Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Strada.

Il Cavaliere Ansaldo e Fabrizio.

Cavaliere. Non è l’amor soltanto, che accendami a tal segno.

Per onor, per vendetta, son nel più forte impegno.
Quando ogn arte possibile abbia tentata invano,
Mi ha da costar la vita, o quella del germano.
Fabrizio. Parmi ben stravagante che il prence don Fernando,
Un uom di tanta stima, un uom sì venerando.
Scoperta la ragazza non essere sua figlia,
L’ami ancor come fosse nata di sua famiglia.
E il duca don Luigi, che tanta gloria ostenta,
Come mai di tai nozze s’appaga e si contenta?
Convien dir che sian ciechi ambi per troppo affetto.

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Cavaliere. Dubito che lo facciano per onta e per dispetto:

Ma ingannasi chi crede sdegnarmi impunemente.
Cento idee di vendetta mi passano per mente.
Inutile fu quella del pubblicato arcano,
Ora nella mia mente fondato ho un nuovo piano.
Sai di donna Marianna l’arrivo a queste mura,
Sai che ottener giustizia la femmina procura;
Ed io per sostenere l’impegno e la ragione,
La vuò presso la Corte munir di protezione.
Spero per questa strada di essere vendicato,
O che la sposi il Duca, o ch’ei sia rovinato.
Fabrizio. Può esser che l’intento ad ottener si giunga.
Ma, se ho da dire il vero, la strada è un poco lunga.
Se il Duca un tal maneggio promovere vi sente,
Potria donna Isabella sposar segretamente.
E quando legalmente il matrimonio è fatto,
Non basta per disciorlo un semplice contratto.
Cavaliere. Mandiam per tutto Napoli a ricercar costei.
Quel che tu fosti un giorno, Fabrizio, or più non sei.
Fosti un uomo di spirito, sei stolido al presente?
Fabrizio. Per dirvela, un ripiego mi era venuto in mente.
Cavaliere. Svelami il tuo pensiere.
Fabrizio.   Sapete, che partito
Della governatrice da Napoli il marito,
Per quello che discorrono, all’Indie si ritrova,
E di lui la consorte mai più non ebbe nuova.
Nella città conosco un certo lazzarone,
Che fa del vagabondo la nobil professione.
Al capitan Roberto tanto è simil costui,
Che più di quattro volte l’ho preso anch’io per lui.
Affatto lo somiglia al volto e alla statura,
Han tutti due nel naso egual caricatura;
Ed hanno tutti due, per singolar portento.
Un poro nella guancia, ed un vicino al mento.
Cavaliere. Possibile tal cosa?

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Fabrizio.   Credete a quel ch’io dico.

Io fui, quand’era in Napoli, di don Roberto amico;
E quando il lazzarone per strada a me si appressa.
Rinnovo nel vederlo la maraviglia istessa.
Più volte di tal cosa ho seco ragionato;
Dice che da altri ancora fu per error chiamato,
E che trecento volte il capitan creduto,
Quelli della milizia gli diero il benvenuto.
Trovandosi in bisogno mi confidò il briccone,
Che fingersi quell’altro avea la tentazione;
E che se gli riusciva trovar simili spoglie,
Volea di don Roberto deludere la moglie.
Cavaliere. Stolto! colla consorte passar per suo marito?
Fabrizio. Son più di sedici anni, ch’è il capitan partito.
Colle immagini impresse del volto, e la figura,
Scommetto che il marito lo crede a dirittura.
È ver che nella voce non ha gran somiglianza,
Ma questo può confondere del tempo la distanza.
Un che dal Nuovo Mondo credesi ritornato,
Il metal della voce può ancora aver cangiato;
Pronto sarei l’impresa a garantire anch’io.
Cavaliere. E ben, codesta favola che giova al caso mio?
Fabrizio. Emmi venuto in testa, per fare una finzione,
Vestir coll’uniforme codesto lazzarone.
Un abito ho trovato da un rigattier romano,
Colla divisa istessa che usava il capitano,
Con spada e con bastone all’uso militare,
Che meglio a don Roberto farallo assomigliare.
Ciò in pensar mi è venuto, dopo lo scoprimento
Che di donna Isabella fe’ noto il nascimento.
Lasciò la moglie incinta il capitan Roberto;
Ma nè lui, nè la sposa, non lo sapean di certo.
Dunque in faccia del mondo può dir, può sostenere...
Cavaliere. Il Duca mio germano parmi colà vedere:
Seco è il prence Fernando. Vien meco in altra parte.

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Fabrizio. Andiam, tutto il progetto vi dirò a parte, a parte.

Basta che mi accordiate danaro e protezione.
Cavaliere. Tutto avrai ciò che brami. (parte)
Fabrizio.   Conosco il mio padrone.
Lo so che all’occasioni prodigo sempre fu.
Se or non mi faccio un abito, non me lo faccio più.
(parte)

SCENA II.

Il Principe don Fernando, il Duca don Luigi e Beltrame.

Luigi. Che fa in questi contorni il Cavaliere audace?

Fernando. Figlio, vorrei vedervi a procacciar la pace.
Il sospettar mai sempre di cosa indifferente,
È un mal che non si sradica dal cuor sì facilmente.
Se ora il german vedeste, qual dubbietà vi affanna?
Luigi. Dubito ch’ei pretenda veder donna Marianna.
Ecco colà l’albergo dov’ella è ricovrata.
Fernando. Quivi? non mi era noto. Mandiamle un’imbasciata.
Luigi. Entrate pur, signore, l’ho fatto a lei sapere:
Potrà alle di lei stanze condurvi il cameriere.
Fernando. Duca, passar potete in Corte, o in altro loco.
Potria l’aspetto vostro moltiplicare il foco.
Condursi è necessario con il più dolce impegno
Con femmina focosa, che è facile allo sdegno.
Luigi. Talor rassembra umile, fiera talor si mostra;
Reggere la saprete colla prudenza vostra.
Salvatemi l’onore, senza arrischiar l’affetto:
Son nelle vostre mani. La mia sentenza aspetto.
Fernando. Ogni possibil arte di adoperar m’impegno
Per superar gli ostacoli di un femminile ingegno.
Io vi confesso il vero, andrei con men timori
A trattar di una pace con dieci ambasciatori.
Ma la cara Isabella, che nel cuor mio ragiona,
Per renderla felice a faticar mi sprona.
(entra in casa, seguito da Beltrame)

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Luigi. Vada, e secondi il cielo l’opera sua cortese.

Questa è, anch’io lo conosco, fra le più dure imprese.
S’egli favella invano, s’ella in voler si ostina,
Misero, son perduto; vedrò la mia rovina. (parte)

SCENA III.

Camera.

Donna Marianna e Paolina.

Marianna. Tarda molto a venire il prence don Fernando;

Sto pur con impazienza tal visita aspettando.
Chi sa con qual disegno a favellarmi ei venga?
Chi sa che una vittoria con esso io non ottenga?
Per uomo di gran mente il mondo lo decanta;
Ma l’onor, la giustizia, so che d’amar si vanta.
E femmina qual sono di un gran ministro accanto,
Spero di guadagnarlo colla ragion soltanto.
Paolina. Signora, un’imbasciata.
Marianna.   È il prence don Fernando?
Paolina. Per l’appunto.
Marianna.   Ch’ei venga.
Paolina.   Con lui vi raccomando
Non far di quelle scene, che far solete al Duca.
Fate che la ragione vi assista e vi conduca. (parte)

SCENA IV.

Donna Marianna, poi il Principe don Fernando.

Marianna. So regolarmi a tempo in ogni vario impegno,

So minacciar, se occorre, so moderar lo sdegno.
Ritroverammi il Principe umile nell’aspetto.
Ma saprò, s’ei m’insulta, parlar senza rispetto.
Eccolo, alla presenza dimostra un cuor gentile;
Spero che al dolce viso l’animo avrà simile.

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Fernando. Perdonate, madama...

Marianna.   Signor, di quest’onore
Sperar io non poteva consolazion maggiore.
Essere a’ piedi vostri supera ogni piacere:
Permettete, signore, ch’io faccia il mio dovere.
(puoi baciargli la mano)
Fernando. Che fate voi? (rilirando la mano)
Marianna.   Lasciate, in segno di rispetto,
Ch’io vi baci la mano. (come sopra)
Fernando.   Ah no, non lo permetto.
(come sopra)
Marianna. Se la bella umiltade ciò a ricusar v’impegna.
Spero che di tal grazia non mi crediate indegna.
Fernando. Con dama vostra pari il mio dover conosco.
(Dubito sotto il mele non si nasconda il tosco).
(da sè)
Marianna. Vi prego accomodarvi.
Fernando.   Fatelo voi, signora.
(donna Marianna siede, e poi don Fernando)
(In un impegno simile non mi ho trovato ancora).
Marianna. Qual motivo conduce il principe Fernando?
Degna son di ottenere l’onor di un suo comando?
Fernando. Io fui, donna Marianna, del vostro genitore,
Fino ch’ei visse al mondo, amico e servitore.
La medesima stima serbo alla sua famiglia,
E vengo ad offerirmi all’unica sua figlia.
Marianna. Tal bontà generosa ogni mio merto eccede,
E il cuor mio in rispettarvi al genitor non cede.
Fernando. Per qual affar prendeste di Napoli il sentiero?
Marianna. Signor, non ho riguardi a palesarvi il vero.
Lo direi francamente di tutto il mondo in faccia;
Molto più a un cavaliere, di cui son nelle braccia.
Soffrir più non potea, dove ho il natal sortito,
Dai nobili e dal volgo venir mostrata a dito.
Eccola, mi diceva gente ribalda oziosa,

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Ecco la derelitta, nè vedova, nè sposa.

Se un cavalier d’onore manca ad un sacro impegno,
Sarà di sposo tale il di lei cuore indegno.
Il duca don Luigi, che ha eroici sentimenti,
L’alma non ha capace di bassi tradimenti;
Dunque s’ei l’abbandona, se manca a lei di fede,
Sarà de’ suoi difetti giustissima mercede.
Tutte le Messinesi me risguardando in viso,
Moveano fra di loro un critico sorriso;
E dire una di quelle fu da me stessa udita:
La povera Marianna mai più non si marita.
I miei congiunti istessi m’han tutti abbandonata,
Dai servi e dalla plebe vedeami disprezzata.
Ed il sordido zio, che ha l’onor mio venduto,
Di me, per la vergogna, nemico è divenuto.
Parlommi di un ritiro; ma il mondo avrebbe detto,
Ch’io andava a rinserrarmi per onta e per dispetto;
Ed in qualunque stato, o sola, o accompagnata,
Avrebbero compianto un’alma disperata.
Tutto per me spirava sdegno, rossore e tedio;
So che ne’ mali estremi giova estremo rimedio.
Colla fedel mia serva, cinta in virili spoglie,
Abbandonai Messina, lasciai le patrie soglie.
Perduta la mia pace, la gloria mia perduta,
Eccomi finalmente in Napoli venuta.
Deh, ad ottener giustizia, a ricovrar l’onore,
Fate che in voi ritrovi l’amico e il protettore.
Fernando. (In fatti il di lei caso degno è di compassione,
E riparare è forza la sua riputazione). (da sè)
Figlia, la sofferenza d’ogni buon frutto è madre.
In me, ve lo protesto, ritroverete il padre.
La fuga sconsigliata la fama vostra offende,
Ma serenate il ciglio, Fernando vi difende.
A dama vostra pari non mancherà il marito;
Io stesso in questo regno vi troverò il partito.

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E se lo zio indiscreto non pensa alla nipote,

Da cavalier prometto formar la vostra dote.
Marianna. Dote a me si promette? Marianna accompagnarsi
Con tal maschera in volto? (alquanto sdegnata)
Fernando.   (Principia a riscaldarsi).
Marianna. Signor, per questa parte ringrazio il vostro zelo.
Mio sposo è don Luigi, me l’ha concesso il cielo.
Quand’ebbe la mia fede, dote a me non richiese;
Dopo il primier contratto, son vane altre pretese.
La dote ch’io gli porto, è d’ogni ben maggiore,
Sangue illustre gli reco, ed illibato onore.
Fernando. Ma il legame col Duca non fu da voi troncato?
Non fu de’ vostri impegni il foglio lacerato?
Marianna. Ecco, signor, l’inganno, che di smentire io spero.
Sciolto si crede il Duca, ma non si crede il vero.
La fè che mi ha promessa, la fè che mi ha giurata,
A una fragile carta non fu raccomandata.
Di una nobile figlia, di un cavalier d’onore,
I nuziali contratti si scrivono nel cuore.
Cosa inutile è il foglio. Formano gli sponsali
Di due liberi cuori le volontadi eguali;
E il nodo indissolubile a sciogliere non basta
Di un solo il pentimento, se l’altro vi contrasta.
Chi scioglier la sua fede pretende a mio dispetto,
Con un pugnale in mano dee lacerarmi il petto;
E con il vivo sangue del seno mio trafitto,
Dee cancellar quel nome, che nel mio cuore è scritto.
Fernando. (Cresce il furor; cerchiamo la via di moderarlo).
Se un eccessivo amore....
Marianna.   Ora d’amor non parlo.
Mi ami, o non mi ami il Duca, per lui mi accende il core
Sdegno, affetto o vendetta: quel che ragiona, è onore.
Signor, chi è la fanciulla, di cui con chiare note
Si vuol comprar l’onore a prezzo di una dote?

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Chi son io, lo sapete; nata d’illustre sangue,

Di cui la gloria antica per povertà non langue.
Se avesse il padre mio meno l’onor sentito,
Nei pubblici governi sarebbesi arricchito;
Ma seguitò degli avi le tracce ereditate,
Servì per la mercede dell’anime onorate.
Nei secoli non pochi che conta il mio casato,
Con nozze indecorose ancor non fu macchiato.
Nè io sarò la prima che lo deturpi ardita,
Ad onta d’ogni insulto, a costo della vita.
Con tutta la famiglia il Duca è debitore
D’avere un’innocente tradita nell’onore.
Ed io, che ultima sono del tralcio sventurato,
Non lascierò il mio sangue nell’onta invendicato.
Io stessa al mio Sovrano andrò a gettarmi al piede,
Domanderò vendetta, se negasi mercede.
E della Corte in faccia, prostrata al regal trono...
Ah, il dolor mi trasporta; signor, chiedo perdono.
Di un protettore in faccia, amabile e cortese,
Non temo di sventure, non dubito di offese.
Voi di giustizia il trono nel vostro cuore ergete.
Voi padre mio cortese, giudice mio voi siete.
Fernando. (Ah, chi può abbandonarla?) Vorrei vedervi lieta,
Ma una ragion si oppone, un altro amor m’inquieta.
Il Duca in età tenera al vostro bel si arrese,
Ora da voi lontano d’altra beltà si accese.
Sposo di tal donzella...
Marianna.   Come! e chi fia l’indegna,
Che d’involarmi il cuore del traditor s’impegna?
Conoscer la vorrei, e di rossor vermiglia
Rendere quell’audace.
Fernando.   Codesta è una mia figlia.
Marianna. Signor, del vostro sangue la mia rivale è nata?
Figlia per cotal padre felice e fortunata!
S’ella nella virtude imita il genitore,

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Apprezzerà, son certa, le massime di onore.

E sol che l’eroina le mie ragioni intenda,
Posso, se un cuor m’invola, sperar che me lo renda.
Vostra mercè, signore, tanta fortuna aspetto.
Fernando. Di sangue non mi è figlia, ma sol di puro affetto:
Me l’allevai bambina, ed il mio cuor l’adora.
Marianna. Figlia dell’amor vostro? Sarà più degna ancora.
Può tradir la natura con trista ingrata prole,
Colla sua scelta il cuore padre ingannar non suole.
Nè voi di cotal nome donna degnata avreste,
Se in essa ben locato l’amor non conosceste.
Fernando. (Parmi di questa dama lo stil sì inusitato,
Che il cuor di mio nipote quasi mi sembra ingrato).
Marianna. Principe, in voi sperando, scema il cor mio l’affanno.
Ma ancor la mia speranza può essere un inganno.
Se il caso mio vi penetra, se protettor mi siete.
Signor, per bontà vostra, di me che risolvete?
Fernando. Figlia, se nel rispondervi sì franco io non mi mostro,
Provien da quei riflessi che merta il caso vostro.
Il Duca mio nipote l’amo teneramente,
Della cara adottiva son per amore ardente.
Amo la virtù vostra, e dell’amore i frutti
Vorrei concordemente dividere con tutti.
Voi la ragione avete nel sangue e nell’onore:
Vostro, non so negarlo, vostro del Duca è il cuore.
Ed ei pria di vedere il foglio lacerato,
Avvi la data fede da cavalier serbato;
E in libertà veggendosi di usar gli affetti suoi,
Sciolse il laccio primiero, e si è legato altrui.
Ma chi più m’interessa, chi più mi parla al cuore,
Della tenera figlia è l’innocente amore.
Dopo lusinghe tante d’essere al Duca unita,
Come soffrir io posso la misera schernita?
Per non mirar tre cuori condotti al precipizio,
Par che sia necessario di un solo il sacrifizio;

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Ma l’amor mio, che tutti li apprezza ad uno ad uno.

Tutti salvar desidera, senza oltraggiare alcuno.
Gli altti di me si fidano, voi di me vi fidate.
Ho l’onor vostro a cuore. Son cavalier, sperate.
Marianna. Ah signor, che per tutti siete ugualmente accinto,
Deh la via disvelatemi d’uscir dal laberinto.
Fernando. Della virtù, che albergo nel vostro cor ritrova,
Esigere mi piace da voi codesta prova.
Non mi obbligate a dirvi per ora il pensier mio.
Marianna. Son nelle vostre braccia.
Fernando.   Donna Marianna, addio. (parte)

SCENA V.

Donna Marianna sola.

Par che la mia speranza sia una lusinga insana.

Perchè tenermi in pena? che crudeltà inumana!
Il bene in lontananza l’alma talor consola;
Disperazion talvolta ogni timore invola.
Ma vivere in tal modo, incerta di mia sorte,
È una smania d’inferno, è una continua morte.
Pure acchetarmi io deggio di don Fernando al zelo:
Voglio di lui fidarmi, voglio sperar nel cielo.

Fine dell’Atto Quarto.

Note