Il cedro del Libano/Nel mulino

Nel mulino

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Agosto felice La fuga di Giuseppe

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NEL MULINO

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Si era andati a passare quello scorcio di vacanze nella provincia di Mantova, in riva al Po.

La casa dei nostri ospiti, agiati e laboriosi artigiani, era proprio sotto l’argine, al quale si saliva per una fuga, largo sentiero ombreggiato da alti pioppi che parevano fatti di una sostanza evanescente. Davanti e intorno alla casa, separata dalle altre da prati e frutteti, si stendeva una luminosa cometa di saggine segate e messe ad asciugare; e del resto quasi tutta la distesa dei campi era bionda, e il verde della vegetazione ancora fresca aveva come un riflesso di quest’oro ogni giorno più intensificato dal sole di settembre. Nel pomeriggio faceva caldo: un caldo quasi afoso, senza respiro; ma col cadere del sole l’aria si inteneriva; veniva su l’alito sano del fiume; pur senza vento i pioppi tremolavano, quasi facendosi fresco da sé, e un profumo di fieno, di siepi, di terra umida si spandeva fin dentro la casa in quell’ora tranquilla e deserta. Tutti erano a lavorare nei campi, o nella fabbrica di scope dei nostri ospiti; quattro oche dure e fiere come scolpite nel marmo vigilavano l’aia, e guai a chi non da esse conosciuto, si azzardava ad avvicinarsi all’abitazione [p. 152 modifica]dei padroni: lo perseguitavano peggio dei cani, col becco potente; i loro strilli si sentivano sino al fiume.

Avvertita da questo allarme, un giorno, mentre ci si trovava a passeggio sull’argine, la più giovane delle nostre ospiti, una biondina fragile e con gli occhi cerulei come quelli di Ermengarda, corse giù a vedere, armata di una fronda. Niente paura: tornò su accompagnata da un bel vecchio alto, coi folti capelli candidi, vestito decentemente ma scalzo e coi pantaloni rimboccati sulle gambe rossastre.

Dopo aver rigirato più volte fra le mani callose il cappelluccio nero, egli arrossì, e infine ci invitò ad andare a mangiare i gnocchi nel mulino che suo figlio aveva, non molto giù di lì, per la sola ragione che eravamo amici di amici.

— Poi si va a pesca: ho la barca, ch’è mia. Vero, che è mia, Ninina?

La biondina, per tutta risposta, corse di nuovo giù per la china dell’argine, andò ad avvertire i genitori e tornò con la fronda convertita in un salame lungo e sodo come un randello.

Fu una gita indimenticabile. Il fiume era azzurro e, verso le rive boscose, d’un colore denso di lapislazzuli già venato dal rosso del tramonto.

La barca andava trasportata dalla corrente, e il vecchio, dritto coi remi a fior d’acqua, ci guardava orgoglioso e commosso come personaggi straordinarî, mentre la ragazza, piegata sulla sponda di prua, immergeva la mano nell’onda e la ritraeva con strilli di gioia, quasi avesse pescato perle. Anche la sua treccia sfiorava l’acqua che la rifletteva come un serpente [p. 153 modifica]d’oro. Passò un barcone carico di pomi che spandevano il loro profumo nell’aria ventilata: del resto tutto il paesaggio odorava di frutteto e di orto innaffiato.

Or eccoci al mulino che ha l’aspetto romantico di una palafitta: le ruote che però sembrano d’acciaio accolgono la corrente con tale forza da parer che giochino; ma l’acqua è seria, ha altro da fare, e s’impenna con dispetto, sfuggendo quasi rabbiosa. Il rumore monotono echeggia nel bosco della riva e ritorna come quello di una segheria fiabesca. D’altronde ogni cosa prende a poco a poco il disegno e le tinte esagerate di una illustrazione per libro di strenne all’antica. Si sale la scaletta scricchiolante e ci si ritrova in una specie di piattaforma di assi, davanti a un casottino di legno dentro il quale, in un pulviscolo argenteo, si muovono le figure bianche e nere dei mugnai. Tutto si muove e respira: il moggio che pare giri da sè, felice della sua attività incessante; la farina che vien giù come da una piccola sorgente naturale, i sacchi che si riempiono dondolandosi: e il rumore e l’ansito dell’acqua, addentata dalla ruota, nella gabbia dei pali, danno l’idea di un pachiderma irretito, che si dibatta e provochi con la sua forza selvaggia il semplice ingranaggio del mulino.

Il sole è già basso e nudo di raggi, sul cielo rosa, sopra i languidi salici della riva; ma l’acqua ha raccolto tutto il suo splendore che pare non debba mai venir meno: e le isolette di sabbia, coperte di cespugli e di fiori gialli, danno al paesaggio fluviale un’illusione di vastità marina. Si avrebbe voglia di approdare nella più [p. 154 modifica]estesa di esse, che sfida maggiormente la fantasia di chi guarda, con una capanna da pescatore, nera e pennuta, sotto un esile pioppo di stagnola, e un fuocherello sullo spiazzo sterposo. Che fa l’abitante dell’isola felice? Probabilmente scioglie un tegamino di pece per rattoppare la sua barca; o forse arrostisce l’unica tinca che ha potuto pescare durante la giornata; ad ogni modo, veduto di lontano, attraverso lo spazio liquido e mobile del fiume e nell’atmosfera illusoria del tramonto, egli si alza alla statura di un conquistatore di terre inesplorate.

Tutto è bello e buono quando si è ancora giovani, sani, compagni di gente leale e semplice: anche nel focolare del mulino arde la fiamma ospitale: il vecchio si era tolta la giacca e aveva impastato la farina, sull’asse bianca che tremolava quasi ridente. Con un accento di segreto, ammiccando verso la biondina che si era già messa a flirtare col più giovane dei mugnai, mentre io guardavo con curiosità la sua fatica, disse con aria da iniziato: — Per esser speciali, questi qui, bisogna impastarli con l’acqua del Po. Vedrà, vedrà: è ben altra cosa che quelli del paese.

Si trattava di gnocchi: in breve uscirono dalle sue mani come tante susine bianchicce, e il mugnaio anziano venne ad ispezionarli toccandone uno con la punta dell’indice. Bene, bene; non restava che cuocerli e condirli: il che fu fatto con rapidità incredibile. Ma dov’era la tavola? Bene o male vennero, sì, fuori le stoviglie: certe scodelle grigie e rosse di terra cotta che davvero parevano del tempo dei palafitticoli; e anche tre [p. 155 modifica]forchette di stagno che furono offerte come rarità archeologiche agli ospiti più illustri; ma la tavola fu il parapetto della piattaforma, con la lampada del sole all’orizzonte. Più che un banchetto sembrava un rito, una casta comunione in omaggio alle deità fluviali, con gl’invitati in piedi lungo la rozza balaustrata, al suono d’organo delle onde: e i gnocchi sparivano in religioso raccoglimento o meglio si liquefacevano in bocca, come ostie: ed era invece, il loro, un sapore indefinibile; qualche cosa fra il piacere, sì, della gola, ma anche quello di un verso dimenticato che d’improvviso torna alla memoria. L’acqua del fiume, con la quale erano impastati, c’entrava certamente in questa malìa.

Forse i mugnai non la pensavano così, sebbene anch’essi assorti e un po’ in soggezione: anzi il più giovane, un bel ragazzo ancora liscio e imberbe, si ingozzò come un bambino, e, come appunto ai bambini, la bella dalla treccia d’oro, per mortificarlo di più, corse a battergli la mano sulla spalla. Per fare lo spiritoso, egli cominciò a gridare: «Aiuto, aiuto». Una voce lontana rispose: e pareva fosse anch’essa quella dell’eco, mentre era invece il pescatore dell’isola, che, a sua volta forse con invidia, si accorgeva della festa sul mulino. Il vecchio rispose a modo suo, col risolino beffardo della bocca sdentata: scuoteva cioè una bottiglia di lambrusco che scintillava al riverbero dell’acqua: la sturò, e il turbolento zampillo che ne saltò fuori parve un fiore violaceo.

Allora la timidezza del suo goffo figliuolo e dei giovani nipoti si cambiò in tanta familiare [p. 156 modifica]allegria, anzi il mugnaio si trovò ad essere un antico compagno di scuola di uno degli ospiti, e si ricordò la volta che erano caduti entrambi fraternamente in un fosso. E poichè tutti si era diventati amici e fratelli, con grandi grida e sventolii di fazzoletti fu invitato a venire il pescatore; ma egli faceva il difficile, come un vero sovrano di colonie, e anzi, forse credendosi un po’ burlato, fece anche lui vedere una bottiglia, poi se l’accostò alla bocca in atto di bere.

— È piena d’acqua — gridò il mugnaio giovane, minacciandolo col salame che aveva cominciato ad affettare sul dorso di un piatto. Anche le fette del fragrante salume vennero mostrate al solitario isolano, che, con le braccia abbandonate sui fianchi, parve darsi vinto. D’un tratto però, quando si cominciava a lasciarlo in pace, egli balzò giù nel suo scalo da gioco, sciolse la barca e attraversò a volo lo spazio che ci separava. Aveva una gran barba bianca, ma non sembrava molto vecchio: e i suoi denti ancora intatti scintillarono al tramonto, quando egli venne su svelto sulla nostra terrazza, con un fazzoletto umido, entro il quale aveva avvolto qualche cosa. Tutti gli fecero festa: gli batterono le mani sulle spalle, lo volsero e rivolsero come per esaminarlo meglio. Sì, era proprio lui, il vecchio Justin, pescatore di professione, che tutti, da una riva all’altra del fiume, lungo la Valle Padana, avevano sempre conosciuto con la barba di schiuma, gli occhi color d’acqua e la bocca di pesce. Dei pesci aveva anche il saggio mutismo; e, infatti, solo a furia di domande, di colpettini, e soprattutto per virtù di [p. 157 modifica]un’altra bottiglia comparsa misteriosamente sopra coperta, si decise a rivelare, ma più a cenni che altro, la ragione per la quale, facendo una memorabile eccezione, era venuto a prender parte al nostro festino. Quel giorno compiva gli ottanta anni.

Per questa stessa ragione la festa fu prolungata fino al tardi, e l’anfitrione fece la polenta e arrostì i pesciolini portati da Justin. Fermata la ruota, un silenzio che stordiva più che il fragore dell’acqua si allargò intorno, con una sospensione di realtà. Pareva si fosse versata una abbondante quantità d’olio sul fiume, e le cose s’imbrunissero per il riverbero ambiguo: ma la treccia della fanciulla, appoggiata con le spalle al parapetto, tramandava ancora una luce dorata; e quasi fosforescente era la barba del vecchio pescatore che tutti noi guardavamo, un po’ volutamente, eppure inteneriti, come l’immagine paterna del tempo.