Il dottor Antonio/XXV
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CAPITOLO XXV.
Væ victis.
La bella Partenope si specchia nella sua amabile baja pura come cristallo. Il sole innonda la città di torrenti di raggi, che portano luce e calore nei più remoti recessi; una folla di uomini corre su e giù per le soleggiate strade, e per le vie selciate di lava, affaccendati ne’ loro affari, e divertimenti, e piaceri. Ogni cosa è splendida, ognuno sorride come la libertà non fosse stata ferita a morte pur jeri — come il Parlamento costituzionale non fosse stato mandato a tener le sue sedute nelle prigioni di Stato — come in quel momento il procurator generale Angelillo non domandasse quarantadue teste.
Soltanto quarantadue per cominciare! il resto verrebbe in seguito. Le bilance della Temi napolitana non corron pericolo di arrugginirsi nell’ozio. Nessuno si ha a dar pena per questo. Il numero dei prigionieri per delitti politici, nel felice regno delle Due Sicilie nell’anno di grazia 1850, è asserito da buona autorità1, esser qualcosa di medio fra i quindici e i trentamila. Prendendo il minor numero come più prossimo alla probabilità — supponendo che di questi quindicimila due terzi vengano sbrigati nel modo paterno sommario (economico, lo chiamano elegantissimamente) — cioè senza alcuna forma di giudizio qualunque, resta un bilancio di cinquemila creature umane da consegnarsi alla giustizia — bastanti, bisogna confessarlo, a dare occupazione e divertimento a tutte le Corti Criminali Alte e Basse del Regno, e ai frequentatori abituali di quelle Corti per varii anni avvenire. Vi sono, fra gli altri, da quattro a cinquecento individui imprigionati pel solo fatto del 15 maggio, promettente un’infornata mostruosa.
Questa di cui abbiamo a discorrere, è più notevole per la grande varietà degli elementi sociali de’ quali è composta, che non per il suo numero. Ogni classe, dalla condizione più umile alla più elevata, ha contribuito il suo contingente alla formazione di questo gruppo. Si contano fra gli accusati un ex-Ministro degli Affari Interni, un ex-Magistrato, un ex-Capo di Divisione nel Ministero della Pubblica Istruzione — tutti e tre deputati; due Capitani dell’esercito, il rappresentante di una famiglia ducale, due gentiluomini educati e ricchi, uno de’ quali non volle accettare un posto diplomatico; varii avvocati e medici, quattro preti, un arciprete, e molti piccoli commercianti, bottegai e artisti; un vecchio gendarme, un facchino e un domestico. Sono accusati di appartenere a una Società segreta anarchista; e alcuni, per giunta, di aver combattuto alle barricate del maggio 1848 — precauzione eccellente, per riserbarli ad un altro giudizio, caso che escano assoluti da questo. Una singolare accusa è portata contro alcuni pochi: di aver essi tentato uccidere gli attuali Ministri ed altre persone per mezzo di terribili macchine esplosive; — una semplice bottiglia scoppiata in tasca a uno degli accusati, senza far danno alcuno a lui o ad altri. Una razza più nera di scellerati non aveva mai lordato le prigioni del Tribunale, se avevasi a credere al procurator Angelillo. Una mano di onorevoli cittadini ingiurati e maltrattati, non aveva mai gridato più altamente vendetta al cielo, se pur gli antecedenti e le presunzioni valgano punto in questo mondo. Fra uomini del carattere pubblico di un Poerio, di un Settembrini, di un Pironti — fra nomi storici come quello di un Caraffa, — fra gentiluomini della educazione e della ricchezza di un Nisco, di un Gualtieri, di un Braico, ecc., — fra dignitari ecclesiastici della sorta di un arciprete Miele; recluta l’anarchia i suoi fautori, e il delitto i suoi strumenti? Che direbbe il Lettore inglese di un’accusa di tradimento, portata contro alcuni de’ più eminenti e rispettati uomini di Stato, membri principali del Parlamento britannico? Bene — gli uomini di cui ho scritto i nomi, e che vedete introdotti in quella tetra sala del palazzo della Vicaria, ammanettati e scortati da gendarmi, nella scala sociale dal loro paese tengono un posto del pari eminente, per carattere e condizione, come qualunque dei vostri uomini di Stato, Membri del Parlamento, Magistrati, nobili e popolani.
Questa è la famosa inquisizione di Stato contro la Setta dell’Unità Italiana, che strappò all’anima generosa di uno Statista inglese un grido d’indignazione, tosto ripetuto da tutta Europa. La Corte che siede è la Gran Corte Criminale, il più alto Tribunale del Regno. Non siede come Corte ordinaria, ma quale Corte Speciale affine di spedire il processo; colla qual parola, s’intende che può dispensarsi da qualunque delle forme d’immenso valore per la difesa, a piacere del suo presidente Navarro — «il delicato, scrupoloso, imparziale e generoso Navarro»2. Il dramma lugubre sta per incominciare. Lo spazio ristretto concesso al pubblico è pieno zeppo; e così pure l’emiciclo riserbato per gli spettatori privilegiati, fra’ quali vedesi una Signora coperta di fitto velo. I Giudici stanno ai loro seggi; in faccia ad essi, sopra una piattaforma elevata, seggono gli accusati. Pajono smunti e pallidi. Il luogo da cui sono stati tratti, a dir il vero, non è de’ più salubri, specialmente in quella stagione dell’anno in Napoli, nel mese di giugno. Non meno di mille trecento ottanta creature umane sono accatastate l’una sopra l’altra, senz’aria e luce, fra sozzure orribili, nelle contigue prigioni della Vicaria, ove i nostri quarantadue sono confinati. S’ha anche a tener conto di una previa detenzione per nessuno minore di dieci mesi — per molti assai più lunga, di già sofferta. Nè s’ha a dimenticare il grado conveniente di salubre disciplina applicato al corpo e alla mente, dal quale è sempre accompagnata in Napoli la carcerazione per cause politiche — un duplice trattamento per il lodevole motivo di estorcere la verità, del quale sapremo poi abbastanza per nostra edificazione. La gente malintenzionata potrebbe chiamarlo «tortura;» ma, si sa bene, la tortura è abolita — di nome almeno. Non è maraviglia pertanto, se gli accusati pajono smunti e infermicci. Ma se la carne è inferma, lo spirito che abita dentro ad essa è pieno di forza e di energia — almeno l’aria di quieta risolutezza che hanno — la quieta risolutezza di una guarnigione che sa di non dovere aspettarsi quartiere, e si prepara a vender cara la vita — parrebbe dimostrarlo.
Chiamati a nome i prigionieri uno di essi, Margherita (impiegato di dogana), si leva e ritratta la dichiarazione estortagli, dice, per costringimento fisico e morale, e suggerita dallo stesso Giudice Inquisitore. Un altro, Pitterà (maestro di calligrafia), dichiara che cavato da un criminale (una cella sotterranea quasi affatto priva di luce) per essere esaminato in Castello (dell’Uovo), egli era per le continue privazioni e per le ripetute minacce sopraffatto di stupidezza mentale. Un terzo, Antonietti (agente di dogana), segue a dire che quando venne interrogato egli era tanto sfinito di mente e di corpo, che avrebbe segnato anche la propria condanna di morte. Se alcuno desidera conoscere più distintamente qual sorta di oppressione fosse quella che poteva così snervare e abbrutire persone tutt’altro che deboli e sensibili, Pironti e altri ce ne diranno i particolari. Pironti, deputato e magistrato che era, racconta di essere stato confinato solo in un carcere, ove aveva dovuto dormire sulla nuda terra, fra ogni sorta di sozzure, per quarantadue giorni. Gli vennero rasi i capelli e la barba per ordine speciale, da un galeotto. Quindi sottostette a un insidioso esame del Comandante del Castello; il quale sperimentando prima le minacce, e poi le lusinghe, gli prometteva la clemenza reale affine di indurlo a far rivelazioni, a comprovare cioè le accuse fiscali e denunciare i suoi complici. De-Simone (un profumiere) fu minacciato di duecento colpi di bastone ammollato nell’acqua. Faucitano (un imprenditore di costruzioni, quello della bottiglia esplosiva) fu trascinato alla Prefettura di Polizia da venti guardie svizzere, sei ispettori di Polizia e dodici sbirri, che lo batterono, gli sputarono in faccia, gli strapparono le vesti, i capelli e la barba. Fu tenuto due ore all’uffizio di Polizia, legato con funi bagnate, poi condotto in Castello in un oscuro e umido criminale, senza neppure un po’ di fieno per giacervi sopra, e ritenuto quivi nove giorni senz’altro nutrimento fuorchè pane ammuffito, senz’altra bevanda fuorchè acqua fetida. La sua prima deposizione gli tu strappata colla minaccia di duecento colpi di bastone. Muro (un servo) fu tenuto cinque giorni affatto al bujo; e venendo condotto all’esame, un Tenente dell’esercito, suo conoscente, gli disse in aria compassionevole non esitasse a mettere il suo nome sotto qualunque carta che la Commissione gli avesse dato a segnare, altrimenti gliene andava la vita. Essendogli chiesto come ora sostenesse di non conoscer Pironti, mentre confrontato con esso lui la prima volta l’aveva riconosciuto immediatamente, Muro risponde avergli detto il Commissario anticipatamente di indicare a dito quell’uno dei quattro individui in fila, il quale non aveva baffi; ed egli aveva obbedito. Sersale (un mercante) aveva sostenuto un digiuno tanto prolungato, che la sua salute ne era irremediabilmente ruinata: debole la voce del prigioniero, che appena può reggersi in piedi. Anche sua moglie era stata tenuta cinque giorni in carcere a pane ed acqua, a fine di indurla col terrore a deporre della verità dell’accusa contro di lui. Cocozza (un curiale) segnò il suo interrogatorio senza leggerlo — condizione per essere traslocato da una orribile criminale; e fu richiesto dal Commissario di deporre che Nisco (uno de’ coaccusati) era il cassiere della setta dell’Unità Italiana. Caprio (un falegname) fu sollecitato dal Commissario in presenza del Capo delle carceri e del secondino, Carmine Bisogni, a denunziar Nisco, e dichiarare con giuramento che egli (Caprio) aveva ricevuto seimila ducati da questo gentiluomo per corrompere le truppe; e la libertà gli era promessa dal Commissario in seguito a queste delazioni. Ad Errichiello (padrone di un caffè) era stato offerto un impiego con dodici ducati al mese, se voleva secondare i disegni del Commissario. Dono (un chimico) non fu esaminato neppur una sola volta durante i dieci mesi della sua carcerazione.
Caraffa, dei duchi d’Andria, si leva a raccontare una mesta narrazione. Quando fu arrestato, sua madre era seriamente malata, e da quel tempo in poi non ne ebbe mai più notizie. Gli era stato dato anche ad intendere, che i suoi affini avevano tutti rinunziato a lui. Il signor Peccheneda, ministro di Gabinetto e direttore di Polizia, venuto a visitarlo in carcere, l’aveva assicurato che il suo affare sarebbesi facilmente accomodato, ove egli avesse voluto testimoniare sopra un dato punto contro il suo coaccusato Poerio. Sul rifiuto di Caraffa, il Ministro erasi licenziato con queste parole: — «Benissimo, signore, voi volete la vostra distruzione — e io vi abbandono al vostro destino!» Una notte lo sfortunato giovine era venuto meno e cadendo al suolo erasi fatto male all’orecchio destro. Chiamò ajuto, ma nessuno comparve. Sentì bisbigliarsi intorno che presto aveva ad esser trasferito in un criminale, pieno delle più schifose sozzure, e che la sua condanna era irrevocabile. Dopo un mese di tale prigionia, sotto l’influenza combinata e di una tortura morale e della febbrile impazienza di aver notizie di sua madre, gli mancò il coraggio; e allora scrisse una lettera deponendo contro alcuni de’ suoi coaccusati — la scrisse per suggestione del Giudice Inquisitore, nella casa del Comandante del Castello, sotto l’occhio del Commissario. Ora egli ritratta tutto quello che sta scritto in quella lettera; nè basta questa piccola ritrattazione per rimetterlo in pace colla sua coscienza. Sente desiderio e necessità di fare ammenda ulteriore per il suo fallo. Desidera domandar perdono, e lo domanda ora in presenza dei giudici e del pubblico — ai suoi cari amici, indicando gli altri prigionieri. La sua voce, tremula per la commozione, penetra in cuore a tutti gli astanti.
Questo concerne il buono e l’umano trattamento dei prigionieri prima del loro giudizio. Ora, per una semplice illustrazione, vediamo il modo umano con cui furono trattati durante il giudizio.
La Corte aveva riprese le sue sedute, sospese per una quindicina di giorni a causa della seria malattia dell’accusato Leipnecher, già capitano nell’esercito. Il presidente Navarro, impaziente di proseguire la causa, la mattina del 17 giugno, di buon’ora, aveva voluto parlare ai sette medici di Leipnecher, e loro aveva fatto sapere che il giudizio doveva andare innanzi per ogni modo. Non esigeva da essi che la risposta ad una sola domanda: — Poteva Leipnecher esser tradotto innanzi alla Corte senza pericolo di morte immediata? Dopo avere timidamente arrischiate alcune osservazioni, i medici risposero che Leipnecher non aveva febbre, e benchè soffrisse certo di irritazione nervosa, questa non gli impediva di poter essere presente alla seduta; ma doveva essere trasportato nella sala su di una sedia, e s’aveva a prenderne cura conveniente, giuntovi. Il Presidente occupa quindi il suo seggio alla Corte; e a un suo cenno, una portantina circondata da numerosi gendarmi viene introdotta nella sala. Gli inservienti della prigione ne tiran fuori un infermo affatto incapace a sostenersi; lo trasportano sulle braccia come un fanciullo, e lo mettono sopra una sedia, accomodativi due cuscini per sostenerne il capo. Si fa l’appello nominale de’ prigionieri, di Leipnecher fra gli altri; ma egli non risponde. Egli non può — egli nulla ode. Alla fine sollecitato da’ suoi compagni, che riescono a farlo rinvenire da quel torpore, egli esclama delirando: — «I medici non mi voglion curare!» Prendendo queste parole quasi un’accusa contro i medici, il presidente Navarro ordina che siano subito scritte, e decreta che Leipnecher sia il primo ad essere esaminato. Durante la lettura del verbale delle risposte date precedentemente all’Inquisitore e alla Gran Corte Criminale, lo sfortunato non dà altro segno di vita, se non alcuni moti meccanici. Finita la lettura, il Presidente gli domanda se abbia nulla da aggiungere. Il prigioniero non articola accento. Il Presidente comanda allora al difensore di Leipnecher che risponda per il suo cliente. Rifiutasi il difensore, allegando essere il carattere dell’esame affatto personale dell’accusato. Navarro insiste che il difensore si avvicini al suo cliente, gli comunichi le domande, e trasmetta alla Corte la risposta che ne possa ricevere. Il difensore grandemente commosso, avvicinatosi a Leipnecher, scorge immediatamente essere impossibile tentare alcuna comunicazione verbale. La fronte del povero infermo è coperta di sudor freddo; e solo il rantolo dell’interna agonia mostra che non è morto. Il Procurator Generale viene in ajuto all’imbarazzato Presidente, e osserva come il rapporto dei medici essendo stato fatto la mattina di buon’ora, può essere tornata di poi la febbre all’accusato e suggerisce di richiamare un’altra volta i medici per sentirne l’opinione. Intanto la causa può continuarsi. Dopo un tempo non breve, due dei sette medici, da’ quali era stato fatto il rapporto della mattina, appariscono nella sala accompagnati da cinque altri medici estranei. Si dà loro il giuramento, e dopo esaminato il paziente, rispondono: — «Che egli ha la febbre, e questa è in aumento.» Il Procurator Generale desidera sapere se il malato possa o non possa rimanere nella Corte per un’altra ora senza pericolo positivo. Si risponde: — «Che non ci sarebbe pericolo immediato, ma che è tale lo stato dell’infermo da non permettergli di più rimanere senza serio danno.» Ricevuta tale opinione, il Presidente dichiara chiusa la seduta. Questo accadde il 17 di giugno 1850; il 22 dello stesso mese Leipnecher era morto.
Lasciateci ora raccogliere qualche esempio dell’imparzialità della Corte o del suo religioso rispetto per la libertà della difesa.
Contro Poerio sta l’accusa sussidiaria che egli abbia combattuto furiosamente alle barricate il 15 maggio 1848. Domandò permesso di provare che fu trattenuto durante tutto quel giorno da’ suoi doveri di uffizio nel Consiglio dei Ministri, da dove accompagnò a casa l’attual Ministro della Guerra, brigadier Carascosa. Propose anche provare con testimoni ineccezionabili e con un documento di certa data, cioè un rapporto contro di lui scritto di carattere di Iervolino, ch’egli, Poerio, sapeva Iervolino essere un agente provocatore pagato, fin da quel tempo in cui si allegava Iervolino essere il suo confidente politico. La Corte rifiutò tutte e due le dimande di prova.
È accusato Pironti di aver ricevuto, verso la fine di ottobre 1848, una lettera piena di cose di alto tradimento alla sua propria residenza, Vico Ecce Homo, N. 9. Domanda provare di non esser tornato in Napoli da Santa Maria di Capua prima del 2 di novembre, e che soltanto dal 4 egli aveva posta la sua dimora in quella casa; ove, secondo l’accusa, la lettera eragli stata consegnata verso la fine di ottobre. È pronto a provare la sua asserzione colla testimonianza di quelli che trasportarono i suoi mobili, con quella de’ suoi compagni di abitazione, e con quella del padrone di casa. La Corte rigetta la domanda.
Bocchino (un granatiere nella Guardia Reale), testimonio nella procedura contro Cocozza, viene ascoltato. Benchè abbia la decorazione del Papa, il morale carattere di Bocchino non è uno dei più eccellenti. Risulta da certificati segnati dal Colonnello del suo reggimento, avere il testimonio sofferto per varie cause undici volte castighi, per avere abbandonato il posto, per furti, per insubordinazioni, e per attentato di rapimento; ch’egli è stato condannato due volte alle legnate, la prima a trenta, la seconda a sessanta. Quest’uomo depose d’aver portato una lettera di Mazza a Cocozza — ambedue nel numero degli accusati. Recatosi da Cocozza, gli consegnò in mano la lettera, e non sentì nulla di rivoluzione o di sètte; nè si ricorda di altro. Il Presidente ordina che sia letta la lunga e circostanziata dichiarazione scritta. A ciò si oppone il difensore di Cocozza, e con gran forza richiama che sia osservata la legge. Navarro gli ordina che non interrompa la Corte e si assida. Allora, bollente di indignazione, Settembrini si rizza e domanda di essere rimandato al carcere. Dice che vedendo ristretta anche quest’ombra di difesa, egli non vuole legittimare colla sua presenza tale continua violazione di ogni legge umana e divina. Navarro brontola alcune parole inarticolate, e ordina col ringhio di un mastino al Settembrini di tenere a sè la lingua. Pure Settembrini risponde con calore. Navarro ripete le minacce di farlo punire per quella temerità. Gli accusati allora si levano in piedi unanimi, e l’emozione generale è al colmo.
Ristabilita la quiete, Poerio s’alza, e dice la pubblica discussione essere il crogiuolo in cui la verità si purga; per il qual mezzo tutti i fatti raccolti nel processo preparatorio, incompleti, alterati, o esagerati, sono restituiti nella loro integrità, e per il qual mezzo tutti gli elementi spurii vengono eliminati. È pertanto logicamente indispensabile che ogni testimonio chiamato in pubblico Tribunale, racconti e ordini di per sè i fatti che sono a sua cognizione, e quando la sua dichiarazione orale non concordi pienamente colla deposizione scritta, è di assoluta necessità che le ritrattazioni, le variazioni, le reticenze e le esitanze del testimonio — in una parola, tutte le circostanze capaci di fornire un criterio della sua sincerità, siano minutamente registrate. Ove i testimoni, siano prodotti soltanto per dare un’asciutta conferma della loro dichiarazione scritta, allora il fine e lo scopo della legge è perduto; nè altro sarebbe la discussione pubblica che una scipita ripetizione dei precedenti esami privati.
Il difensore di Cocozza cita gli articoli 248, 249 e 251 del Codice di Procedura Penale, e presenta la conclusione: che un testimonio chiamato in pubblica seduta abbia a fare la sua deposizione verbale senza assistenza della deposizione scritta, e che ogni aggiunta, ritrattazione, o modificazione delle parole primitive, debba essere registrata nel processo verbale; e che dopo ciò soltanto, il Presidente possa riportarsi — se lo crede opportuno — alla dichiarazione scritta. Il Procurator Fiscale si oppone a queste domande, come insussistenti. La Gran Corte Criminale si ritira, e ritorna dopo un’ora colla decisione che tutte le giunte, ritrattazioni e modificazioni dei testimoni debbano essere esattamente scritte; ma dichiara pure che solo il Presidente è il miglior giudice dell’opportuna applicazione della regola. La Corte pertanto rigetta la domanda. Si riprende quindi l’esame del testimonio Bocchino; gli vien riletta la sua dichiarazione scritta, ed egli la ripete e conferma parola per parola.
Malacarne — anch’esso granatier della Guardia — altro testimone del processo, depone contro due degli accusati, Cocozza e Brancaccio. Cocozza, levandosi in piedi, protesta di non aver mai veduto quell’uomo in sua vita, e domanda che il testimone guardi a lui, e dica se riconosca lui, Cocozza. Il presidente Navarro fa segno al testimonio di volgersi intorno, e gli domanda se sia quel prigioniero in piedi il Cocozza. Il testimonio si rivolge, e indicando Cocozza, esclama: — «È desso in persona.» L’altro accusato Brancaccio invita il testimone a riconoscere anche lui; ma usa la precauzione di starsene seduto. Navarro, prima di concedere che la richiesta sia eseguita, ordina a Brancaccio di alzarsi in piedi. Ma questi osserva che se egli si leva in piedi, non v’ha il minimo dubbio che il testimone lo discernerà fra i suoi compagni di prigione. Navarro replica che non è permesso ad alcuno di star seduto mentre parla alla Corte e che pertanto non può ammettersi la verificazione, se il prigioniero non s’alzi.
Colanero, un altro granatiere e testimone del processo, depone di aver passato un giorno intero coll’accusato Colombo. Mazza, uno dei prigionieri, si alza, e a nome di Colombo, che rimane seduto, domanda che il testimonio riconosca la persona di Colombo. Navarro fa osservare a Mazza, non essere egli il portavoce di Colombo, il quale se aveva alcuna domanda a fare, s’aveva ad alzare. Mazza replica e osserva che se Colombo, il quale dev’essere identificato, si alzi, non ci può esser più dubbio quanto all’identità della sua persona. Domanda il difensore di Colombo, in nome del suo cliente, che il confronto sia fatto senza che il suo cliente si alzi. Il Procurator Generale sostiene che avendo il testimone indicato l’accusato col nome e cognome, cioè Salvatore Colombo, la domanda del difensore non poteva essere ammessa; sostiene che, secondo la legge, l’atto di confronto doveva aver luogo solamente quando la persona fosse in modo vago indicata. Osserva Poerio che il giorno innanzi si era seguito il sistema opposto — vedete il caso sopraccitato, — quando un testimonio, avendo designato Francesco Cocozza per nome e cognome, ciò nonostante il Presidente aveva autorizzato la sua identificazione. La Gran Corte Criminale si ritira, e dopo un’ora di deliberazione rigetta la domanda del difensor di Colombo.
Ora per la moralità di alcuni de’ più importanti testimoni del processo.
Spicca fra essi un Mauro Colella, uno de’ testimoni contro Poerio. Risulta dalla deposizione del prete Mingione, che questo Mauro Colella, l’anno scorso, stando a pranzo da lui nella settimana di Pasqua, gli aveva confidato che una denunzia — un’accusa falsa — doveva esser intentata contro il cognato di Imbriani, spiegandosi che alludeva a Carlo Poerio. Qualche tempo dopo, Colella, abitante in faccia al deponente Mingione, lo chiama da una delle finestre, e mettendo una mano sopra la punta del dito medio dell’altra con gesto significante — gli dice — «L’amico c’è capitato.» — «Chi?» domandò Minzione, e Colello rispose: — «Poerio;» aggiungendo: «Ora verrò disopra, e vi dirò tutto.» — Difatti andò in casa di Mingione, e narrato l’arresto di Poerio, disse che avevano ravvolto questo gentiluomo in una rete tale che ci avrebbe perduta infallibilmente la testa. E chiedendogli il Mingione qual cosa avesse indotto lui (Colella) a denunziar Poerio falsamente, gli rispose che l’aveva fatto perchè Poerio era stato Deputato e difensore della Nazione (sic), e avrebbe ucciso tutti se non si uccidesse lui; e anche perchè egli, Colella, aveva per ciò ricevuto promessa di un impiego di Polizia di dodici ducati al mese. Questa deposizione del prete Mingione, data con giuramento innanzi alla Gran Corte Criminale, è confermata e corroborata da quella della madre e della sorella di Mingione. Colella, secondo la fede di perquisizione — così si chiama il certificato relativo ai precedenti giudiziali di una persona — è stato processato per latrocinii commessi nel suo convento quand’era frate, per ispergiuri, truffe al giucco, per bestemmie, e stava ora in prigione per ratto violento.
Francesco Paladino — morto dippoi — testimonio nel processo contro Nisco, è notato nella sua fede di perquisizione, di trentadue delitti — monete false, banconote false, truffe al giuoco, estorsioni di danaro con false pretese, scrocchi, ecc.
Gennaro Fiorentino, altro testimonio del processo, ha sopra di sè otto accuse di latrocinii, spergiuri e frodi.
Antonio Marotta testimonio contro il prete Nardi, è notato nella sua fede di perquisizione per testimonianza falsa, e spergiuro in un processo politico contro il canonico Colamella, e sta attualmente sotto mandato di arresto della Gran Corte Criminale di Potenza, a dispetto della quale rimane pur libero. Quest’uomo è il vero bruto dei delatori. Denunziare il prete Nardi suo cugino era per lui una leggierezza; e l’aveva portata fino all’eroismo denunziando i due suoi fratelli. Se ne vanta come di cosa fatta in servizio del Re. I due infelici fratelli di Marotta, non potendo sopportar più a lungo il disonore recato ad una famiglia onorevole dalla infame condotta di lui, lo avevano cacciato di casa; ed egli, per vendicarsi, erasi fatto l’accusatore del sangue suo. Resta Iervolino, la chiave dell’arco dell’accusa contro Poerio, Settembrini e Nisco. Dedicheremo un capitolo intero alla deposizione di questo consumato furfante, e a varii incidenti cui diede luogo. Occuparono essi tutta la decimaquarta seduta della Corte, e nessun’altra seduta meglio di questa può dare un’idea più completa di tutta la procedura; nessuna metter meglio in rilievo l’iniquità dell’accusa affatto infondata, la nobile attitudine della difesa, la predeterminazione a condannare per parte dei Giudici3.
Note
- ↑ Gladstone, Two Lettres, ecc.
- ↑ Gladstone.
- ↑ Le particolarità contenute in questo e nel seguente capitolo, sono tratte in ristretto da una corrispondenza pubblicata in allora da un giornale di Torino, moderato e abilmente diretto, il Risorgimento. Fu l’unico giornale, per quanto sappiamo, che abbia data maggior pubblicità che per lui si potesse al processo contro Poerio e compagni. Il corrispondente era testimonio di vista coscienzioso; però è lecito confidare nella sua veracità.