Il guarany/Parte Prima/Capitolo IX
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte Prima - Capitolo VIII | Parte Prima - Capitolo X | ► |
CAPITOLO IX.
AMORI.
Le cortine della finestra si chiusero; Cecilia erasi messa a letto.
Vicino a questa innocente fanciulla, addormentata nella serenità della sua anima pura e vergine, vegliavano tre sentimenti diversi, palpitavano tre cuori ben differenti.
In Loredano, avventuriere di bassa qualità, questo sentimento era un desio ardente, una sete di godimento, una febbre che gli bruciava il sangue: l’istinto brutale di quella natura vigorosa era ancora accresciuto dall’impossibilità morale proveniente dalla sua condizione, dalla barriera che elevavasi fra lui, povero colono, e la figlia di don Antonio de Mariz, ricco fidalgo di castello e blasone.
Per frangere questa barriera e agguagliare le condizioni, sarebbe occorso qualche avvenimento straordinario, un fatto che alterasse completamente le leggi della società, in quel tempo più rigorose che oggi; facea mestieri di una di quelle situazioni, in faccia alle quali le persone, qualunque sia la loro gerarchia, nobili e plebee, si pareggiano, e discende o sale lo stato degli uomini.
L’avventuriere ben ciò comprendeva; e forse già avea meditato profondamente su questo punto importante. Frattanto sperava, e sperando vigilava sopra il suo tesoro con un zelo e una costanza a tutta prova; i venti giorni passati al Rio de Janeiro erano stati per lui un vero supplizio.
In Alvaro, cavaliere gentile e cortese, quel sentimento era un’affezione nobile e pura, piena di quella graziosa timidezza, che profuma i primi fiori del cuore, e di quell’entusiasmo cavalleresco, che infondeva tanta poesia negli amori di quel tempo, così singolare per cortesia e lealtà.
Sentirsi vicino a Cecilia, vederla e scambiare qualche parola a stento balbettata; arrossire ambedue senza sapere il perchè, e sfuggirsi col desiderio d’incontrarsi; era tutta la storia di quell’affetto innocente, che si affidava tranquillamente al futuro, librandosi sulle ali della speranza.
Questa notte Alvaro faceva un passo, che, nella sua abituale timidezza, paragonava quasi ad una domanda formale di matrimonio; avea risoluto di far accettare alla fanciulla, anco a suo malgrado, il presente che avea ricusato, ponendolo sulla sua finestra; sperava che vedutolo il giorno appresso, Cecilia gli perdonerebbe il suo ardimento, e lo conserverebbe.
In Pery quel sentimento era un culto, una specie di fanatica idolatria, in cui non entrava un solo pensiero di egoismo; amava Cecilia, non per provare un piacere o aver una soddisfazione, ma per dedicarsi interamente a lei, per adempiere al minimo dei suoi desideri, per evitare che la fanciulla immaginasse qualche cosa, che non fosse tosto una realtà.
E ben diverso dagli altri, egli ancor non si fermava qui: non turbato da rivalità di sorta o da speranza lusingato, affrontava la morte unicamente per vedere se Cecilia era allegra, contenta e felice, e se desiderava qualche cosa, che egli indovinerebbe dal suo volto, e andrebbe a procacciare in quella stessa notte, in quello stesso istante.
Di tal modo l’amore trasformavasi interamente in quelle tempre, e rappresentava tre sentimenti ben distinti; in uno era folia, nell’altro passione, nel terzo religione.
Loredano desiderava; Alvaro amava; Pery adorava. L’avventuriere avrebbe dato la vita per il godimento; il cavaliere avrebbe affrontato la morte per meritarsi uno sguardo; il selvaggio si sarebbe ucciso, se fosse stato mestieri, solo per far sorridere Cecilia.
Intanto nessuno di questi tre uomini potea toccare alla finestra della fanciulla, senza correre un gran rischio, per la posizione in cui si trovava la camera di lei.
Ancorchè le fondamenta e la parete sorgessero a un braccio di distanza dall’orlo del precipizio, don Antonio de Mariz, per difendere questa parte della casa, avea fatto costruire un piano inclinato dalle finestre all’estremo dello spianato: era quindi impossibile camminarvi sopra, non presentando la sua superficie levigata punto alcuno d’appoggio al piede, per quanto saldo e sicuro.
Al basso della finestra aprivasi la roccia tagliata a picco, e formava una cava profonda, coperta da un strato verde di trepadeire e cipò, che serviva di dimora a tutti quei rettili moltiformi, che pullulano nell’ombra e nell’umidità.
Perciò l’uomo che precipitasse dall’alto dello spianato in quel baratro largo e profondo, se per miracolo non si sfracellasse sulle punte della roccia, sarebbe divorato in un attimo dalle serpi e dagli insetti velenosi, che riempivano quei meati e quegli spechi.
Già da alcuni istanti le cortine della camera si erano chiuse; appena una luce vaga e tramortita disegnava sulle frondi verdenere dell’oleo la forma quadrata della finestra.
Loredano che teneva gli occhi fissi in quel riflesso come in uno specchio, nel quale sognava tutte le immagini della sua folle passione, d’improvviso trasalì.
In quello smorto chiarore disegnavasi un’ombra mobile; un uomo si avvicinava alla finestra.
Pallido, cogli occhi ardenti e i denti chiusi, sospeso sopra il precipizio, seguiva i più piccoli moti di quell’ombra.
Vide un braccio che stendevasi alla finestra, e una mano che lasciava sul davanzale un oggetto, tanto piccolo da non potersene discernere la forma.
Alla manica larga del vestito, od anzi per istinto, Loredano indovinò che quel braccio appartenera ad Alvaro; e immaginò tosto che cosa la mano avesse posto sulla finestra.
Nè s’ingannava.
Alvaro, assicurandosi a un fragile palo del giardino, e posto un piè sopra il piano inclinato, applicò il corpo alla parete, e chinandosi pervenne ad effettuare il suo intento.
Dipoi si partì, agitato a vicenda e da tema per l’azione che avea commesso, e da speranza che Cecilia gli perdonerebbe.
Loredano, non sì tosto vide scomparir l’ombra, e udì l’eco dei passi del giovane, che ripercuotevansi sordamente nel fondo del precipizio, sorrise.
La sua bionda pupilla brillò nelle tenebre, come gli occhi dell’hiràra1.
Trasse fuori la daga, e la piantò nella parete tanto lontano, quanto permettavalo la curva, che il suo braccio era costretto a fare per abbracciar l’angolo.
Sospendendosi poscia a questo fragile sostegno, potè scorrere sul piano inclinato e avvicinarsi alla finestra; la minima indecisione, il minimo movimento, o solo il vacillar di quell’arma, sarebbero bastati a farlo capitombolare in quell’abisso.
Nell’atto che ciò accadeva, Pery seduto tranquillamente sul ramo dell’oleo, e ascoso tra le frondi, assisteva immobile a tutta questa scena.
Come tosto Cecilia ebbe chiuse le cortine della finestra, l’Indiano vide i due uomini, che collocati a destra e a sinistra parevano attendere qualche cosa.
Aspettò anch’egli, curioso di sapere quello che fosse per avvenire; ma risoluto, occorrendo, di gettarsi d’un salto sopra quello che ardisse fare la minima violenza, e di cadere ambedue dall’alto dello spianato.
Avea riconosciuto Alvaro e Loredano; già da molto tempo si era accorto dell’amore del cavaliere per Cecilia; ma quanto a Loredano, non gli era mai caduto in mente simile sospetto.
Che cosa poteano volere quei due uomini? Che cosa venivano a far quivi, in quell’ora silenziosa della notte?
L’atto di Alvaro gli spiegò parte dell’enigma; quello di Loredano gli fece comprendere il rimanente.
In fatti Loredano, avvicinatosi alla finestra, era riuscito con uno sforzo ad afferrare l’oggetto lasciatovi da Alvaro, e l’avea scagliato nel fondo del precipizio.
Fatto ciò, si era messo in salvo, e ritirato; assaporando il piacere di questa piccola vendetta, di cui prevedeva l’importanza.
Pery non si mosse.
Avea compreso colla sua sagacità naturale l’amore dell’uno e la rivalità dell’altro; e nella sua mente selvaggia e adorazione fanatica avea preso un partito, che per lui era molto semplice.
Se Cecilia giudicava che così avesse ad essere, ben poco a lui importerebbe dell’accaduto; ma se quello che avea visto le cagionasse qualche ombra di tristezza e appannasse un istante lo splendore de’ suoi occhi azzurri, la faccenda andrebbe ben altrimenti.
L’Indiano avrebbe sacrificato ogni cosa, anzi che permettere che un’ambascia annuvolasse il volto sereno e ridente della sua bella signora.
Chetato perciò in quest’idea, ritornò alla sua capanna, e dormì sognando che la luna inviavagli un raggio della sua bianca e soave luce, per dirgli che proteggesse la sua figliuola sulla terra.
E in fatti la luna alzavasi sopra le vette degli alberi e illuminava la facciata della casa.
In quell’ora, chi si fosse accostato ad una delle finestre che guardavano in fondo al giardino, avrebbe veduto nella penombra di quella parte dell’abitazione una forma immobile.
Era Isabella, che vegliava pensierosa, tergendosi di tratto in tratto una lagrima che le rigava il volto.
Pensava al suo amore infelice, alla sconsolata solitudine della sua anima, tanto sterile di dolci memorie, di care speranze.
Tutta quella sera era stata un martirio per lei; avea veduto Alvaro favellare a Cecilia, e indovinato quasi le sue parole.
Pochi momenti innanzi avea visto l’ombra del giovane, che attraversava lo spianato, e sapeva che non era per lei che passava di là.
Di quando in quando le sue labbra tremavano, e lasciavano sfuggire alcune parole impercettibili:
— Se io volessi!
Traeva dal seno un monile d’oro, sotto il cui coperto di cristallo vedeasi un anello di capelli.
Che ci aveva entro quel monile di sì potente, di sì forte, che giustificasse quell’esclamazione, e quello sguardo brillante che illuminava la nera pupilla di Isabella?
Sarebbe un secreto, uno di quei secreti terribili, che mutano di repente la faccia delle cose, e fanno sorgere il passato per annientare il presente?
Sarebbe qualche tesoro inestimabile e favoloso, alla cui seduzione la natura umana non saprebbe resistere?
Sarebbe un’arma potente e invincibile, contro cui non ci avrebbe difesa possibile, se non per un miracolo della Providenza?
Non lo sappiamo; il monile non si aprì.
Isabella applicò le labbra al cristallo con una specie di delirio.
— Madre mia!... madre mia!...
Un singhiozzo le scoppiò dal seno.
Note
- ↑ Specie di gatto selvaggio, indigeno del Brasile.