XI - Giulio Cesare

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X XII

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Capitolo XI.

Giulio Cesare.

Questo Cristo — pensava Beatus uscendo dalla chiesa — per quanto lo chiamino il re degli umili, rappresenta sempre un grande impedimento per questi onesti bolcevichi. Essi sono lanciati all’assalto, conquistano una posizione, ma Cristo è sempre più in alto. È irraggiungibile.

In questo pensiero, si trovò su la piazza del mercato: tutta soleggiata. Era mezzodì. In fondo si vedeva un arco romano, e nella piazza c’era un piedestallo che ricordava che per lì era passato Giulio Cesare; un uomo straordinario per tante ragioni, e anche perchè ebbe l’abilità di prendere dolcemente i bolcevichi del suo tempo per le narici fumanti e ricondurli per qualche secolo ancora all’ovile. Era figlio di Venere, Giulio Cesare; o almeno lui lo diceva.

Ma rapidi squilli scossero Beatus. Si appressavano. In fondo alla via soleggiata, vide [p. 90 modifica]un ammassarsi oscuro di uomini. Poi sentì il percuotere sul selciato delle scarpe ferrate, poi lampeggiò una bandiera, poi vide le trombe, poi i profili degli elmetti. Passava l’esercito, passava e svoltava. Allora Beatus ricordò che quella era la Via Emilia, quello in fondo l’arco romano, quello presso di lui il piedestallo di Cesare.

«Ecco, dopo venti secoli — pensò Beatus — che i soldati d’Italia passano con l’elmo di ferro davanti a te, o Cesare!»

Beatus non vide la guerra immane; vide soltanto la forza ordinata d’Italia: l’esercito che passava.

Un brivido gli corse nel cuore; e voleva gridare: Evviva!

Ma i soldati passavano muti, e la gente del popolo che si veniva formando a semicerchio, lì dove i soldati svoltavano, era pur muta. Ma era una paurosa mutezza. Un uomo presso Beatus levò il braccio con disperazione; una donna proferì: «Poveri figli di madre!»; un’altra donna gettò, contro il vessillo che passava, parole di una sua grande sconcezza.

Beatus, che avrebbe voluto accostarsi ai soldati, non osò. Aveva paura di vedere i [p. 91 modifica]volti dei soldati. Gli parve che quelle parole della gente dovessero essere intese, e attraversare quella fila ordinata, e sconvolgerla.

Invece di appressarsi, ora, Beatus voleva allontanarsi: si sarebbe allontanato quando tutta la fila fosse passata. Ma non finivano più. L’arco in fondo li vomitava, l’arco romano. Si sentiva nettamente il percuotere delle scarpe ferrate, come una forza, già impressa, di ritmo che trascinasse tutta la fila. Il silenzio degli uomini diceva, indietro! Quel ritmo diceva, avanti!

Beatus guardò su in alto per vedere se c’erano dei fili che movessero gli uomini. Forse ci sono, ma così invisibili che non si vedono.

Allora anche Beatus si avvicinò ai soldati e stupì. Non erano soldati; erano tutti i ragazzi dell’ultima leva. Sotto l’elmo di ferro si profilavano volti di adolescenti. Volti terrei un po’, rigati un po’ di sudore, il respiro un po’ anelante: nessuna espressione. Tutti un’uguale espressione un po’ abbacinata. Forse il gran sole, la gran fatica, la gran polvere bianca. Gli stinchi, stretti nelle fascie, erano tutti bianchi. Gli ufficiali che guidavano i [p. 92 modifica]drappelli, adolescenti anche loro: una gran dolcezza in quelle adolescenze, sotto quegli elmi di ferro. Quale forza reggeva così disciplinata quella adolescenza? Non dai vivi proveniva quella forza: i vivi anzi avvolgevano l’esercito entro un’atmosfera di odio civile.

Ma il passo delle scarpe ferrate aveva un non so che di rabido, ma sopra quella fila pareva levarsi una voce alata che diceva: «Cesare, Cesare, passano i soldati d’Italia!». E nessuno forse fra essi sapeva chi era Cesare. Allora Beatus pensò alla terra, dentro cui stanno i morti. Le scarpe ferrate, percotendo la terra, traevano forza dalla terra. Poi si ricordò del comando romano nelle disperate battaglie: Res ad triarios redit. Ora conviene dire l’opposto: Res ad adolescentes redit. Ma come potranno questi adolescenti far risalire le valli ai Tedeschi, accampati sul Piave? Una lagrima, cadde sul gilè bianco di Beatus. Allora ricordò che lagrima vuole dire: corrosivo. Questo corrosivo fa comprendere molte cose, ma abbrevia la vita.

Allora ricordò che Loreto non piange mai. Forse ha cento anni.