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in un fiore a due tinte; ed io stessa me lo portai via, con la rapidità volante della gazza che va a nascondere il gioiello rubato.


Semplici e schiette erano le nostre feste da ballo; eppure chi ne ha vedute di più fantastiche e fastose? Ghirlande di edera e fiori di vilucchio, rose di carta e palloncini colorati adornavano le pareti: e le sospensioni a petrolio e i candelabri con le steariche finivano col far rassomigliare la sala a una chiesa, nella notte di Natale: tanto più che questa sala era stata davvero la grande cappella di un antico convento, ridotto poi a caseggiato scolastico: l’attiguo refettorio adattato a buffet e rifugio delle coppie accaldate, più che dal ballo, dal fuoco del loro cuore. Non mancava la buona musica: pianoforte, violini e chitarre; per certi balli finali, dopo che la contraddanza aveva convertito e preso nella sua rete anche i più indomiti miscredenti in amore, la fisarmonica poi richiamava in anticipo all’aria aperta, ai prati, ai boschi, alle feste campestri, alla vita primitiva, infine alle danze tradizionali che, oltre al nascondere l’agguato d’amore, fondamento d’ogni riunione e contatto fra uomini e donne giovani, celebrano ricordi e riti religiosi, sopravvivenze di costumi, di usi, di credenze e aspirazioni nate coi primi uomini e da questi espresse coi movimenti, col suono degli strumenti e, meglio ancora, con la voce stessa. Ci sono infatti certe danze sarde che si ballano col solo ritmo di un coro tutt’altro che ingenuo, anzi ricco di armonie e toni musicali e motivi raffinati: la me-


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