Il primo processo delle streghe in Val di Non/Parte III

Parte III - Le torture (13-18 dicembre 1613)

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PARTE III.

LE TORTURE

(13-18 dicembre 1613)




Davanti all’esito negativo delle pratiche interrogatorie il giudice inquisitore, se non voleva ammettere d’aver incomodato un centinaio e mezzo di persone, per riferire delle pure fandonie, non aveva altra via di azione che la tortura.

La prima vittima è la Gadenta di Bresimo: il verbale incomincia la sua prosa coll’invocazione della santissima Trinità e colla data 13 dicembre.

Nella stuba inferiori domus clarissimi domini commissari la povera vecchia viene esorcizzata: tre volte le si porge il calice di acqua benedetta colla formola sacramentale: In nomine Patris, Filii e Spiritui Sancti per istum potum aquae benedictae dissolvatur in te omnis virtus demoniaca! Le si chiede se voglia fare altre difese; risponde: «Signor non, che non voglio far’altre diffese. Iddio le faccia per mi!»

Il giudice — Quibus dictis et acceptis pro fischo proficuis — considerando che la figura della accusata è più simile a quello d’una scimmia che a quello di creatura umana (!!) s’induce alle interrogazioni di rito e all’ammonizione a parlare, al che la vecchia risponde:

Non so che dir altro di quello che ha detto, mi no voi nar a dir’et questa o quell’autra quel che no sai, ne ho mai creduto che ge siano strie!

Si ripete l’invito a riconoscere la colpa di fattura d’impotenza matrimoniale contro Antonio Florian, il quale per un sasso da lei gettato nel giorno delle nozze ecc. ecc. non era stato capace di consumare il matrimonio. Risponde: Quel che ho detto, ho detto, ne ho mai tirato preda alcuna.

Quibus dictis et acceptis il Commissario ordina torqueri in pollicibus! Sotto le pene della tortura la povera donna mantiene le negative: [p. 20 modifica]

«No ho mai tirato sasso alcuno. Jesus, Jesus, Jesus».

«No ho mai sentu che ge sia streghe a Bresimo».

«Non fui mai stria nè sarai mai nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

Queste risposte fra sospiri e invocazioni di Cristo e della Trinità si ripetono per tre volte sempre eroicamente mantenute, ed è ammirevole tale costanza fra un tormento di più d’un quarto d’ora.

«Et cum parvi facere videatur — ut et à me hoc visum fuit — hoc tormentum in quo stetit paulo minus quam quadrante quarti horae, fuit iussa relaxari adaptari pollices tortos ecc. ecc.

La seconda torturata fu la Pillona; nella notte dei 15 dicembre (le sedute notturne sono molte nel processo) alle ore 3, sempre nello stesso luogo, viene interrogata colle ultime insistenze la più martoriata delle vittime.

Alle sue negative il giudice: decrevit illam ponendam ad tormentum seu potius probationem vigiliae, proetermissis guibusdam aliis tormentis: in dictam mulierem — constituta videtur et robusta obstinata — mandavit eam poni super scano ibidem preparato, manibus post terga ligatis et recommendatis ad stangam superius perfixam et taliter ut vigilare debeat ut volens dormire tormentum sentiat et eo vigilet, mandando eam ipsam propriis pannis spoliari et aliis ibidem preparatis indui et ita iustis de causis ligaretur, hortata fuit et monita veritatem dicere. Essa mantiene le negative: Volè che diga quel che no sai — risponde stizzita — ne so che dir’altro di quello ch’ho detto; volè che diga che son una stria se no son, ne mai fui nè sarò. E così si abbandona per il resto della notte e per il giorno dopo sullo scanno del supplizio.

E’ registrato a verbale — il dì seguente — che è lasciata libera quel tanto di tempo necessario per accudire ai bisogni corporali. La mattina (non è ben chiaro se del lunedì 4 o del martedì 5 dicembre) la prima vittima muore. Un semplice tragico accenno:

Die quinta (?) in mane obiit Gadenta in carcere quam hesterna die circa duas horas noctis cum Zambono officiali, ego notarius D. nostri S. D. invisi, dixit clara et intelligibili voce loquens se velle confessionem differre in crastinam ecc. ecc. fuit evocatas. N. O. Plebanus, qui cum ad eam pervenisset loquellam amiserat, nec potuit confiteri, et paulo post, at officiales retulerunt, animam efflavit.

Intanto la Pillona resisteva: interrotto il supplizio per una ora e mezza mangiò e poi tornò allo scanno. L’officiale però riporta [p. 21 modifica] al verbalista che la vecchia fu udita a borbottare fra sè: Se ho da morir mi voi che ne mora anco delle altre.

Esasperata dai tormenti, l’anima sua, retta fin’ allora, medita una vendetta sull’umanità che la ha perseguitata, straziata, che la ucciderà ignominiosamente fra breve, lei innocente.

E la vendetta ha un corso drammatico; l’idea della vecchia ravviva d’una luce fosca tutte le ultime tenebre del processo.

Condotta davanti al Commissario aspetta che le si facciano le solite pressioni:

«Pillona è hora che diciate la verità sopra le mie domande che altre volte vi ho fatte».

«Signor, son disposta hora de dirve la verità et ge ho pensato alle osservazioni che V. S. m’ha fatto più volte» — E confessa di essere una stria, non sa se per esser nassuta sotto a tal pianeta o perchè il Salvanel le abbia storta la treccia così, che le sfuggì dalle mani e si arruffò in modo che non le fu possibile di domarla col pettine. E da quel tempo non ebbe più ventura. Racconta poi aver avuto commercio carnale col detto salvanel già mentre viveva il di lei marito, sempre di notte, così che non lo potè mai vedere. E’ dunque strega da 25 anni e più. Non sa definire il Salvanel che come un diavolo, peloso, che entrava dalla fenestra, aveva dimensioni umane e usava umanamente con lei, (che lo chiamò una volta: tentazione!) Rimessa alla tortura, perchè afferma d’aver finito, continua raccontando d’aver imparata l’arte malefica dalla fu Barbara del Simon dalla Tor, donna di costumi corrotti, la quale faceva «peverado di orbage, perzemoli, salviole e salvia» per rubare dal Zuppon i denari a chi dopo averne mangiato si fosse addormentato.

Il Salvanel aveva altre putte, cioè, fra l’altre, una tal Catarina del Tomè Fator da Romeno; segue la descrizione più esatta del Salvanel: ha forma di cane o di gatto, ma quando usa con lei è un cane; come tale la venne a trovare anche in prigione nel Castello e nel revoltello. Non confessò mai tal relazione perchè credeva che non fosse peccato.1 [p. 22 modifica]

Continua il tormento perchè all’inquisitore non basta la confessione fin qui estorta.

Il martedì 17 dicembre la buona donna, persuasa che a parlare non c’era più gran che da perdere e già allenata a inventare per guadagnarsi un po’ di riposo, continua la sua epopea. Dopo aver confessato d’aver pisolato un pochetto nel venir in tribunale, racconta come divenne stria e ci dà così un quadro del sabba classico anaune o strioz del monte Roen che si voglia chiamare.

Mi son deventata stria in occasion che essendo andata ai fieni sul monte di Romeno con la quondam Barbara già nominata a far della legna e havendone fatto un brazzo per una comissione e delle noselle et ballassimo tra di noi et vi erano dei diavolini in forma di cani e li vidi che ballavano con noi et questo fu su un prato nominato alla malgeta, il qual prato era del marito della detta Barbara la qual m’haveva prima dato a intender che andassimo a far fuori del fen, ma lo trovassimo bagnato che no lo podessimo voltar et stessimo ivi per trei hore e mangiassimo noselle e del pane e andassimo zo alla fontana a bever acqua. Li detti cagnolli li viddi vegnir via per il prà chiamati dalla detta Barbara digando: bò, bò, e la ge diede del pane et poi ballassimo con quei cani et viddi che erano grandi come mezzi cani et havendo ballato così per un’hora si si sfantorno da noi e non li vedessimo più all’hora. Ma ritornata su un’altro dì colla detta Barbara a far de la foia, quando incominciarono a mangiar del pane, la d.a Barbara s’accostò a un lares e vi piantò dentro il cortello, dicendo alcune parole che l’accusata non rammenta: ma ricorda d’aver visto uscirne un ottimo vino bianco che ella bevette. Pensandoci meglio, può descrivere la scena nei particolari: il coltello aveva il manico bianco: la Barbara tagliò la corteccia in basso, fino al legno duro, vi fece tre croci e disse: In nome del Pader, del fiol et del Spirito Santo et de San Zoan che ne daga del vin e del pan for de sto legnam!

Poi ricorda altri balli di streghe in montagna, dove i diavolini apparivano in forma di cani rossi, confessa d’aver somministrato a una sua comare nemica una pinza con dentro il tossico formato di menta-celidonia e salviola, taiade menude e mescolate con una polvere comperata dai crameri per uccidere i pidocchi dei bestiami e per uccidere i topi. Il posto della pinza dove c’era il tossico era contrassegnato. [p. 23 modifica]

E continua via via: basta che l’Inquisitore domandi, la confessione prosegue: Ricorda d’aver colla polvere di cervello di gatto affatturate persone così da farle impazzire; la formola incantatoria era:

Nel nome del pader del fiol e de lo spirito sant e san Zoan che lo no nosia a mi e si la nos ad altri so dan! E chesto lo dissi trei volte sora la polvere. Messa la roba in terra sopra un tagliere, vi fece intorno un ballo in compagnia del tintin, cioè del diavolo in forma di cane (di cane ha solo due zampe sulle quali va diritto, ha un poco di coda e un muso brutto nè d’uomo nè di bestia). Col demonio si ricorda di aver parlato. Leggiamo:

Ritrovandomi mezza desperata sul monte dissi:

«Piùttosto che stentar tanto voi esser serva del diaol» et all’hora el diavolo mi comparve nella forma predicta et me disse: Se tu me voi servir, t’aiutarai; e mi risposi che sì che l’haverei servì, con quando ch’el m’aiutasse; et magnassimo et bevessimo tra di noi come se fossimo stati zoveni et lui portò ivi pan e formai e vino in un bocal di pietra biaveta che no somigliava agli nostri boccali che usamo noi e mi promise de vegnir a trovarme com’el vene la sera a trovarme a casa.

Così il Salvanel è diventato il demonio Tintin, il seme genitale del quale ha una temperatura fredda; egli si presenta alla femmina, quando essa lo desidera o lo chiama per nome: e le fa le sue confidenze; quando essa era imbostiata, la consola dicendo che lui pure è spesso imbostiato coi suoi discipoli.

Ai comaregi le streghe di Val di Non andavano la Zobia de note in Roven su in quelle cime dove vi sono di bei plazoi. Ecco la lista degli invitati:

La Marinolla, la Zadrella, la madre della Nicoletta, la Nicoletta, la sua figliuola, Caterina moglie di Pier Antonio da Coret molinaro, Maria, mojer d’Antonio della Fattora detta la Mussata, Maria moglie di Tomio Zanuanvu, Catarina moglie di Zoan Badessarol; uomini:

Marin, figlio della Marinolla, Nicolò Zadrel, El Pol dei Frai, Nicolò del Zoan della Fattora; perfino il padre Zoan, che da 20 anni è a Trevis, veniva a questo Zogo. Poi Nicolò figlio di Simon, detto il dottor de Amblar; Antonio del Zoan Onofri da Romen detto el trinchota, Nicolò Smerza da Cavaren, Iacom Clappa da Dambel, Hendriz de Hendrizi da Salter, Pier Gabard, detto Toniol [p. 24 modifica] sguerro, Gianot ferrar da Salter e giù una serie di nomi fra i quali non sono dimenticati i testimoni che hanno deposto contro di lei. Così la vendetta della vecchia era fatta: le comari, specie la Nicoletta, che per una gallina o per un porcello l’avevano rovinata, erano bell’e servite. La confessione della Pillona è importante per i molti elementi mitici che contiene, di qui la nostra relazione alquanto lunga.

Note

  1. Qui appare che il Salvanello era presso il popolo la personificazione del sogno voluttuoso, null’altro. Su questa figura mitica, la più popolare nelle nostre leggende, si veda una mia noticina sull’òm dal luminot nel fasc. V della Pro Cultura, anno I. Oltre a ciò, per chi s’interessi, sarà utile il dare un’occhiata ai diversi accenni al Salvanel occorrenti nella letteratura vernacola nostrana. (Scaramuzza: L’om pelos ecc., vedi: ''Poesie e Poeti de Val de Non''. Vol. I e II.)