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Væ victis. 311


La sua prima deposizione gli tu strappata colla minaccia di duecento colpi di bastone. Muro (un servo) fu tenuto cinque giorni affatto al bujo; e venendo condotto all’esame, un Tenente dell’esercito, suo conoscente, gli disse in aria compassionevole non esitasse a mettere il suo nome sotto qualunque carta che la Commissione gli avesse dato a segnare, altrimenti gliene andava la vita. Essendogli chiesto come ora sostenesse di non conoscer Pironti, mentre confrontato con esso lui la prima volta l’aveva riconosciuto immediatamente, Muro risponde avergli detto il Commissario anticipatamente di indicare a dito quell’uno dei quattro individui in fila, il quale non aveva baffi; ed egli aveva obbedito. Sersale (un mercante) aveva sostenuto un digiuno tanto prolungato, che la sua salute ne era irremediabilmente ruinata: debole la voce del prigioniero, che appena può reggersi in piedi. Anche sua moglie era stata tenuta cinque giorni in carcere a pane ed acqua, a fine di indurla col terrore a deporre della verità dell’accusa contro di lui. Cocozza (un curiale) segnò il suo interrogatorio senza leggerlo — condizione per essere traslocato da una orribile criminale; e fu richiesto dal Commissario di deporre che Nisco (uno de’ coaccusati) era il cassiere della setta dell’Unità Italiana. Caprio (un falegname) fu sollecitato dal Commissario in presenza del Capo delle carceri e del secondino, Carmine Bisogni, a denunziar Nisco, e dichiarare con giuramento che egli (Caprio) aveva ricevuto seimila ducati da questo gentiluomo per corrompere le truppe; e la libertà gli era promessa dal Commissario in seguito a queste delazioni. Ad Errichiello (padrone di un caffè) era stato offerto un impiego con dodici ducati al mese, se voleva secondare i disegni del Commissario. Dono (un chimico) non fu esaminato neppur una sola volta durante i dieci mesi della sua carcerazione.

Caraffa, dei duchi d’Andria, si leva a raccontare una mesta narrazione. Quando fu arrestato, sua madre era seriamente malata, e da quel tempo in poi non ne ebbe mai più notizie. Gli era stato dato anche ad intendere, che i suoi affini avevano tutti rinunziato a lui. Il signor Peccheneda, ministro di Gabinetto e direttore di Polizia, venuto a visitarlo in carcere, l’aveva assicurato che il suo affare sarebbesi facilmente accomodato, ove egli avesse voluto testimoniare sopra un dato punto contro il suo coaccusato Poerio. Sul rifiuto di Caraffa, il Ministro erasi licenziato con queste parole: — «Benissimo, signore, voi volete la vostra distruzione — e io vi abbandono al vostro destino!» Una notte lo sfortunato giovine era venuto meno e cadendo