Il cedro del Libano/Via cupa
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VIA CUPA
Quando si venne a vedere il terreno sul quale doveva sorgere questa nostra casa, su per i ruderi di un viale ancora assiepato di bossi fioriti di calcinacci, fino all’antico cancello che pareva un viso di vecchia dama ancora nobile e austero, con lo stemma e una coroncina di merli e due palle dorate che gli facevano diadema, ma il tutto già devastato dal tempo e dai colpi dei muratori, una bella comitiva di illusioni ci si fece tuttavia incontro, nella limpida mattina di aprile. Il luogo si ostinava a conservare la sua gaudente beatitudine: era stato per molti anni, col suo giardino movimentato, coi viali di pini e querce, con la villa rossa tutta scalini e finestre irregolari, il soggiorno di un cardinale, che vi si era ritirato sdegnosamente dopo il Settanta, ma continuando a combinare feste e ritrovi estrosi di nobili uomini e dame dell’aristocrazia pontificia.
Una quercia cresceva su un piccolo poggio in fondo; e dalla cima di questo romantico belvedere si godeva la distesa dei ciglioni circostanti, azzurri di rugiada; via, fino alla linea dei Monti Albani.
Dunque, ci si illuse che la casetta potesse sorgere su questo poggetto, con la quercia a fianco; e che la villa secolare, la vaccheria primitiva dietro il nostro recinto, con la sua tettoia e i sambuchi intorno, e soprattutto il sentiero incassato fra il muro del giardino e un rialto incoronato di quercioli e di un maestoso platano fremente di foglioline nuove e di uccelli, restassero tali, duraturi, come in una stampa del Piranesi. Ma a cacciar via le graziose provinciali speranze, venne su, zoppicando e ansando, il grosso impresario della Cooperativa per il nuovo quartiere. Stese la mano grassoccia, inanellata, e con un solo gesto, molle e benevolo, cancellò il paesaggio:
— Qui va tutto spianato; qui è la zona dei villini; là delle casette a schiera. Per un po’ di tempo resterà la via Cupa, perchè abbiamo una divergenza col Municipio; ma sparirà anche quella.
Per consolarci si andò ad esplorare la via Cupa, che era il sentiero fra il muro e il rialto delle querce; tutt’altro che cupo: il sole vi spandeva una luce tiepida e rosea, di fiamma discreta: e c’era come un odore e un’atmosfera di bosco, di fiume vicino. Rampicanti sempre verdi ricoprivano le coste del ciglione, e le ombre dei quercioli si affacciavano, in alto, spiando il nostro incantato procedere; ma pareva che il luogo fosse abituato a questo modo di camminare delle coppie felici, perchè le lucertole ci sfioravano i piedi senza spaventarsi, e un gatto nero con un curioso musetto di gufo, appollaiato in una nicchia soleggiata del ciglio, aprì solo un occhio per fissarci quasi insolente.
La spiegazione ce la diede il vecchissimo vaccaro, che appunto come una figura di altri tempi, fra di buttero e di eremita, ci apparve sullo sbocco della sua proprietà, in un cancelletto di canne ornato di sambuchi: era accigliato, e domandò dapprima se lo avrebbero cacciato via presto dal suo regno.
— Capirai, signore, — disse a mio marito, — sono qui da cinquanta anni; ho veduto il Papa passeggiare nel giardino, col cardinale e altri preti: scherzavano come ragazzi. Nessuno mi ha mai molestato. Questa strada, può dirsi, è stata sempre mia, perchè ci passavano, e ancora ci passano gli uomini con le loro amorose: voglio dire quelli che non vogliono esser veduti a fare all’amore. Una volta ci ho visto anche una signora nobile e ricca sfondata con un damerino spiantato di quelli che andavano a mangiare e suonare nella villa. Ma nessuno mi dava fastidio: anzi mi ci divertivo, a sentirli parlare: e spesso litigavano, anche, e correvano botte: qualche coppia veniva a chiedere un boccale di latte; e lo pagava il doppio: si capisce, sì.
Egli affermava questo suo piccolo vantaggio come una cosa dovutagli. Per confortarlo si entrò a bere una tazza di latte, appena munto; anzi egli, poichè la vaccheria restò alcun tempo anche dopo la costruzione della casa, fu il nostro onesto e sincero lattaio.
Rimase, finchè la vertenza fra il Municipio e l’impresa del nuovo quartiere, a proposito della via Cupa, non fu risolta. Intanto la quercia, il poggio, il viale con le siepi di bossi, tutto era stato cancellato dalla mano molle e inanellata che pareva lo facesse solo con pochi tratti di lapis. Fra mucchi di mattoni e vasche di calce bollente sorgevano le nuove casette: oh, come brutte e tristi quelle a schiera, vecchie prima di nascere: accanto al loro grigiore, i piccoli villini, con le torrette pretensiose e le terrazze di cemento, sembravano castelli.
Nello scavo delle fondamenta della nostra, i bambini buttarono, per il buon augurio, alcune monete di rame: il più piccolo anche dei fiori: la madre vi fece su, come aveva veduto al suo paese, un segno di croce: e la casa fiorì e fu benedetta.
Poi, un giorno, si sentì un allarmante fracasso, come di una soldatesca che atterra le mura di una città assediata: era l’antico cancello che veniva abbattuto. E i nuovi abitanti, scesi dalla grande città, presero possesso del quartiere.
Rimase lui, finchè rimase la via Cupa. Era utile, perchè ci dava il latte sincero; ma l’odore della stalla disturbava i vicini: quindi proteste e sollecitazioni: e col suo destino fu segnato quello della strada degli amanti. Di giorno, le coppie si erano diradate, poichè la solitudine più non le proteggeva: di sera, però, dai ruderi del muro del giardino, si sentivano ancora bisbigli, sospiri, paroline dolci e parolacce amare: e furono anche imprecazioni quando si trovò sbarrato l’imbocco del sacro sentiero, e parve agli amanti che anche il loro amore fosse minacciato di distruzione.
Questo arrivare delle coppie, e tornarsene indietro deluse, durò alcun tempo: tanto che, nelle belle e complici sere di estate, ci si divertiva ad aspettarle; e i ragazzi, già smaliziati e partecipi al fatto, le perseguitavano coi loro fischi. Sgombrati gli avanzi del muro, appianato il terreno, questo fu assegnato a noi: e sorse un altro muricciolo, con relativa cancellata; rimase il ciglione e sul ciglione i quercioli che ancora si sporgevano a guardare mandando in giù le loro ombre oramai inutili, e melanconiche anche, nelle sere di luna, quando già le coppie non venivano più neppure all’angolo della nuova strada.
Eppure qualche cosa di loro deve essere rimasta nell’atmosfera del luogo, poichè, senza contare le foglie rosse ardenti dei rampicanti della cancellata, che l’autunno fa cadere come cuori morti, un campo di tennis è sorto sul terreno del ciglione spianato; e giovani coppie, ardimentose e spregiudicate, in piena gloria di sole, vi intrecciano il gioco delle racchette e dell’amore.
Gli uomini anziani, ed anche qualche signora affaccendata, con una spazzola o l’ago in mano, guardano il campo dall’alto delle logge di ferro, seguendo con svago piacevole e quasi protettore il volo dei bei giocatori, che ricorda quello delle rondini marine sulle spiaggie solitarie; e pensano che anche per essi, i giovani, il tempo passa e un giorno chiuderà lo sbocco delle strade d’amore. Ma intanto... Intanto, da una loggia che gode la completa visione della strada nuova e del campo attiguo, un vecchio signore da poco tornato dall’America del Sud, con molti quattrini e un diamante al dito, guarda con occhi melanconici e beffardi il nuovo paesaggio, e racconta che un tempo anche lui frequentava la villa del cardinale e partecipava alle feste nel giardino di querce, di pini e di rose.
— C’era un viottolo, qui sotto, incassato fra il muro e un ciglione erboso: pareva il sentiero di un bosco: lo chiamavano via Cupa, per la sua ombra profumata di mentuccia: tante volte ci sono passato anch’io. E, dico la verità, adesso, al mio ritorno, giorni fa, mi sono spinto fin quaggiù, con l’illusione che il luogo fosse ancora quello. Si viaggia il mondo, cara signora, si cambia stato e fortuna, si diventa vecchi, eppure, in fondo, si rimane sempre ragazzi.
Egli, discretamente, non dice se nelle passeggiate per via Cupa lo accompagnava una donna, forse di quelle leggiadre e grottescamente eleganti, che frequentavano la villa e il giardino del cardinale; forse quella ricordata dal vaccaro. Ma con la mano ancora fina, sebbene inguantata di rughe, fa un segno simile a quello della manaccia dell’impresario, cancellando il panorama del passato.