Il cedro del Libano/Medicina popolare
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MEDICINA POPOLARE
Ricordo sempre le visite che si facevano a comare Marghitta, nel suo antro quasi sibillino in fondo ad uno dei vicoli più stretti, tortuosi, pietrosi e pittoreschi della nostra piccola città. Comare Marghitta era una specie di medichessa, diciamo pure di fattucchiera; ma non lavorava se non sicura di fare opera innocua ed anzi giovevole alla sua clientela: e non accettava denari, sebbene povera tanto da non avere scarpe, da non avere di che coprirsi d’inverno; ed era malaticcia, cerea, asmatica. Il suo primo dovere sarebbe stato quello di curarsi lei; eppure il suo stesso aspetto di vecchia fata travestita da mendicante per meglio provare il cuore della gente; e l’ambiente adatto alla sua figura, lo sfondo ove questa si delineava come in una illustrazione pubblicitaria, le giovavano a meraviglia.
Veniva gente di lontano, a consultarla; e sapendo che non accettava monete nè oggetti di vestiario, le portavano roba da mangiare, anche dolci, anche vasetti di miele e di vino cotto; carne no, perchè non ne voleva.
E noi dunque si andò, una prima volta, a consultarla per una presunta malattia della piccola nostra amica Giulietta: la tenevamo una per mano, io e un’altra amica, la bionda Giulietta tremante e paurosa; ma si andava allegramente in compagnia, inciampando fra i ciottoli del vicolo, come su un sentiero di montagna; e si esitò, davanti alla porticina nera, in fondo, alta su due alti gradini di pietra corrosi e umidi; ma quando la donna apparve, sullo sfondo dell’antro, alta, scalza, con un grande fazzoletto nel cui cerchio il viso giallo pareva si affacciasse dalla feritoia di una torre, ogni timore dileguò: poichè i suoi occhi erano azzurri e dolci, e ci sorridevano, da una profondità luminosa, come quelli di una bambina felice. Nonostante la nostra curiosità alquanto morbosa, non ci lasciò entrare in casa: sedette sugli scalini, tirandosi la vecchia gonna di orbace sui grossi piedi che avevano come una suola di cuoio, e ci fissò in silenzio. Poi disse, con voce bassa e allegra: — Voi siete venute per divertivi: è giusto, è giusto: è la vostra età. Che mi avete portato di buono?
Le avevamo portato, legate in un fazzoletto da naso, noci e nocciole.
Ella le guardò, ma non mosse le mani, che aveva nascoste sul grembo entro le spaccature della gonna: e di nuovo ci sorrise, come a compagne di giuoco.
— Io non ho denti, per spezzarle: mangiatele voi, — disse, — e andate in pace.
Ce ne andiamo, mortificate e felici: allo sbocco del viottolo ci si presenta una coppia di paesani di un lontano villaggio; la donna è giovanissima, vestita bene, con ricami colorati intorno al corsetto e al grembiale di panno; ma è sottile e un po’ curva, col viso che sembra una miniatura di avorio e gli occhi frangiati d’ombra: l’uomo pare il suo servo, alto e squadrato, con un viso barbuto di guerriero fenicio. Posa la grossa mano pelosa sulla spalla della fanciulla e sembra spingerla per aiutarla a camminare. Giulietta, la nostra finta malata apre la bocca per la meraviglia.
— Sono i nostri ospiti, padre e figlia, — dice, — sono parenti della nostra serva.
Così, per suo mezzo, più tardi si seppe che quei due erano venuti di lontano per consultare la brava Marghitta la quale aveva consigliato all’uomo, povero pastore di porci, che viveva tutto l’anno in un bosco di lecci in cima alla montagna, di condurre con sè la figlia già toccata ai polmoni, e farla vivere lassù. Per maggior scrupolo aveva versato in un bicchiere di acqua alcune gocce di un liquido magico, che, salite a galla, confermavano la sua ricetta.
Lassù, lassù, nella capanna del porcaro fra gli elci sempre verdi; lassù, anche nei tempi di vento, di freddo, di neve. Nessuno, neppure il padre, credeva efficace questa cura; eppure, in primavera, egli tentò. E la fanciulla rifiorì, come i ciclamini del bosco riprese colore; come le ghiandaie in cima agli elci, ritornò allegra e vivace. Così, anni ed anni prima che la scienza indicasse la cura della montagna per i tisici, la vecchia Marghitta aveva fatto il miracolo.
Se ne raccontano altri; di paralitici che, al suo comando, dopo pazienti fregagioni di balsami composti da lei, muovevano almeno le mani e si facevano il segno della croce; di bambini che, tardando a parlare, dopo certi suoi scongiuri e beveraggi pronunciavano il nome di mamma; di malati di otite che con gocce di latte spremute dalle mammelle di una giovine madre dopo il suo primo parto, guarivano quasi immediatamente; e casi di congiuntivite, guariti con l’alito di una gemella, dopo che ha masticato la ruta; e febbri di malaria troncate con polverine vegetali e gli immancabili scongiuri contro il demonio: poichè è sempre lo spirito maligno quello che procura il dolore all’uomo; se pure non si impossessa di lui, cacciandosi nelle sue viscere col verme solitario, con le infezioni, coi tumori e il mal di fegato; e, peggio ancora, con le idee fisse e deliranti. A tutto la donna trovava rimedio, facendo concorrenza persino ai sacerdoti per gli esorcismi permessi dalla Chiesa: e quando non arrivava a sollevare i malati con le sue erbe, le sue gocce, i suoi cataplasmi, per lo più di malva, di ortica, di giusquiamo e di altre erbe medicinali ritentava con gli amuleti, il sale e le pietre; ricorreva alle preghiere, e soprattutto le ordinava ai suoi clienti: il tale santo per la tale malattia, la tale santa per i casi più gravi; la Madonna, stella sopra tutte le stelle, sorriso di gioia che allieta anche il pensiero della morte, faro inestinguibile nel porto dove anche i ciechi ne vedono lo splendore, ultimo farmaco per le malattie senza più speranza.
E così, i preti brontolavano contro la donna, minacciandola di scomunica; ma le persone che ricorrevano a lei uscivano dal suo antro come da un tempio, con un senso di sollievo straordinario.
Ella aveva certamente, a sua insaputa, un potere di suggestione efficacissimo per gli spiriti semplici che si rivolgevano a lei: ma quello che le creava maggior credito era la sua stessa semplicità, la sua miseria permanente, il suo modo di fare materno e convinto. Era una donna in fondo sana e normale; certi suoi rimedi tradizionali risalivano ai primi tentativi dell’uomo sofferente che, come gli animali, dopo aver per istinto cercato le erbe, le acque, i semi e i frutti medicamentosi, si rivolse alla divinità e si sentì lenire il male con la sola speranza di una vita di là dove il male muore col nostro miserabile corpo.
Una volta, sul finire dell’estate, scoppiò un memorabile temporale, di quelli dei quali si dice: «A memoria d’uomo non si ricorda l’eguale». La terra tremò come per il terremoto, e il vento mugolò peggio di un mostro; ma il disastro maggiore fu la grandine, d’uno strano colore grigiastro; parevano ciottoli, lanciati da monelli infernali: tutti i vetri delle nostre finestre non riparate da persiane andarono in schegge; una servetta fu trovata svenuta, e quando riprese i sensi ci spaventò a sua volta, tanto era gialla e sconvolta in viso: anche le mani sembravano le zampe di un uccello di malaugurio; e gli occhi uova sode spaccate.
Era l’itterizia; ma la ragazza cominciò a contorcersi e piangere terrorizzata, affermando che una strega con un vestito rosso era saltata sopra di lei, riducendola in quel modo. Nessuno, neppure il vecchio apostolico medico di casa, neppure l’autorità un po’ brusca del nostro zio canonico, riuscirono a convincerla del contrario. Ella aveva veduto la strega sinistra e fiammeggiante saltare sopra di lei, come un cavallo in corsa su una palizzata; e si rannicchiava, cercando di nascondersi; poiché le pareva che il gioco satanico dovesse ripetersi. Infine fu lei stessa che si propose di andare da Marghitta, per dissipare ogni dubbio. Marghitta sola poteva dire se ella era stregata, e trovare il rimedio: ma la ragazza si confidava solo con me, perché gli altri la disapprovavano.
Avevo allora quattordici anni, l’età della servetta, ed anche sopra di me era già passata una vampa soprannaturale, il volo di un arcangelo con gli occhi di sole, la spada di luce e di tenebre. E con questa spada aveva segnato, intorno a me, un cerchio, dal quale sentivo di non poter più uscire. Il male che ne risentivo era forse più grave di quello della ragazza, certo più inguaribile: mi assaliva già un’ansia di uscire dal cerchio fatale, di vedere le cose come le vedevano gli altri, di vivere come vivevano gli altri; e nello stesso tempo una specie di incantesimo pieno di una gioia che gli altri, anche i più felici, non potevano intorno a me provare, mi legava, come, si diceva dai credenti della scienza di Marghitta, certe fattucchiere di amanti legano, per tutta la vita, le persone amate.
Insomma, la malìa dell’arte. Ma, oltre l’istinto di guardare la vita sotto una luce che attraversando uomini e cose ne faceva vedere anche l’interno, provavo una curiosità, anzi un forte bisogno di controllare la realtà di queste, diremo così, rivelazioni: così, mi piaceva di andare nella valle o sui monti, per il godimento della natura, ma anche per vedere nel loro sfondo preciso i contadini e i pastori: e di penetrare nelle stamberghe dei poveri più che per carità per desiderio di studio. E così andai con la servetta nell’ambulatorio neolitico di comare Marghitta: con la scusa che anch’io avevo forse bisogno di consultarla. La ragazza ne fu tutta felice: mal comune mezzo gaudio: e poi, a dir la verità, aveva un po’ di tremarella addosso all’idea di sottoporsi chissà a quali esorcismi, o di ingoiare una medicina amara. — Niente ingoiamenti, — le dico, stringendola per il braccio che sembrava un cero, — non ti lascio bere neppure acqua: ti devono bastare le cure esterne.
Si va, verso sera, con la scusa di un passeggino intorno a casa, e questa volta si riesce a vedere tutto l’interno della tana misteriosa: che poi non era come lo si immaginava; alla nera fuligginosa cucina di entrata seguiva una stanzetta pulita, con pavimento di fango battuto, sì, ma le pareti imbiancate con la calce e piene di immagini sacre: un finestrino alto, quasi sotto il tetto, dava luce alla camera: per chiudere lo sportello bisognava salire sulla spalliera di una seggiola. E fu mio il compito, quando la donna, che già aveva guardato la ragazza e capito di che si trattava, accese un lumicino ad olio e disse: — Bisogna chiudere.
Mi arrampico: un quadro noto, mai abbastanza ammirato, si apre di là dei bassi tetti sui quali guarda il finestrino: sono i monti, violetti sul cielo roseo del crepuscolo: una dolce luna d’alabastro vi si affacciava sopra, fra due ali di vapori orlati d’argento: e pareva l’angelo paffuto della sera di settembre.
Chiusi a malincuore lo sportello e saltai giù. La donna si era seduta sul suo giaciglio e stringeva la ragazza fra le sue ginocchia, mormorando versi in un gergo incomprensibile: erano i verbos, le antiche parole magiche, che mandavano via gli spiriti maligni: poi con una fettuccia unta la misurò dall’alto in basso, dalla punta di una mano all’altra, con le braccia ben distese: le misure non tornavano; mancava qualche centimetro alla lunghezza delle estremità: la ragazza era stregata. Io stavo bene attenta che la donna non le facesse ingoiare qualche intruglio, poichè la responsabilità era mia; Marghitta non ci pensava neppure; anzi mi accorsi che mi guardava in modo quasi malizioso quando, piegato il viso alla paziente, le fece tre segni di croce, domandandole con voce bassa e insistente:
— Sei stata in compagnia di qualche ragazzo? Rispondi: rispondi: tanto Dio sa tutto. Rispondi: ti ha baciato?
E fu una delle mie prime emozioni artistiche, quando sentii l’innocente vittima delle streghe rispondere che, sì, il figlio dell’ortolano, quel giorno del temporale, mentre si erano rifugiati in un ripostiglio, l’aveva baciata.