Il clima sulle Alpi ha mutato in epoca storica?/6
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Conclusioni
I vari e molteplici elementi raccolti nei capitoli precedenti, debitamente vagliati nel loro intrinseco valore — anche prescindendo da quello più o meno probabile — ci sembrano di tale importanza da poter affermare che in epoca storica anteriore alla metà del XVI secolo:
1) il limite superiore del bosco è stato più elevato e il successivo abbassamento non è da imputarsi che in minima parte al fattore antropogeografico;
2) lo sviluppo della rete dei canali d’irrigazione fu più esteso e il successivo parziale o quasi totale abbandono dei medesimi non è da considerarsi come conseguenza d’una diminuzione o variazione dell’attività umana;
3) il transito attraverso gli elevati valichi alpini è stato più facile e quindi più frequentato ed il successivo abbandono non è stato provocato, essendosi verificato prima, dall’apertura delle grandi vie di comunicazione transalpine che ha mutato il carattere delle relazioni commerciali deviandone il relativo movimento;
4) i ghiacciai furono molto meno estesi perchè più elevato il limite climatico delle nevi persistenti; gli sviluppi delle masse glaciali del XVII, XVIII e XIX secolo, come dimostrano i relativi apparati morenici, furono i più grandi che si siano verificati in epoca storica: anzi si può aggiungere che furono i maggiori dopo il massimo ritiro post-dauniano.
Tali fatti naturali così concordanti fra di loro e tutti ugualmente di vasta portata ci permettono di concludere che il clima sulle Alpi anteriormente alla metà del XVI secolo fu più mite e più secco che nei secoli successivi. Dico «anteriormente alla metà del XVI secolo» sebbene si sappia che la prima massima espansione glaciale si sia verificata soltanto ai primissimi del XVII secolo, perchè — dato che il passaggio dal precedente periodo a clima caldo-asciutto a quello successivo freddo-umido non è certamente avvenuto in modo repentino ma per gradi, direi quasi in modo insensibile — è da presumersi quasi con certezza che prima del predetto massimo si siano avuti uno o due periodi trentennali durante le cui rispettive fasi progressive i ghiacciai ebbero già ad assumere progressivamente sempre un maggiore sviluppo.
Per quanto riguarda l’inizio approssimativo del precedente grande periodo a clima caldo-asciutto possiamo dire che esso ha durato certamente parecchi secoli e che vari elementi citati nei precedenti capitoli lo darebbero già iniziato nel XIII secolo. Comunque un dato in proposito si può avere per confronto.
Gli studi sulle oscillazioni dei ghiacciai attuali, principalmente quelle degli ultimi 150 anni, hanno dimostrato che esse si succedono con una certa regolarità. Sulla relativa durata della fase completa (comprendente le due oscillazioni positiva e negativa) non è stato ancora raggiunto l’accordo perfetto fra gli studiosi; ad ogni modo il periodo trentacinquennale del Bruckner [11] o di poco inferiore è quello che sembra il più verosimile.
Le ricerche da me condotte qualche anno fa sulle variazioni secolari del clima del Gran S. Bernardo [64] hanno dimostrata l’esistenza d’una relativa regolare successione di fasi di 33 anni, ognuna delle quali comprende: 1 periodo freddo-asciutto, 1 periodo caldo-asciutto, 1 periodo caldo-umido ed 1 periodo freddo-umido, con assoluta prevalenza del secondo e quarto periodo. In conseguenza ogni fase risulterebbe caratterizzata da un periodo caldo-asciutto (oscillazione negativa) ed un periodo freddo-umido (oscillazione positiva).
Ora i recenti studi sul contenuto in polline nei depositi torbosi, specialmente del Keller nel Vallese [41, 55], verrebbero pure a confermare una identica successione nelle variazioni climatiche del post-dauniano ed in modo particolare l’esistenza d’un interglaciale a clima caldo. E più precisamente dopo lo stadio d’arresto di Daun la temperatura sarebbe andata gradualmente elevandosi, pur mantenendosi molto bassa l’umidità, ossia si sarebbe determinato un periodo caldo-asciutto a clima prettamente continentale e con assoluta prevalenza del pino cembro.
Successivamente le precipitazioni andarono gradualmente aumentando mentre la temperatura ebbe a raggiungere il suo culmine. In questo periodo caldo-umido, caratterizzato dal prevalere degli abeti e particolarmente dell’abete rosso, i ghiacciai si ridussero di molto scomparendo del tutto sugli elevati valichi alpini come ad esempio al colle del Teodulo: mentre il limite altimetrico del bosco ebbe ad elevarsi dai 200 ai 400 metri.
Seguì un periodo freddo-umido a clima oceanico per il graduale aumentare delle precipitazioni e il contemporaneo diminuire della temperatura. In questo periodo prevalsero le piante a foglie larghe che avevano già assunto un largo sviluppo alla fine del precedente periodo.
L’ultima parte del ciclo, per quanto non ben definita, sarebbe stata caratterizzata da un ulteriore variazione climatica — probabilmente da un breve periodo freddo-asciutto tendente al caldo-asciutto non chiaramente definito come nelle oscillazioni trentennali — con una sensibile ripresa nella diffusione dei pini.
Come si vede la concordanza nelle varie caratteristiche dei diversi periodi post-dauniani con quelli più brevi delle oscillazioni trentennali non potrebbe invero essere più perfetta.
Da questi studi sul polline dei depositi torbosi risulta poi particolarmente interessante il fatto che il periodo post-dauniano a clima caldo fu caratterizzato da un grande sviluppo degli abeti con un notevole innalzamento del limite superiore del bosco. Per analogia dovremo di conseguenza dedurre che l’abete rosso da me trovato al Ghiacciaio Grande di Verra verrebbe a comprovare sempre più, come dicemmo, che il clima anteriormente alla metà del XVI secolo fu più caldo e più elevato il relativo limite superiore del bosco.
Ciò premesso si può quindi ritenere che anche nel periodo storico le grandi oscillazioni di maggiore entità, della durata di parecchi secoli, abbiano pure presentato una certa regolarità di successione come le oscillazioni trentennali.
Il grande sviluppo glaciale iniziatosi verso la metà del XVI secolo ha perdurato per oltre la metà del XIX. Il determinare però il suo probabile termine è una cosa un po’ difficile anche per la ragione che il passaggio sarà graduale. Ad ogni modo crediamo ch’esso volga verso la fine. E ciò per diverse considerazioni: in primo luogo perchè i ghiacciai attualmente — dopo gli enormi regressi subìti alla fine del secolo scorso ma in particolare modo per la grande riduzione di quest’ultimo quindicennio — presentano le proprie fronti così arretrate come non si era mai verificato dalla metà del XVI secolo in poi. Inoltre per la quasi universale constatazione fatta dai montanari — per usare la frase da essi adoperata — che «l’alpe va seccandosi», ossia che i pascoli estivi non dànno più l’ugual rendimento del passato. Così il pascolo di un alpe che in passato era sufficiente per tenere tutta l'estate 60-65 capi di bestiame, da oltre un quarantennio è andato impoverendosi tanto che al presente l’alpe non può più tenere che circa la metà, senza che ciò possa comunque attribuirsi ad una diminuita cura nella manutenzione dell’alpe. Ed in conseguenza va facendosi sempre più sentire la necessità dell’irrigazione e, dove non è possibile, del ripristino degli antichi canali.
Questa osservazione dei nostri montanari troverebbe in certo qual modo una conferma nella sensibile differenza fra le quantità delle precipitazioni che sono cadute nella prima metà del secolo scorso e quella negli anni successivi fino a tutt’oggi.
Ammessa quindi la possibilità che il grande periodo freddo-umido stia per giungere al suo termine, la relativa durata sarebbe stata di circa 400 anni e per conseguenza se, come pare, vi è stata una certa regolarità di alternanza e di durata, anche nei grandi periodi secolari come in quelli trentennali, il grande periodo caldo-asciutto precedente alla metà del XVI secolo avrebbe dovuto iniziarsi verso la metà del XIII e probabilmente anche prima. Osiamo credere di non essere molto lontani dal vero.
Tale supposizione infatti potrebbe trovare una indiretta conferma dalla considerazione che le emigrazioni tedesche dall’alto Vallese nelle varie direzioni talora anche attraverso elevati valichi, come quella nella valle di Gressoney (= das Krämerthal) attraverso il Monrosa, datano appunto dal XIII secolo.
Due fatti meriterebbero ancora di essere chiariti e conosciuti: ossia di quanto fosse in media più elevata la temperatura e minori le precipitazioni nel periodo anteriore alla metà del XVI secolo e di quanto fosse più elevato allora il limite inferiore del nevato e per conseguenza il limite superiore del bosco e della vita vegetativa in genere.
Anche a questo proposito non possiamo procedere che per confronti. Dalle citate ricerche da me condotte sulle variazioni del ghiacciaio del Lys e della temperatura e delle precipitazioni al Gran S. Bernardo per il periodo di 113 anni, è risultato che la temperatura dei periodi caldo-asciutti si mantiene di pochi decimi al di sopra della normale, ed un po’ di più, talora anche di mezzo grado, al di sotto della medesima nei periodi freddo-umidi; mentre la differenza netta quantità delle precipitazioni fra i due periodi si aggira su una media annuale di circa 300 mm.
In linea approssimativa si può ritenere che valori (beninteso medi) in più e in meno dello stesso ordine di grandezza, e quasi certamente non superiori, siano stati sufficienti per determinare le sensibili differenze climatiche intercorse fra il periodo anteriore alla metà del XVI secolo e quello successivo.
Per quanto riguarda il limite inferiore del nevato diremo che, in base alle sopracitate ricerche sul ghiacciaio del Lys, tale avrebbe subìto tra i due massimi del 1821 e del 1921, un innalzamento medio di 70 m., valore press’a poco uguale a quello trovato dal Castiglioni [13] per il ghiacciaio del Malavalle. Invece il dislivello assoluto tra le rispettive altitudini degli estremi linguali, nei predetti due massimi risultò precisamente di 160 m.
Sollevamenti sensibilmente superiori debbono aver caratterizzato il periodo anteriore alla metà del XVI secolo. Abbiamo già veduto che il limite superiore del bosco dovette essere più elevato non meno di 300 m. Tale valore deve considerarsi come un minimo assoluto perchè si ha ragione di credere che in realtà il limite climatico sia stato ancor più elevato.
Naturalmente ammettendo dei sollevamenti di un così elevato ordine di grandezza ne conseguirebbe che ad esempio i ghiaccia avrebbero presentato rispetto al presente una riduzione tale da rimanere perplessi. Eppure una così forte riduzione non deve stupire nè dev’essere punto giudicata come un’ipotesi da relegarsi fra le leggende come si usa fare delle tradizioni dei nostri montanari, se si pensa che alcuni ghiacciai dell’Islanda nel solo periodo dal 1844 al 1915, ossia nel corso di poco più di 70 anni, hanno ridotta la loro superficie di 300-400 chilometri quadrati!
Il prof. Keilhack [54] ha potuto stabilire in base a successivi rilievi che la riduzione del ghiacciaio di Glama, il quale nel 1844 aveva una superficie di 410 kmq. «è giunta al punto che il vertice culminante di quota 920 e rimasto spoglio di ghiaccio o neve; intorno ad esso, ultimi avanzi dei 400 kmq. di ghiaccio stanno cinque piccole accumulazioni di neve, meglio nevati che ghiacciai» [67].
È bene tener presente che tale enorme riduzione ha potuto manifestarsi perchè si tratta di ghiacciai di pianoro senza notevoli differenze altimetriche e quindi la diminuzione ha avuto luogo quasi contemporaneamente su tutta la superficie.
Ciò nondimeno in confronto a questa enorme riduzione dei ghiacciai dell’Islanda, l’estensione alla quale si dovrebbero considerare ridotti i nostri ghiacciai nel Medio-evo rispetto al presente, sarebbe molto meno forte perchè attraverso gli elevati valichi ora ghiacciati avessero potuto sussistere quelle strade di comunicazione, relativamente facili volute dalle tradizioni.
In proposito ci sembra molto esatta e di grande valore l’osservazione fatta dal Mougin [60] nell’esaminare le distruzioni di interi villaggi e di ampie zone coltivate che erano state provocate dai progressi dei ghiacciai del bacino di Chamonix nel XVII secolo. Dice il Mougin «la présence des deux villages sur des terrains aussi accessibles aux eaux de l’Avre et de ses affluents de gauche démontre bien qu’avant le XVII siècle il s’était écoulé une longue série d’années où on n’avait pas observé de telles divagations torrentielles; peu à peu les habitants s’étaient emparés des alluvions en plaine, s’y étaient installés à demeure jusqu’au jour où les flots, reprenant leur domaine, vinrent les en chasser. Il semble donc qu’on puisse conclure avec quelque vraisemblanche qu’au XVI siècle, au moins, les appareils glaciaires de la vallée de Chamonix n’ont eu qu’un très faibles développement».
Una conferma indiretta che anteriormente al XVI secolo le condizioni climatiche fossero sensibilmente diverse da quelle attuali e che per conseguenza anche lo sviluppo dei ghiacciai sulle Alpi risultasse alquanto minore, si può pure trarre fuori dell’ambiente alpino e precisamente dalle variazioni di livello del mare.
È ormai ammesso che l’espansione glaciale quaternaria ha notevolmente abbassato il livello marino perchè una grande quantità d’acqua venne sottratta alla massa oceanica e fissata sotto forma di ghiacciai a coprire estese superfici continentali.
Le variazioni del livello marino per il formarsi e per il successivo sciogliersi dei ghiacciai quaternari sarebbero state, a seconda della valutazione dei diversi autori sullo spessore delle calotte glaciali, da un minimo di 50-60 metri (Daly) ad un massimo di 600 (Croll) [70].
Tali variazioni ci vengono comprovate dall’esistenza lungo le coste d’una piattaforma sommersa a dolce inclinazione fino ad una profondità di circa 100 metri, con manifeste traccie d’una idrografia subarea come è stato rilevato, in base alle carte delle isobate, dal Molengraaff per la piattaforma che unisce la penisola di Malacca e Sumatra a Borneo: dal De Marchi per il bacino dell’Alto Adriatico [22] e dall’Issel per il golfo di Genova [68].
Il problema di questi spostamenti delle linee di spiaggia trova nelle variazioni di livello del mare per effetto delle oscillazioni glaciali una spiegazione più spontanea e persuasiva che non nei movimenti reali delle terre emerse.
Ciò premesso esaminiamo le vicende del Serapeo a Pozzuoli chiamato comunemente tempio di Serapide e che dai geologi è considerato come uno dei casi più tipici di bradisismi recenti con carattere di inversione nel movimento. È noto che le tre colonne principali mostrano nella parte centrale una zona erosa e perforata dai litodomi, mentre la parte inferiore e superiore sono quasi lisce ed intatte. L’edifico costruito certamente fuori d’acqua nel terzo secolo dell’era volgare, venne in seguito nel Medio-evo a trovarsi sott’acqua e le relative colonne ricoperte fino a m. 3,60 d’altezza da fanghi marini e da ceneri eruttate dai vicini vulcani, mentre altri metri 2,10 rimasero nell’acqua libera del mare che le corrodeva insieme ai litodomi; soltanto le estremità delle colonne erano fuori d’acqua. L’immersione dovette durare fino al principio del XVI secolo allorchè s’inizio il movimento inverso che portò nel 1750 al disseppellimento dell’intero edifico. Sul principio del secolo scorso cominciò un nuovo periodo di immersione dimodochè nel 1819 il pavimento del fondo si trovava di nuovo a livello del mare ad alta marea. Da allora il livello del mare andò gradatamente innalzandosi — movimento che continua tuttora — con una progressione annuale, secondo il De Lorenzo — di cm. 1,5 [21].
Per quanto i geologi siano concordi nell’attribuire il fenomeno a lenti movimenti di bradisismo, tuttavia non possiamo fare a meno di rilevare la singolare coincidenza dei predetti periodi di emersione e di sommersione del Serapeo con quelli delle oscillazioni dei ghiacciai alpini durante i passati secoli.
Infatti la prima sommersione, che durò parecchi secoli, si verificò precisamente nel Medio-evo allorchè lo sviluppo dei ghiacciai alpini risultò oltremodo ridotto. La successiva emersione iniziatasi nel XVI secolo ebbe pure a coincidere coll’aumento delle masse glaciali sulle Alpi. La nuova sommersione che perdura tuttora come il regresso dei ghiacciai alpini, cominciò un po’ prima dell’inizio della diminuzione di questi.
Quest’ultima mancata coincidenza nell’inizio dei due fenomeni e quasi certamente soltanto apparente, poichè le variazioni dell’attuate livello del mare non dipendono che in minima parte dai ghiacciai alpini, ma sopratutto dalle oscillazioni dei ghiacci dell’Artide e dell’Antartide che d’altra parte ci sono poco note. Nulla esclude quindi che la diminuzione di questi ghiacciai polari si sia iniziata prima di quella dei ghiacciai alpini e per conseguenza contemporaneamente alla nuova sommersione della costa partenopea.
Per quanto l’ipotesi dei bradisismi si presenti molto semplice, ad ogni modo questo continuo movimento ad altalena ci sembra un po’ troppo comodo per spiegare un fenomeno avente dei caratteri di così regolare andamento. La spiegazione che se ne può dare in base alle oscillazioni di livello del mare per effetto delle variazioni periodiche dei ghiacciai, appare non solo più persuasiva, ma anche più fondata.
Dico «fondata» perchè le variazioni di livello del mare sono state talmente proporzionali a quelle dello sviluppo dei ghiacciai che la relativa concordanza non potrebbe in verità essere più perfetta. Vediamo infatti che:
a) al più elevato livello del mare del periodo anteriore al XVI secolo corrispose il minimo sviluppo dei ghiacciai;
b) al più basso livello del mare della fine del XVIII secolo, corrispose il maggiore sviluppo dei ghiacciai;
c) all’attuale livello del mare intermedio fra i due precedenti, ma più prossimo al minimo della fine del XVIII secolo, corrisponde pure uno sviluppo glaciale intermedio, però più prossimo a quello del principio del XIX secolo.
Ammessa quindi che esista una corrispondenza fra le oscillazioni glaciali e le variazioni di livello del mare, la sopracitata sommersione delle colonne del Serapeo durante il Medio-evo sarebbe non solo una nuova prova ma, diremo quasi, la conferma più sicura della grande riduzione delle masse glaciali delle Alpi anteriormente al XVI secolo1.
Un’altra considerazione credo ancora opportuno di dover fare. È bensì vero che principalmente nell’ultimo cinquantennio, per quanto i ghiacciai siano andati arretrandosi, si è verificato un enorme abbassamento del limite altimetrico delle abitazioni permanenti per un fenomeno complesso collegato allo spopolamento montano. D’altra parte però non riteniamo che l’abbandono dei villaggi del Breuil nell’alta Valtournenche e di Prarayé nell’alta Valpelline possa imputarsi alle medesime cause, perchè il loro abbandono era avvenuto già al principio del XVII secolo ossia in un’epoca in cui si ebbe un vero incremento demografico anzichè uno spopolamento. Riteniamo che la causa del loro abbandono sia da ricercarsi nel peggioramento delle condizioni climatiche. Scrive l’abate Henry a proposito del villaggio di Prarayé [66]: «Si en 1600 il y avait encore 18 familles, il y en aura eu certainement de plus en 1500, 1400 et 1300. Pour vivre, ces familles avaint surtout besoin du blé et de froment (le foin ne manquait pas). Or, en récoltait principalment ce blé et ce froment sur les pentes ensoleillées de Pramontjoux où on voit encore aujourd’hui sur le terrain toutes les traces des champs avec leurs murs de soutènement. A ce Pramontjoux (2100 m.) au couchant et au dessous de Prarayé, chantait même gaiement un moulin, puissant l’eau au torrent d’Oren. La présence d’un moulin à Prarayé indique que la céréaliculture y était assez étendue. Il est parlé de ce moulin dans une Reconnaissance du 11 mai 1499: les feudatares de Prarayé passent reconnaissance de ce moulin à leur Seigneur de Quart en ces termes «recognoverunt tenere in feudum rivagium unius molendini levandum in torrente de Oreyn ad conducendum quo voluerrint infra limites et pertinacias Prati Rayer cum aliis artificiis ipsius molendini et suis conductibus».
Anche al presente pur in un periodo di così profondo regresso glaciale, sarebbe un’impresa non facile ad attuarsi il far maturare della segala e del frumento in quella regione ed in quantità sufficiente per mantenere per tutto l’anno 18 famiglie e più. Logicamente le condizioni del clima dovevano essere molto migliori e per conseguenza molto arretrati i ghiacciai.
E tali condizioni di clima migliori dovettero già perdurare da molto tempo se i grandi progressi del XVII e del XIX secolo ebbero ad abbattere antichi villaggi e secolari boschi. Anzi in base ad alcune interessanti osservazioni fatte da Klein e riportate dal Kinzl (ope. cit., pag. 372) ci permettono di andare ancora più in là.
Nelle immediate vicinanze di molti ghiacciai, e precisamente ai bordi esterni dei depositi morenici, si trovano degli antichissimi boschi di larice e di pino cembro. Così il Klein in base ai cerchi di crescita annuale ha trovato nella regione del ghiacciaio di Findelen nella valle del Visp un pino cembro di 1200 anni, ed un altro di 750, nonchè un larice di 500 anni. Ora tutto ciò viene a confermarci, come avevamo già detto, che lo sviluppo glaciale dal XVII al XIX secolo fu non solo il maggiore che si sia verificato in epoca storica ma bensì anche di ogni altra oscillazione succedutasi dopo il ritiro post-dauniano. Aggiungeremo ancora — essendosi le relative oscillazioni manifestate entro limiti molto ristretti — che detto sviluppo corrisponderebbe ad un vero stadio d’arresto, il primo dopo quello dauniano.
E se è vero, come pare venire confermato dai recenti studi sul contenuto in polline dei depositi torbosi [41, 55] che dopo il massimo ritiro post-dauniano si ebbe un interglaciale a clima caldo seguito da un periodo freddo sensibilmente uguale a quello attuale, vien naturale di porsi la domanda se la glaciazione dal 17º al 19º secolo rappresenta il primo stadio di una nuova fase glaciale e se per conseguenza il nuovo periodo caldo che succederà, sarà più pronunziato o meno di quello verificatosi nel predetto interglaciale post-dauniano.
- D’Ejola in Gressoney la Trinité, maggio 1936-XIV.
Umberto Mònterin.
Note
- ↑ Non è da escludersi che le malsane condizioni di vita di cui tratta il prof. Gellio Cassi nella sua opera «Terraferma, lagune ed isole venete nell’Alto Medioevo» (vedasi la recensione nel Bollettino della Reale Società Geografica Italiana, n. 9, 1936) siano state una conseguenza dell’innalzamento del livello del mare per effetto della diminuzione delle masse glaciali, tantopiù essendosi quelle iniziate verso il XIII secolo e perdurando ancora nel XVI come avvenne per Aquileia. «Del resto la più superficiale osservazione al complesso delle isole venete ci mostra che anche oggidì all’evidenza come alcune di esse, che un tempo godettero fama e splendore, ora sono quasi del tutto abbandonate, e taluna è anche od in tutto od in parte, scomparsa. Nel tempo stesso non può colpire il fenomeno, svoltosi in un lungo periodo di tempo, quello cioè dell’accentramento di gran parte della popolazione lagunare a Rialto, ossia nei punto di mezzo della Laguna, in uno spazio relativamente ristretto: fenomeno che muta radicalmente il sistema economico-portuale dell’età romana, che consisteva nel distribuire le attività in un numero grandissimo di centri commerciali, sparsi sulle rive del mare o lungo i fiumi più navigabili, e non come avvenne nel Medio-Evo, nel concentrare i traffici, insieme alla vita politica in un unico luogo» probabilmente perchè più rilevata. Altre attestazioni in proposito permettono di concludere «che quel complesso di fenomeni fisici che si abbatterono sulla terraferma, specialmente sulla parte vicina al mare, venne successivamente a colpire anche le isole particolarmente quelle prossime alla zona marittima-terrestre, della quale finirono col dividere la triste sorte».