Il cedro del Libano/Ballo in costume
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BALLO IN COSTUME
Chi ci aveva insegnato a ballare? Nessuno. Eppure si ballava, per istinto, per bisogno naturale; e la polca pacata e casta, la mazurca più ardita, ed anche l’allora vertiginoso valzer, erano familiari alle nostre gambette non eccessivamente lunghe ma abbastanza agili e ben fatte. Del resto le gambe non si vedevano, nelle nostre deliziose feste da ballo, perchè anche allora si usavano i vestiti lunghi; anzi, per assoluta mancanza di toelette da sera, si ricorreva spesso ai non vaporosi costumi: costumi nostri, di casa, ricordi di belle nonne paesane, di antiche spose, veramente confezionati con porpora, bisso e broccati d’oro; o ci si facevano prestare dalle giovani cugine, che ancora li indossavano e si beffavano dei nostri goffi vestitini borghesi come del resto si beffavano anche delle signore e signorine eleganti che seguivano scrupolosamente la moda. Per queste cuginette ricche, sebbene figlie di pastori e di orgogliosi proprietarî di terre, destinate a sposare pastori e proprietarî, a far figli che però un giorno sarebbero forse diventati dottori o avvocati o alti funzionari di Stato, — ragazze claustrali e impertinenti nello stesso tempo, — tutto, d’altronde, era oggetto di riso, di sarcasmo sottile e inesorabile, di pungenti critiche. Si consideravano di una razza superiore, e forse lo erano; e la loro casa, fornita di ogni bene di Dio, ricca di servi e serve, era un piccolo feudo dal quale dipendevano, sebbene indirettamente, tutti gli abitanti bisognosi del quartiere.
Prima dunque di chiedere in prestito, per una notte, il costume nuovo di mia cugina Elena ci pensavo due volte: d’altra parte quello antico di mia nonna era già troppo conosciuto e quelli delle altre mie parenti grasse e formose troppo larghi e voluminosi. Il costume di Elena, non privo di qualche modernità, col nastro in fondo alla gonna pieghettata più alto dell’ordinario e di un colore fra il rosso e il cremisi ondeggiante e lucente come le strisce del tramonto, il giubboncello in armonia, di una tinta purpurea lievemente granata, e i bottoni d’oro con la perla di falso rubino, tutto era adatto per me.
Il viso un po’ camitico di Elena, — «bruno ma bello; il turgido labbro simile al fior del melograno», — si mascherò subito di ironia, appena mi vide entrare nel doppio cortile che ricingeva la sua grande casa bassa tutta scalette esterne, ballatoi di legno, tettoie e ripari contro gli occhi indiscreti. Ella attingeva acqua dal pozzo profondo, e le sue caviglie nude luccicavano come il bronzo. Senza una parola nè di beffa nè di raccomandazione mi consegnò il costume: la gonna piegata come un grande ventaglio, il corsetto di broccato con una carta velina in mezzo, il giubboncello piegato al rovescio, dove si vedeva il velluto della fodera come in un fiore a due tinte; ed io stessa me lo portai via, con la rapidità volante della gazza che va a nascondere il gioiello rubato.
Semplici e schiette erano le nostre feste da ballo; eppure chi ne ha vedute di più fantastiche e fastose? Ghirlande di edera e fiori di vilucchio, rose di carta e palloncini colorati adornavano le pareti: e le sospensioni a petrolio e i candelabri con le steariche finivano col far rassomigliare la sala a una chiesa, nella notte di Natale: tanto più che questa sala era stata davvero la grande cappella di un antico convento, ridotto poi a caseggiato scolastico: l’attiguo refettorio adattato a buffet e rifugio delle coppie accaldate, più che dal ballo, dal fuoco del loro cuore. Non mancava la buona musica: pianoforte, violini e chitarre; per certi balli finali, dopo che la contraddanza aveva convertito e preso nella sua rete anche i più indomiti miscredenti in amore, la fisarmonica poi richiamava in anticipo all’aria aperta, ai prati, ai boschi, alle feste campestri, alla vita primitiva, infine alle danze tradizionali che, oltre al nascondere l’agguato d’amore, fondamento d’ogni riunione e contatto fra uomini e donne giovani, celebrano ricordi e riti religiosi, sopravvivenze di costumi, di usi, di credenze e aspirazioni nate coi primi uomini e da questi espresse coi movimenti, col suono degli strumenti e, meglio ancora, con la voce stessa. Ci sono infatti certe danze sarde che si ballano col solo ritmo di un coro tutt’altro che ingenuo, anzi ricco di armonie e toni musicali e motivi raffinati: la melanconia e l’ebbrezza, la virile espressione di passioni che toccano le radici dell’anima, il piacere e la nascosta ma prorompente ansia di vivere, e persino un certo disprezzo, una sfida alle cose meschine d’ogni giorno, vibrano nella voce dei cantori, a loro stessa insaputa, come a insaputa dell’uccello che canta è la sua gioia di esistere, di procreare, di sopravvivere coi nati del suo nido.
Intonati a questa danza, che qualche volta dunque chiudeva i nostri balli, erano i costumi paesani; e la festa pigliava un colore di Sagra pastorale.
Episodi comici non mancavano: ed ecco una volta il direttore delle danze, prima del ballo finale, annunzia a bassa voce, ai varî gruppi specialmente delle ragazze, che ci sarà una sorpresa impensata, straordinaria, un avvenimento che accrescerà la gioia di tutti, a tutti farà piacere, a tutti porterà fortuna.
Non ha finito di bisbigliare, destando curiosità ma anche una certa diffidenza, che sulla soglia della sala attigua, nella cornice delle ghirlande d’edera e di vilucchio ancora fresco, come uno gnomo nel limite del bosco, si presenta un gobbo. Tutti i ventagli (anche le paesanine lo avevano) si aprirono per nascondere le bocche ridenti; i giovanotti si precipitarono incontro e intorno al nuovo venuto; molte dita si allungarono sulle spalle di lui, se ne accorgesse o no; e tutti lo accompagnarono in gruppo trionfale fino in mezzo alla sala: alcuni si piegavano, facendosi piccoli al pari di lui, per lasciarlo veder meglio alle ragazze, verso le quali qualche bellimbusto spregiudicato ammiccava come per dire: questo fa proprio per voi.
Egli lasciava fare: era un cuore semplice, un cuore d’oro; la sua piccola testa rossiccia, con i grandi occhi di cervo, spauriti e buoni, dava uno strano senso di dolcezza a guardarla, come appunto quella di una bestia mansueta e mite, sebbene selvatica, capitata fra gli uomini, che non tentavano di farle male, anzi le tributavano un rispetto interessato, una protezione mista di speranze e di idolatria.
Poichè tutti, anche gli spregiudicati, credevano nella sua virtù: e il primo a crederci era lui stesso, il generoso gobbino, e in piena buona fede, sebbene la sua misteriosa potenza a spandere la luce del bene intorno agli altri nulla valesse per lui, giovane, ricco, di buona famiglia, condannato a vivere senz’amore e senza illusioni. Senza illusioni? Forse no: poichè, se egli era venuto al ballo, se guardava timido le donne, se si era vestito bene, con le scarpe di coppale e in mano i guanti bianchi, se aveva una perla alla spilla della cravatta, qualche velleità ce la doveva pure avere: e se, soprattutto, quando la fisarmonica intonò, come in onore di un Dio silvano, una musica nostalgica, fatta di echi, di lamenti, di richiami insistenti e appassionati, richiami di amanti che si cercano ansiosi nella foresta, anche lui si unì al circolo magico dei danzatori, scegliendo il posto fra due fanciulle che per la loro statura non lo facessero troppo sfigurare.
Una ero io; sì, e confesso che sollevai con fiero dispetto la testa, e strinsi quasi con sfida la piccola mano calda del gobbo poichè l’altro ballerino accanto a me, alto e bello nel suo costume spagnolesco, mi stringeva a sua volta la mano e me la scuoteva con derisione. — Che c’è da ridere? — dicevano i miei occhi: — Non è un essere vivente anche lui? Egli non chiede nulla d’illecito: chiede solo un momento d’oblio, l’illusione di credersi simile agli altri, ammesso anche lui nel cerchio magico dei giovani che si divertono, dei cuori che si amano.
— Inoltre, — sciolto il ballo, nell’ultima sosta prima che l’alba ci richiami alla realtà quotidiana, dico al beffardo nobile spagnuolo, — il gobbo mi porterà fortuna: anche per questo sono felice che egli mi abbia preferito alle altre, e voglio, per farle dispetto, civettare con lui.
— Oh, s’accomodi pure. Ma che è la fortuna? — domandò il giovine: e si fece serio.
Il gobbo non osava riavvicinarsi; non cessava però di fissare coi suoi occhi allucinati, — lo avevano fatto bere, — non il mio viso, ma il mio vestito: pareva che quei colori d’aurora, l’ondeggiare delle pieghe, lo scintillìo dei gioielli, più che la modesta persona da essi trasformata in idolo, quasi in simbolo, gli destassero un fascino sovrannaturale.
Ci seguì, nella via del ritorno, nell’ora antelucana il cui freddo umido e spietato gelava i nostri visi e i nostri sogni.
— Attacca, attacca, — diceva il crudele «hidalgo», — la fortuna la segue, signorina. — E si mise a cantare, fra uno starnuto e l’altro: «Ella mi amava per la mia sventura. Ed io l’amavo per la sua pietà».
Altri starnuti rispondevano. Ma non era nella scìa interessata della mia compassione che il gobbo trasognato procedeva: era altro il segreto che lo attirava; e qualche tempo dopo la bruna corrucciata Elena mi investì con fredda rabbia:
— Ma che hai fatto, quella notte del ballo, al malaugurato gobbo? Gli hai dato il filtro? Adesso, ogni volta che vado a messa, mi aspetta davanti alla chiesa, mi attacca gli occhi addosso, non li stacca mai durante la funzione; poi mi segue fino a casa, come un cagnolino, e fa ridere la gente dietro di noi.
— È innamorato del tuo costume, Elena; abbi pazienza: almeno di un vestito può bene innamorarsi: quanti uomini non fanno altrettanto? E poi ti porterà fortuna.
Ma anche lei, che nonostante i suoi diciotto anni aveva già la saggezza melanconica della gente solitaria, domandò col suo languido riso di beffa:
— Che cosa è la fortuna?