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fiero dispetto la testa, e strinsi quasi con sfida la piccola mano calda del gobbo poichè l’altro ballerino accanto a me, alto e bello nel suo costume spagnolesco, mi stringeva a sua volta la mano e me la scuoteva con derisione. — Che c’è da ridere? — dicevano i miei occhi: — Non è un essere vivente anche lui? Egli non chiede nulla d’illecito: chiede solo un momento d’oblio, l’illusione di credersi simile agli altri, ammesso anche lui nel cerchio magico dei giovani che si divertono, dei cuori che si amano.

— Inoltre, — sciolto il ballo, nell’ultima sosta prima che l’alba ci richiami alla realtà quotidiana, dico al beffardo nobile spagnuolo, — il gobbo mi porterà fortuna: anche per questo sono felice che egli mi abbia preferito alle altre, e voglio, per farle dispetto, civettare con lui.

— Oh, s’accomodi pure. Ma che è la fortuna? — domandò il giovine: e si fece serio.

Il gobbo non osava riavvicinarsi; non cessava però di fissare coi suoi occhi allucinati, — lo avevano fatto bere, — non il mio viso, ma il mio vestito: pareva che quei colori d’aurora, l’ondeggiare delle pieghe, lo scintillìo dei gioielli, più che la modesta persona da essi trasformata in idolo, quasi in simbolo, gli destassero un fascino sovrannaturale.

Ci seguì, nella via del ritorno, nell’ora antelucana il cui freddo umido e spietato gelava i nostri visi e i nostri sogni.

— Attacca, attacca, — diceva il crudele «hidalgo», — la fortuna la segue, signorina. — E si mise a cantare, fra uno starnuto e l’altro:

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