XII - I discorsi degli animali

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Capitolo XII.

I discorsi degli animali.

Beatus Renatus compì il suo viaggio, ed entrando in casa, non ebbe bisogno di suonare perchè la porta era aperta.

È vero che il suo cane, un bestiolo peloso, si era rotolato, precipitato giù per le quattro scale, per fare festa al padrone. Ma la porta era aperta.... Ora Beatus, benchè avesse perduto il suo onesto giudizio, era ancora dell’opinione che la porta deva essere chiusa.

— Sei tu, è vero, o impudica — disse Beatus al bestiolo — che sei scappata di casa, eh? Sempre quella storia di un òvulo che va a caccia di uno spermatozoo; o viceversa!

Questo bestiolo era di sesso femminile, benchè portasse il nome di Ruggero Bonghi.

Veramente non era stato Beatus ad offendere così un uomo di tanta dignità, ma alcuni amici letterati, ai quali, più specialmente che [p. 94 modifica]agli altri, questa cagnetta si opponeva, gradino per gradino, irosamente abbaiando.

Ma se la porta era aperta, ben si diffondeva sino su l’uscio di casa un prelibato odore di ragù; cosa inusitata nell’estate del 1918. Arrivò sino nel suo studio, e sentì una voce: «Padrone, buon dì». Era Loreto, un immobile animale, ma diceva sempre: «Buon dì», e Beatus gli era riconoscente.

Sopra la sua scrivania Beatus trovò distesa una sfoglia, gialla di uova.

Quante volte aveva detto a Scolastica: «Io vi lodo della minestra fatta in casa; ma non istendete, vi prego, la sfoglia su la mia scrivania.»

Ma siccome la sfoglia deve asciugare, e al tempo di inverno lo scrittoio era battuto dal sole, e comunque, lo studio era tiepido in virtù di una stufa a dolce calore, così Scolastica stendeva lo stesso; e facendo la cosa d’inverno, seguitava d’estate. Passando poi dallo studio alla cucina, Beatus trovò la pentola dell’acqua che bolliva sul fornello, e allora combinando il ragù con la sfoglia e con la pentola, disse: «Ecco un pensiero gentile di Scolastica che, nella previsione del mio arrivo, [p. 95 modifica]ha voluto prepararmi i tagliolini col ragù». Ma in quel punto, una tenda che ricopriva un ripostiglio, si mosse.

Beatus tirò la tenda, e vide un uomo.

— Cosa fate voi qui?

— Io esco, e basta! — rispose quell’uomo.

— Non basta, perchè per uscire bisogna essere entrati. Con quale diritto lei è entrato in casa mia?

— Sono qui per cose mie.

Beatus avrebbe voluto afferrare quell’uomo per il colletto; ma quell’uomo non portava colletto, e poi c’era sempre quell’impedimento della mano debole.

— Voi direte il vostro nome.

— È un delegato di pubblica sicurezza lei? — domandò quell’uomo; e uscì con passo tranquillo.

Chi era costui?

Ruggero Bonghi, così iroso contro i letterati, era rimasto tranquillo. Che non vi sia più da fidarsi nemmeno dei cani?

Beatus rientrò nel suo studio. Lì vide le piramidi dei libri crollate, e quanto al non levare la polvere, Scolastica era stata ossequiente. Fece alcuni segni con l’indice sopra [p. 96 modifica]i mobili, e il suo dito disegnò arabeschi come con un antico stilo. Sopra le piramidi dei libri, pendevano i ritratti dei benefattori dell’umanità, ma in quel giorno Beatus s’accorse che mancava il solo onesto benefattore: Ercole con la clava.

Intanto Scolastica entrava in casa con un fiasco di vino.

Essa non disse: «Padrone, buondì!», ma disse: — Lei la fa tanto lunga! Cos’ ha paura che gli portino via i libri? Stia sicuro che nessuno se li mangia. Viene un mio parente a trovarmi e lei lo scaccia come un cane. Cosa crede, perchè si è a servire, che si sia come gli schiavi d’una volta che ci mettevano le spille dentro la carne, e li buttavano da mangiare ai pesci?

Queste citazioni erudite di Scolastica non devono sorprendere: era ciò che si era appiccicato alla mente di lei dai tornei di parole che si tenevano nello studio di Beatus Renatus.

Scolastica continuò: — Già che io mi adatto [p. 97 modifica]a stare in questa casa che par di essere in una tomba, lei mi vuol togliere persino la libertà di ricevere un mio parente.

— Poteva dire — disse Beatus — che era un vostro parente.

— Ah sì! chi ha il coraggio più di parlare con quegli occhi feroci che lei fa quando è arrabbiato? «Libertà, libertà! la libertà rimedia a tutto!» Begli impostori!

Anche questa sentenza non deve sorprendere: era una reminiscenza dei colloqui che si tenevano nello studio di Beatus Renatus, quando egli possedeva tutto il suo onesto giudizio, e credeva anche nei superamenti dei servi e delle serve.

— Sì, signore, mio parente — continuò Scolastica —; figlio di mia zia e se vuol veder le carte, gliele farò vedere.

— Io non discuto — disse Beatus — le vostre genealogie. Piuttosto: a proposito di carte, avete la bolletta di riscatto della cagnolina?

— Adesso terrò da conto anche i pezzi di carta!

«Vede lei — disse Beatus Renatus a Leone Tolstoi, che pendeva anche lui nel suo camiciotto russo — la bella umiltà degli umili?» [p. 98 modifica]

Il pappagallo da un lato con corrugata fronte, Ruggero Bonghi dall’altro, seduta sul posteriore e con la lingua fuori, ascoltavano il discorso.

«Non è mica vero — pareva dire il bestiolo — che mi abbiano accalappiata; sono andata fuori per le mie necessità, ma sono sempre ritornata.»

Scolastica uscì sdegnosamente. In quella entrò il gatto di nome Biagino, animale di cui Beatus aveva sempre tessuto gli elogi, come a colui che aveva saputo temperare la vita selvaggia coi benefici della civiltà.

Ma in quel giorno Beatus mutò opinione anche sul gatto, perchè Loreto starnazzò le ali furiosamente, e parlò anche lui: «Non a rendere omaggio a te, o padrone, è venuto Biagino (e doveva esser vero perchè Biagino, appena scorse Beatus, fuggì) ma a tentare, se può, di strangolare anche me. È stato lui a mangiarsi il rosignolo. Va a mangiare i topi, io gli dico quando viene per mangiar me. E lui risponde: Usava una volta!» [p. 99 modifica]

Allora Beatus si risovvenne del rosignolo. C’era lì ancora la gabbia. Niente è più stupido che tenere un rosignolo in gabbia, ma Renatus non poteva per le sue occupazioni andare in una foresta a sentire cantare i rosignoli, e perciò teneva in gabbia il rosignolo. La canzone di quel povero bestiolino pareva far nascere un sorriso anche sui freddi volti dei benefattori dell’umanità.

«Oh, il miserabile delinquente!» disse Renatus al suo gatto Biagino. L’anno scorso, spelato, neonato, implorante pietà, lo aveva accolto in casa; e lui giocava, sbucava con la testolina di pipistrello di sotto ai mobili; e lo aveva nutrito e gli aveva dato il nome umano di Biagino! Pareva mansueto e domestico, ma ora rimasto libero e senza più legge, aveva mangiato il rosignolo. E non aveva per difesa che il suo canto! «E lei ha scritto il libro della republica, — disse Beatus a Platone, che anche lui pendeva dalle pareti con una sua barba inventata. — Un bell’affare!» «Dopo però ho scritto il libro delle leggi!», rispose la barba di Platone. «Filosofo buono a tutti gli usi!» gli disse Beatus che coi grandi uomini aveva un singolare coraggio [p. 100 modifica]di parole. Beatus ciò detto, aprì una finestra che dava su una terrazza.

Qui nuova sorpresa lo attendeva: non trovò più il gallo.

L’anima di Beatus Renatus spesso vigilava la notte. Questo vigilare dell’anima, se può essere una bella cosa quando il corpo giacerà nella bara, diventa una cosa seccante quando il corpo giace nel letto, specie d’inverno che tutto è ancor buio. Ora il gallo col suo canto illuminava la notte; ed il suo canto per quanto diverso, è come quello del rosignolo. Scolastica voleva pur bene al gallo, e sovente lo accarezzava presso alla guancia e gli diceva: «Cocco mio, quanto bene ti voglio. Domani ti tirerò il collo». La qual cosa mai Beatus non volle: non per morboso affetto verso le bestie, ma per suo egoismo. Gli avrebbe dato melanconia veder quella gaiezza del collo eretto del gallo, pendere giù, spennato pallido nella morte, da un uncino della cucina.

Lo aveva osservato nel canto. Come uno spasimo esce il suo canto. Quel suono, quel suono rauco, insistente, luminoso, prima del sole, che si affievolisce poi in una sconsolata tristezza! Che cosa ne sai tu, o gallo? [p. 101 modifica]Che vedono gli occhi tuoi gialli? Ripeti l’ammonimento a Pietro che rinnegò Cristo?

Il gallo non c’era più.

«Non ne incolpare Biagino — disse Ruggero Bonghi. — Lui non è stato. Il gallo è assai tempo che finì nella pentola. Ben io lo so, che ne mangiai gli ossi.»