Il buon cuore - Anno X, n. 33 - 12 agosto 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 33 - 12 agosto 1911 Religione

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LA SANTA CAPPELLA


STUDII STORICI


(Continuazione, vedi numero 32).


Nel quartiere Sainte-Opportune, all’angolo di Rue des Trois Quenouilles, c’era nel secolo decimoterzo un pasticciere di grande rinomanza — presso il quale non sdegnavano di far compere i più grandi signori. Non soltanto essi raccomandavano ai loro capicuochi di acquistare all’insegna di Saint-Laurent, presso Giacomo di Montreuil le paste tailloirs e primos ch’egli confezionava con una materia meravigliosa; ma anche non sdegnavano, passando per quel quartiere, di scendere da cavallo per venirvi a mangiare nella bottega del degno pasticciere, delle cialde, dei composti di marroni all’acqua di rose, e pignolat, leccornia composta di pignuoli. Essi non dimostravano meno stima, riguardo ai vini balsamici che maestro Giacomo componeva con un talento meraviglioso con noci moscate, uva secca e chiodi di garofano.

Abituato a vedere la sua bottega popolata da tutto ciò che la Corte e la città avevano di più elegante e di più ricco, maestro Giacomo di Montreuil non avrebbe dato la sua bottega per le stesse cucine reali, ed il coltellaccio della sua cintura per la bacchettta del comando del capo cuoco del monarca regnante. Allora capirete come egli apprezzasse molto meno il danaro di cui si riempiva la borsa, della riputazione di abile pasticciere di cui godea senza contrasto. Così molti gentiluomini al verde e dal nome sonoro approfittarono di questa vanitosa ambizione per installarsi gratuitamente nella bottega di via Trois Quenouilles. Ma alla fine ci veniva tanta gente che questo poteva risolversi in una perdita insensibile. Se maestro Giacomo non avesse avuto altro pensiero molesto, sarebbe stato creduto il più felice degli uomini.

Per sventura, aveva un figlio di nome Pietro che non testimoniava la stessa stima per la nobile professione di pasticciere, nè mai si accostava al forno se non contro volontà e sotto la minaccia del bastone paterno. Non mettevasi a trattare le paste che per guastarle con qualche stordita miscela; ed egli si intendeva tanto poco di cottura che, se per caso gli si lasciava la cura di sorvegliare il forno, non se ne ritiravano che pezzi tutti anneriti e quasi ridotti in cenere.

Maestro Giacomo di Montreuil la cui maggior ambizione sarebbe stata di vedere suo figlio ereditare la gloria e la fortuna da lui acquistate nella bottega della via Trois Quenouilles, si sentiva furibondo alla vista della completa inabilità di Pietro nel fare Pasticci, tanto più che, eccetto quest’unica scienza, in tutto il resto Pietro si mostrava giovane intelligente e ammodo. Fra altro nessuno meglio di lui sapeva preparare artisticamente una tavola, e disegnare su focaccie i più originali ornamenti; ma era qui tutto. Fuori di quest’unica abilità, tra le più importanti senza dubbio nell’arte culinaria, ma che sola non poteva condurre a nulla, egli mostra va un’ignoranza ed una cattiva voglia che esasperava suo padre, gettandolo in una collera molto divertente per tutti: eccetto che per colui che ne era la vittima. Perchè non solo Giacomo di Montreuil batteva oltraggiosamente il figlio, fino all’età di vent’anni, ma altresì a grande umiliazione di Pietro, raccontava al primo venuto la sventura dell’inettitudine di suo figlio.

Ora, quindici giorni dopo l’incontro di P. Tomaso d’Aquino e del suo penitente, maestro Giacomo di Montreuil si spolmonava a rimproverare il figlio e minacciava di batterlo, a dispetto dello scandalo che cagionavano in contrada gli scatti comici della sua collera, e malgrado la folla che una tal scena raccoglieva davanti alla sua casa. Il caso era stato grave, convien dirlo. Un pasticcio di colombi destinato al pranzo di [p. 258 modifica] messer di Joinville era caduto di mano allo sgraziato Pietro nel portarlo al forno!... bisognò che quel giorno messer di Joinville facesse a meno del pasticcio. Pietro, per sfuggire al giusto corruccio del buon uomo, prese il partito di fuggire e corse con tanta precipitazione, da cadere fra le braccia di un novizio domenicano che atterrò per la violenza dell’urto.

Il religioso s’interpose fra il percuotitore ed il percosso, ed il suo carattere entusiasta reprimette in seguito le escandescenze di maestro Giacomo che si scapellò e si mise a spiegare a lungo il suo stato d’animo nei riguardi del figlio. Del resto era qui tutto ciò ch’egli voleva, poichè la sua collera non si sfogava mai appieno per mancanza di persone che ascoltassero le sue lagnanze.

Frate Antonio (perchè il magro domenicano altri non era che l’artista domenicano), mentre il pasticciere narrava dell’incapacità di suo figlio in materia di composti culinarii, e la sua predilezione a costruire e disegnare focaccie, girò macchinalmente gli occhi attorno a sè.

Egli non potè contenere un movimento di sorpresa alla vista di una specie di chiesa che Pietro modellava in farina umida, aspettando di gettarla in pasta da biscotti, perchè questo abbozzo non era cosa ordinaria, e a malgrado dello scopo prosastico al quale doveva servire, il monaco vi riscontrò a primo colpo l’indice d’un talento che gli era stato così fatale.

Da allora una viva simpatia commosse il suo cuore.

— Maestro Giacomo, — diss’egli piegandosi alle idee assurde del pasticciere — la vocazione è libera. Se vi avessero voluto obbligare a non fare che abbellimenti di tavola senza mai fabbricare cialde, voi vi sareste rivoltato. Perchè non avere in senso contrario per vostro figlio l’indulgenza di cui voi avreste avuto di bisogno? Voi siete glorioso del vostro talento; ebbene, vostro figlio potrebbe acquistare in altra carriera una riputazione egualmente grande che la vostra. Invece di ereditare da un nome, ne creerebbe un altro. Mandate vostro figlio domani al convento, io ne farò un mio allievo.

Dicendo questo, egli dimenticava il saio monastico di cui era vestito; il suo occhio d’artista lampeggiava ed un’emozione convulsiva faceva tremare tutto il suo corpo; ma presto tornò alla realtà delle cose e soggiunse:

— Io chiederò al padre superiore il permesso di ricevere vostro figlio e dirigerlo nella carriera dell’architettura. Se me lo accorda, può darsi che i miei consigli abbiano a giovare a questo giovinotto; addio.

Egli uscì, lasciando Pietro al colmo della gioia, e Giacomo stupefatto. Ma la vista del pasticcio che stava a terra restituirono a quest’ultimo il suo cattivo umore.

— Per S. Lorenzo mio patrono! — gridò egli — che fare intanto per non scontentare il capo cuoco di messere di Joinville?

— Buon zio, mettere al forno questo pasticcio che composi mentre ve la prendevate con Pietro, ed inviarlo poi al palazzo di messer di Joinville!...

Maestro Giacomo stupito guardò con una completa sorpresa la giovane e graziosa fanciulla che gli parlava.

— Davvero, Agnese? — fec’egli.

E bentosto crollò le spalle.

— Il tuo pasticcio non varrà nulla, pazzerella mia; sono io solo in tutta la città che sappia comporre come si deve questo pasticcio.

— Io vi ho visto molte volte all’opera caro zio, e sono certa di esservi riuscita.

— In realtà, ecco qui tutti gli ingredienti necessarii; piccioni sminuzzati con pelle di maialetto di latte, uova farina di marroni. Agnese, vi hai messo crema ed uova nella pasta?

— Sì, buon zio, e dello zafferano per colorire meglio; ho umettato l’esterno con tuorlo d’uovo perchè si indori al forno.

— Bene, benissimo. E ci ha pure cervella?

— Sì, cervella di passeri mescolata a quella di polli....

— Perchè la delicatezza degli uni migliori la fermezza degli altri. Tu sei un piccolo angelo. Pietro, porta tutto ciò al forno.

— Niente affatto, zio mio — interruppe la graziosa fanciulla che temeva qualche nuova disgrazia da parte del cugino. — Niente affatto, io voglio fare tutto da me, non solo mettere la cialda al forno ma anche ritirarnela.

— Nulla di più giusto; va adunque.

— Pietro, — disse Agnese — vedi che buona scenata io ti risparmio; mi ami tu un poco per ragione di ciò?

— Io voglio diventare allievo di quel monaco! Io potrò dunque abbandonarmi alla mia vocazione e riuscire architetto, — pensava Pietro che non avvertiva tampoco le parole della cugina.

Questa asciugò una lacrima ed aprì il forno per ben assicurarsi che la sua cialda non bruciava.

In fondo al convento dei Domenicani, in un lungo corridoio sul quale davano piccole celle, trovavasi una camera alquanto più spaziosa delle altre, benchè il suo mobilio povero e squallido come quello dell’ultimo novizio, non si componesse che d’un tavolo, d’una panca e d’un letto di asse. È là che Tomaso d’Aquino consacrava allo studio tutto il tempo che gli lasciavano la preghiera e la carità; e là ch’egli scrisse diversi libri che produssero una così viva impressione nel mondo cattolico, e di cui qualcuno serve tuttora di base ai sistemi teologici della religione romana. Una profonda cognizione dei Padri della Chiesa, ed una sublimità di vedute assai più illuminate di quelle di altri monaci suoi contemporanei, gli valsero una rinomanza di sapere che non era uguagliata fuorchè da quella della virtù della bontà. Non solo egli soccorreva i poveri colle sue elemosine; non solo andava ad assidersi al capezzale dei moribondi per riconciliarli con Dio e per mostrar loro il cielo che li aspettava all’uscir da questa valle di lacrime, ma anche preveniva un pentimento che avrebbe ricondotto su buona strada, a forza di sollecitudini, di indulgenza e santi esempi. Come il suo divino Maestro, egli teneva dietro alle pecorelle smarrite e le metteva sulle sue spalle per riportarle all’ovile, pieno di compassione per la loro fragilità e per l’errore che le aveva trascinate lontano dal tetto protettore. [p. 259 modifica]Tomaso d’Aquino aveva una seduzione di parola alla quale difficilmente resisteva anche il cuore più indurito; per non cedere sarebbe stato necessario non aspettare la sua voce armoniosa; sarebbe stato necessario chiudere gli occhi; sarebbe stato necessario non trovarsi sotto la magia dei nobilissimi tratti, sotto il fascino dei suo sguardi ad un tempo mesti e dolci. Mai si fece del bene con minor rumore. Egli circondava di tutto il mistero possibile le sue buone azioni; egualmente egli non era designato a Parigi che col nome di dottor angelico o di angelo della scuola; altresì, quando una madre l’incontrava, lo pregava ginocchioni a benedirle il figlio perchè fosse protetto contro i mali del corpo e dell’anima. Maravigliato di tutte le buone azioni di Tomaso d’Aquino, il popolo non poteva supporre che tante virtù appartenessero a semplice mortale, e si parlava di molti miracoli avvenuti per sua intercessione.

Tomaso d’Aquino era stato condotto alla vita monastica da una irresistibile vocazione, contro la quale nulla avevano potuto gli sforzi della famiglia. Figlio del conte Landolfo signore di Loreto; nipote dell’imperatore Federico I e parente di Luigi IX re di Francia, discendeva per parte di madre dal famoso Tancredi d’Altavilla, conquistatore delle Due Sicilie nel secolo undecimo. Destinato alla carriera delle armi, furtivamente abbandonò la famiglia e andò a prendere l’abito di novizio presso i Domenicani di Napoli.

Dopo che sua madre ebbe a conoscere questa risoluzione, accorse al convento a supplicare il figlio perchè rinunciasse ad un progetto che lasciava senza eredi il nome illustre che portava. Tomaso oppose una rispettosa resistenza alle istanze della madre e non cedè di più ad una lunga reclusione fattagli subire nel castello di Rocca Secca del padre suo. Bisognò arrendersi ad una volontà così ferma, e Tomaso potè finalmente seguire la vocazione che l’attirava.

Il superiore dei Domenicani di Napoli non tardò a notare l’alta intelligenza del novello monaco, e l’inviò a continuare gli studi teologici a Colonia presso Alberto Magno pur egli religioso domenicano. Tomaso seguì bentosto il suo Maestro a Parigi. Là conobbe S. Bonaventura; là questi due uomini così capaci di comprendersi, si strinsero in una amicizia tenera, durata fino alla morte.

(Continua).

(Trad. di L. Meregalli).



ECHI E LETTURE


Attenti alle erbe, alle erbe crude sopratutto In tempi di disturbi intestinali le erbe e le frutta — se non sono cotte — tirano dei brutti tiri. Tuttavia i vegetariani non si scoraggiano affatto. Se non sarà cruda, sarà cotta; ma, data la cottura — ripetono nel Pearson’s Magazine — resta sempre il problema dell’alimentazione e i due problemi che riguardano la nutrizione della razza umana: l’uno fisiologico, l'altro psicologico ed estetico. Nell’idea di mangiare un cadavere v’è senza dubbio qualcosa che urta l’uomo o la donna di sentimento artistico, e che al contrario attrae la iena o la tigre. Il grado già avanzato di evoluzione dell’uomo tende a eliminare da lui completamente la sanguinaria avidità delle bestie feroci. L’uomo di nobili aspirazioni preferisce un’alimentazione semplice, incruenta, a base dei prodotti del suolo. L’avvenire è del vegetariano, e l’usanza di mangiare carne verrà sempre più limitandosi alle classi inferiori e mentalmente poco evolute della razza umana. Ma può l’alimentazione vegetariana bastare all’uomo, senza che questi abbia a risentirne un danno nel suo organismo? Così in Oriente come in Occidente, così fra gli odierni Giapponesi, Tartari, Finlandesi, Scozzesi, come fra gli atletici gladiatori del Colosseo o fra i veterani di Cesare, troviamo un unico ammaestramento: che la vigoria e la tenace resistenza d’una razza sì manifestano principalmente negli abitanti delle campagne, nei lavoratori del suolo presso cui l’alimentazione è quasi esclusivamente vegetariana. L’ospedale vegetariano di Lady Margaret a Bromley, nella contea di Kent, è una valida prova dell’utilità di quest’alimentazione in tutti i casi di malattie mediche, chirurgiche, ginecologiche....

Tutti sanno a Potsdam che l’Imperatrice alle 7, d’estate o d’inverno, è sempre alzata. Alle 8 fa colazione e — notate — sempre con l’Imperatore. Non vi è etichetta che tenga, quell’etichetta che si risolve nell’aristocrazia e nelle reggie, in un divorzio. Dicono che non abbia mai letto un solo romanzo perchè non ne ha il tempo. Ma in compenso ha badato ai suoi figli e letto i loro sillabari quando erano piccini; dirige la casa, ricama le bandiere per i suoi reggimenti, attende alle numerose guardarobe del marito, che è fra tutti i Sovrani il più provvisto d’uniformi, e dedica un’ora del giorno al piano. Non ha come il marito, la passione per il teatro, per le solenni corvées, per il lusso, per i viaggi. Della sua vita semplice, mite, religiosa, tiene un giornale le cui pagine nessuno, nemmeno il marito, ha mai letto e che formano un grosso a album n dalla cui piccola chiave d’oro non si separa mai. È notorio che il gentile ninnolo che chiude le sue arcane impressioni, i gentili misteri della sposa, della madre, dell’imperatrice, viene da lei portato costantemente, ovunque, appeso al vestito con una catenella. Lascerà una piccola chiave ai figli: potranno dischiudere con essa un tesoro di ammaestramenti. Dopo le otto — secondo il Tit-Bits — l’Imperatrice governa. Cioè governa la casa. Sotto la sua direzione il personale manovra con precisione militare. Il maggiordomo, chiamato a rapporto, presenta i «menus» dei pasti.... che l’Imperatrice invariabilmente modifica e semplifica, escludendo tutti i piatti che hanno un sapore francese, come esclude dai pranzi rallegrati dall’orchestra tutti quei pezzi di musica che hanno sapore italiano. È una veneratrice di Wagner! Salendo al trono portò anche un’altra prescrizione caratteristica e... salubre: stabilì la durata dei pranzi in un’ora, non un minuto di più. E instaurò anche un programma finanziario! Guglielmo non è economico e non lo è mai stato: ebbene, le sue larghezze sono riparate dalla contabilità della consorte, che [p. 260 modifica]rivede tutte le spese di Corte e sulle relative liquidazioni opera opportuni tagli. Queste sono le virtù veramente apprezzabili dell’Imperatrice tedesca.

Malattie, veleni, accidenti, asinerie di medici e di chirurghi hanno, in tutti i tempi, cospirato a far morire i sovrani. Luigi XIII è morto di una enterite tubercolare; sua moglie Anna d’Austria di un cancro al seno; Luigi XIV di una cancrena senile; Maria Teresa d’Austria, sua moglie, di un ascesso alle ascelle; il reggente duca d’Orléans di una apoplessia cerebrale; Luigi XV dal vaiuolo; dei figli di Luigi XVI, il primo fu rapito fanciullo ancora dalla tubercolosi, il secondo che fu detto Luigi XVII o morì, come è più probabile, al Tempio o, evasone, fini i suoi giorni oscuramente; tra le falsificazioni della storia devono porsi tutti i pseudo-delfini che pullularono nella prima metà del secolo scorso, non esclusi i Naundorff; Napoleone I di una epatite cronica e di un cancro allo stomaco; Luigi XVIII di una cancrena senile; Carlo X di cholera; Luigi Filippo, il re borghese, di una borghesissima pleuro-polmonite; e Napoleone III di calcolo vescicale.

Tutto ciò può sembrare della semplice erudizione — nota il Momento a proposito dei noti studi recenti del dott. Cabanis. Ma non è così. Intanto molte di queste pagine riescirebbero preziose per lo studioso che rintracci negli esaurimenti nervosi delle vecchie dinastie le stimmate degenerative. Ma non poche dovrebbero aver sapore di forte agrume pei seguaci di Esculapio troppo fiduciosi nella propria scienza. La morte della moglie di Luigi XIV è sotto questo aspetto assai istruttiva: assalita dalla febbre e da improvviso malessere che rapidamente si aggrava, i medici le trovano un tumore sotto l’ascella sinistra. Diagnosticano un reumatismo; e la salassano. La malata si aggrava: i dolori e la febbre crescono. I medici di Corte, D’Aquin, Fagon e Moreau si riuniscono a consulto; discutono lungamente e poi decidono un altro salasso ai piedi! Il chirurgo scongiura, invano, Fagon di ricorrere ad un altro rimedio: l’altro è incrollabile. Alla sera la regina è morta: l’ascesso ascellare si è esteso ed è penetrato nella pleura: una breve incisione chirurgica al tumore, aprendo la via al «pus», sarebbe bastato a salvar la vita della povera Maria Teresa. Ma il chirurgo a quei tempi non aveva alcun diritto d’iniziativa, era un semplice esecutore delle prescrizioni dei medici, e la sua

Scommetterei il marengo che il Romanzo della domenica (un anno L. 4,00 agli abbonati del Corriere, due soldi al numero) offre ai suoi lettori e giuocatori: e vi dico che c’è qualche lettrice alla quale dolgono i denti. E’ male di stagione: ebbene, io mi permetto — con rispetto parlando — di rammentare la vecchia ricetta raccomandata da Carlo de l’Orme, primo medico di Luigi XIII, per il mal di denti: «Prendete dello sterco d’oca, fatelo friggere con grasso di maiale maschio, e applicatelo caldo sul dente malato sopra un pezzo di garza». Proprio cosi! Se si pensa a quali strane teoriche e a quali singolari rimedi ricorrevano i medici d’un tempo per alleviare le piaghe della sofferente umanità, c’è veramente da rallegrarsi d’esser nati molto tardi nel giro dei secoli. A parte il fatto che l’astrologia aveva una parte preponderante nella medicina, tanto che venivano stabiliti i più strani rapporti fra la salute del corpo, i segni dello zodiaco e i movimenti dei pianeti, ciò che può darci un’idea dei sistemi degli esculapi antichi è il formulario delle loro ricette. Per guarire un imbarazzo gastrico — secondo il The Lancet — era indicatissimo un olio ottenuto facendo bollire viva in una miscela di purganti, una vecchia gallina. Si cercava poi di aumentare l’efficacia dei rimedi complicandone la composizione. L’elettuario che Sermert consigliava pei mali di cuore, conteneva ben trentadue sostanze, fra le quali l’oro, lo smeraldo, le perle, lo zaffiro, l'ambra e il corallo. Un elettuario di questa natura confortatif de pierres précieuses clystères dorés costavano 40-50 franchi, quelli, non dorati 4 franchi... E l’epidemia del salasso? Guy Patin, che ne fu l’apostolo, credeva con Botal «che il sangue è nel corpo umano come l’acqua in una buona fonte: quanto più se ne attinge, tanto più ne sprizza». Perciò egli salassava infaticabilmente: praticò tredici salassi in soli quindici giorni a un ragazzo di sette anni, non risparmiò nemmeno i bambini di tre mesi, e una volta ne salassò uno di tre giorni. Ma tutto ciò si capisce quando si pensi che agli studenti di medicina, anzichè la pratica negli ospedali, si richiedeva la soluzione di problemi di questo genere: «Gli eroi nascono dagli eroi? Hanno temperamento bilioso?» — «E’ buona cosa ubriacarsi una volta al mese?» — «La donna è una opera imperfetta della natura?» — «Lo sternuto è un atto naturale?» — «Bisogna tener conto delle fasi della Luna per il taglio dei capelli?» — Lo studente doveva battagliare per sette ore in questo torneo sillogistico prima di ottenere il dignus intrare.

BALLATE

A GIOVANNI MARRADI.


Gentil poeta, cui sì dolce suona
e sì soave l’armonia del verso
e in onda malinconica sommerso,
canti piangendo la sorella buona,

che, appena madre, le pupille chiuse
aprendole alla rosea bambina,
e che t’inebrii nelle ombrìe canore
le voci udendo delle alate Muse,
ed aneli alla tomba ove supina
dorme tua madre, e dove, orando, smuore
l’affanno e il grido dell’uman dolore,
oh! sempre, nella triste ara del pianto,
mi sospira nell’anima il tuo canto,
che piange e invoca, e in mesta eco risuona.


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DAL SILENZIO.


Arde la fiamma e oscilla al fiato blando
che spira nel silenzio de la notte:
nella penombra vengono le frotte
dei fantasmi pel muto aer vagando.

A me, che curvo sovra i libri intendo
l’orecchio ad ogni picciolo romore,
tremando viene una piangente voce,
che in un sospiro flebile morendo
l’ansia mi sembra di un ben noto core:
— Figlio, per questo tuo tormento atroce,
pel pianto che rampollati alla foce
degli occhi è santo il tuo lavoro. Oh! anch’io
soffersi a lungo, ed al martirio mio
sol con la morte ottenni tregua orando.