel preparare un veemente atto d’accusa contro Maria moglie di Vito Paolo per malia fatta ai danni d’un proprio figlio per mezzo d’un banchetto. A quanto sta scritto nel verbale latino, il figlio del notaio venne a stare assai male di cervello e di salute).
La vecchia Pillona, vedova già da 25 anni è piena di disinvoltura. Dopo quattro giorni di interrogatorio si dispone per l’arresto di
2. Caterina de Fedrizi vedova del quondam Giovanni di Portolo detta la Castellana (7 novembre) la quale compare zoppicando (zoppa dal fianco destro — zotta dal galon drit) il venerdì 8 novembre, mentre 7 giorni di poi si cattura
3. Maria di Giacomo Rigotti di Tos detta la Gril, la quale compare appena il 19 novembre avanti il commissario.
4. I sempre zelanti officiali portano i1 giorno 20 dello stesso mese Agata, vedova del quondam Giovanni Calovet di Bresimo detta la Gadenta. il giorno di poi
5. Giovanna moglie di Simon Giordani detto Salà di Nano: è detta la Salada.
6. Il 26 novembre compare Barbara, moglie di Federico Gasperi, detta la Buzata di Coredo; e finalmente il 29 novembre
7. Anna vedova di Tos, detta la Tuenetta.
Queste vittime sono affidate (sotto pena di mille fiorini da versare al fisco nel caso di fuga) ai detti ufficiali, i quali devono sorvegliarle e badare — pena trei squassi de corda — che non comunichino con l’esterno. Il carcere e la vecchia prigione del Castello, da prima; il giorno 10 novembre il Commissario riceve relazione che le dette prigioni mancano di tetto — «carent tecto»; poverette in quella stagione fredda e teinpestosa saranno state bene all’aria libera, giorno e notte! Si dispone perchè siano rinchiuse nel Revoltello (revoltellum) della vedova del quondam signor Antonio da Coredo; interinalmente qualcuna si alloga anche nel palazzo commissarile.
L’interrogatorio non ha un ordine eguale per tutto: molte volte è anzi così leggero e negligente che pare di sentire dibattere una causuccia bagattellare che non valga la pena di essere trattata in limine fori. Il Barbo si dà il gusto di far venir di frequente le povere donne magari per informazioni già chieste in antecedenza; il giorno 3 novembre fa portar giù, a bella posta, sotto una pioggia torrenziale, la Pillona dal Castello, perchè una buona bagnata avrebbe potuto rammollire la sua ostinazione (ingens pluvia videatur durationi abnoxia).
All’inizio dell’interrogatorio si domanda sempre se l’imputata sappia il perchè del suo arresto. Seguono poi quistioni diverse: se sappia di streghe vive o morte del suo paese, di fatture, ecc.: si chiedono spiegazioni sulle sue assenze dal paese, specie se prolungate: si chiede se l’accusata abbia fatto donazioni del suo (fatto importante per il fisco) negli ultimi tempi.
Poi si viene a domande capziose sulle orazioni più strane e meno comuni recitate dall’accusata: a queste interrogazioni noi andiamo debitori di alcuni documenti frammentari di preghiere e di giaculatorie allora in uso e che riprodurremo integralmente; sono povere cose degne delle povere menti che le conservavano vive nella tradizione orale.
Alcune domande versano sulle cognizioni delle erbe che le vecchie avessero avute; la più sapiente di esse conosce: il meio, le piuse, la salvia, la rutta, le verze, i capussi, i pederzemoi, i polezi, l’hisopo, il terfoi, la malva.
Queste erbe appaiono preziose nella farmacopea popolare; si accenna all’uso di ornare con molte di esse (secche o verdi?) i ceri nella festa della Ceriola e delle Cendre. Alcune si ritengono buone contro il mal verde che si va togando su per le strade.
Si passa poi a far visitare ciascuna accusata sul corpo per vedere: an adsit aliqua diabolica signatura an stigma. L’officiale Zambono esamina e poi riferisce invariabilmente nulla aver ritrovato sul corpo stesso: porta invece trionfalmente qualche scapolare, qualche croce scoperta super cutem o infra vestibus dell’imputata. La Pillona portava al collo una croce fatta di quattro paternostri: la croce conteneva versetti del Vangelo di S. Giovanni stampati in tedesco.
Lo scapolare di panno che la stessa vecchia aveva in dosso, aperto dalle mani dei pubblici funzionari con grande circospezione, conteneva parecchi grani di miglio santo, aghi, globetti, gomitoli e fili di ottone.
La imputata spiega di aver ricevuto la croce da un padre zoccolante, lo scapolare da certe monache di Trento al suo ritorno da un pellegrinaggio alla Madonna di Civezzano. Le domande, parecchie e circostanziate, sul meio santo mettono in luce che era diffusissima credenza popolare che esso servisse contro il mal verde.
L’ultima prova e quella delle lagrime. Il commissario pone solennemente la mano destra sul capo all’imputata e la scongiura per il suo bene e per l'amore della verità a versare delle lagrime.
Le povere vecchie, stanche dai lunghi pianti delle notti passate, paralizzate dalle angustie e dal terrore del momento, non trovano lagrime e... sono condannate. — Nullas lagrimas effudit e la terribile notizia che si mette a protocollo come sigillo finale dell' interrogatorio vero. Qualcuna delle interrogate dice di saper piangere ma di non potere in quel momento: invano!
Il quadro psicologico delle vecchie è uniforme. le accuse, le risposte sono sempre affini. C'è la Pillona che è un po’ benestante (ha: «doi campeti e doi prastei» dall'affitto dei quali riceve «otto stari de gran e sette lire in dinari») e pare più sottile nel difendersi.
La Tuenetta e una medichessa di qualche vaglia, ha ricette preziose contro el mal de cau e el mal de la manara che serbiamo generosamente ai nostri lettori.
La Buzata è la più impaniata nelle accuse, è aggravatissima dalle sue stesse deposizioni, le quali però non fanno altro testimonio contro di lei che quello di aver tentato esorcismi, appresi da altre vecchie.
L’interrogatorio esaurisce le forze delle accusate: qualcuna scatta e domanda, in dialetto anaune ciò che si vuole ancora da lei, giacchè la verità l’ha detta tutta. Si mantengono tutte, invariabilmente, sulla piena negativa. Molte negano — con loro danno — di aver sentito parlar di streghe; altre dicono semplicemente di non credere alle streghe e alle fatture.
Alla domanda se abbiano nemici affermano in generale — e con loro danno — di non averne, tranne qualche comare avversaria nei litigi vicinali o per affari di galline e di porcelli.
La personalità del giudice stesso non traspare mai dalle interrogazioni. Alcuna volta pare che l’interrogante sia il notaio stesso: l’Arnoldo o l’Inama, perché. la domanda non più stesa in latino incomincia con: ci dicho. L’unica citazione che compare nel testo del verbale è quella del Malleus maleficorum e precisamente del capitolo che tratta la prova delle lacrime (par. 3. quaestio 15ª, 557º foglio).